martedì 19 febbraio 2013

il plebiscito.



No
id., 2012, Cile, 118 minuti
Regia: Pablo Larráin
Sceneggiatura non originale: Pedro Peirano
Basata sullo spettacolo teatrale El Plebiscido di Antonio Skármeta
Cast: Gael García Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers,
Luis Gnecco, Néstor Cantillana, Jaime Vadel
Voto: 7.9/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
film straniero
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Il buon Gael García Bernal che tanto ha sofferto a interpretare il miglior ruolo della sua carriera dal quale non ce lo stacchiamo più (i miglior ruoli: Ángel, Juan e Zahara de La Mala Educación) e che è poi passato per dei mostri sacri del cinema quali Iñárritu e Gondry e qualche scemenzuola per pagarsi le bollette (Letters To Juliet, Il Mio Angolo Di Paradiso), è da un po' che concede la fama del suo nome a piccoli film (a volte microscopici) tipo l'americano The Loneliest Planet di Julia Loktev della scorsa stagione e questo cileno No di Pablo Larraín – che se ci sforziamo ci ricordiamo di aver già visto al Festival di Torino del 2008 dove presentava il suo precedente Tony Manero con sempre Alfredo Castro nel cast.
E per calarsi nel clima degli anni '80 il buon Gael si fa crescere i capelli di dietro e impara quattro termini tecnici dei pubblicitari, non quelli alla Mad Men in completo e whisky ma quelli ex hippy che montano giovinette in tuta che ballano sui ponti insieme a famiglie sorridenti davanti al microonde e vogliono portare l'allegria al Cile, schiacciato da una dittatura che al primo sguardo sembra utile ai più ma nasconde anni di torture e di censure e di ricchezze sporche. Il popolo è quindi invitato a presentarsi alle urne per rispondere “sì” o “no” alla domanda: vuoi che Augusto Pinochet continui a guidare il Paese? E il buon Gael è clandestinamente chiamato a lavorare alla campagna che spinge al “no”. Quindici minuti televisivi da riempire ogni giorno, manifesti, loghi, spot, slogan, jingle. Insomma tutto ciò che stiamo vivendo con l'attuale campagna, con la differenza che quella si basa su valori veri, su messaggi significativi, non sulle facce dei candidati e il bollino del partito; e con la somiglianza dell'opposizione, sempre pronta a rispondere all'avversario ricalcando la pubblicità, trovandone i difetti, cambiandola di significato. Siamo ne Le Idi Di Marzo latino-americane dove il gruppo con meno denaro e meno amici ai piani alti si vede lanciare i sassi contro le finestre, il telefono squillare nella notte, le minacce fioccare. Siamo in una sceneggiatura molto ben gestita che procede in climax verso il plebiscito finale, verso dei dati sempre cangianti, mentre queste formichine si vedono inghiottire da un meccanismo decisamente più grande di loro ma che a noi spettatori non sembra: perché il film è girato con una specie di telecamerina da supermercato i cui colori non si sovrappongono come dovrebbero perciò pare di essere davvero davanti a qualcosa che negli anni '80 fu fatto (precisamente, è l'88), e oltre alla fotografia e alla grana della pellicola ci sono un buon uso degli esterni e le scene, i costumi, gli arredi. Completamente calati nell'epoca della coda di cavallo sciolta, vediamo sforzi e gioie della minoranza che si affida a canzoncine tremende («Cile, l'allegria sta arrivando!») per cui siamo logicamente portati a parteggiare per loro (e non per l'oro) puntando il dito contro un dittatore che promette lavoro ai poveri e sicurezze agli ammalati in cui logicamente non crediamo. Il lieto fine è dietro l'angolo e la felicità e contentezza in cui tutti vissero pure, cose scontate già da metà; ma c'è un finale a sorpresa lo stesso, che non aggiunge niente a noi spettatori che guardiamo ma ci fa capire come in realtà non sia tutto rose e fiori per il buono e bravo e geniale Gael, che ha passato una vita a pensare ai modi in cui le aziende possano trarre benefici televisivi e che dopo essersi concesso alla vita, al popolo, alla Democrazia, non riesce più a non guardare indietro.

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