venerdì 22 gennaio 2016

TNT.



La Corrispondenza
id. | 2016 | Italia | 1h 56min
Regia: Giuseppe Tornatore
Sceneggiatura originale: Giuseppe Tornatore
Cast: Olga Kurylenko, Jeremy Irons, Shauna Macdonald,
Simon Johnson, Simon Meacock, Anna Savva
Voto: 4.3/ 10
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Studentessa di Astrofisica e Cosmologia fuori corso ma brillante, stuntwoman nel tempo libero e a chiamata, unica stuntwoman della storia senza agenzia, senza protezioni durante le scene, senza assicurazione – unica ad essere ripresa in faccia in quasi tutte le scene e in quasi tutti i film e a girare senza la controfigura e l'attrice che sostituisce – Olga Kurylenko ci viene presentata in camera d'albergo a dire «amore» «tesoro» «ciccino al pomodoro» a Jeremy Irons nell'unica scena in cui lui è fisicamente presente – in realtà pernottante nella camera di fronte e di passaggio in quell'albergo e in quella città, professore nomade che tiene lezioni sul cosmo in università sparse per il mondo, universalmente rinomato e soprattutto marito e padre di famiglia – di altra famiglia. Olga è l'amante che ama con tutto se stesso, che ha conosciuto e in tre mesi ha ammaliato: lei non pensa ad altri e ad altro, non ha amici, non ha interessi, non ha famiglia – ha una madre che la chiama e a cui non risponde e un trauma paterno che la porta a lanciarsi negli incendi, ma questo non ha tanto senso. Lui la chiama «anima mia» ma soprattutto «kamikaze» e queste sono solo alcune delle parole cardine di una sequela di dialoghi da denuncia morale, dialoghi per lo più unidirezionali perché, come dicevo, Irons poi se ne va da quell'albergo e se ne va dalla storia nel film: comparirà, poi, solo attraverso voci fuori campo, lettere, mail, messaggi, soprattutto video mandati attraverso DVD come si faceva nel 2001 – perché dietro la macchina da presa non c'è un nativo digitale – ma, in fondo, nemmeno davanti. Satira alla società contemporanea? Ritratto dei rapporti umani al giorno d'oggi? Forse che sì forse che no (cit.) ma l'intento si perde dietro a tutto il resto, ogni intento si perde dietro al resto e il resto sarebbe un film che dura due ore e potrebbe durare due minuti dato che consuma la sua unica idea vincente nel primo quarto d'ora: Olga si presenta a una conferenza a cui Irons dovrebbe prendere parte ma lui le scrive di non andarci e il direttore sul palco le dice che lui è morto. A lei, però, continua ad arrivare la corrispondenza del titolo: mail video messaggi lettere DVD. Confusa (e non felice) chiama, chiede, viaggia verso la casa in Irlanda della sua famiglia, bazzica per cimiteri scoprendo che è stato cremato – e intanto continua ad arrivarle la corrispondenza – e in ogni messaggio Irons c'azzecca sempre: sull'esame appena dato, sul libro appena consultato, sulla lezione seguita. L'intreccio parrebbe guardare alla precedente Migliore Offerta, spettacolare noir artistico dalla intricata, complicata, barocca trama, dall'intreccio in-credibile e impossibile, ma dalla tensione altissima, che quasi giustifica il resto, solo che lì il resto fa riflettere e fa rivedere il film; La Corrispondenza è invece una pellicola che si può abbandonare uscendo dalla sala senza sensi di colpa, un film «ridicolo e greve», «grottesco involuto, mai illuminante, solo stantio». Giuseppe Tornatore (di cui ahimè mi rimangio la celebre frase «potrebbe fare un film tutto nero») nel suo percorso artistico internazionale ci aveva abituati a storie apparentemente intime, soprattutto sue, spesso della sua terra, che erano pretesto per raccontare Storie, più grandi: c'eravamo lamentati dei troppo-intimi Baarìa e Malèna e così il germe del thriller ha cominciato a diffondersi da La Sconosciuta in poi. Abbandonato tutto, dimenticato tutto, qui l'unico Fattore Tornatore è nell'idea, nel soggetto, nella riga di storia che viene prima di tutta la produzione del film – solo lì – nemmeno nel libercolo pubblicato in contemporanea dal titolo omonimo (Sellerio, pp. 176, € 13), nemmeno nella riga intera: nell'intento dello scriverla.

the new world.



Revenant – Redivivo
The Revenant | 2015 | USA | 2h 36min
Regia: Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura: Alejandro González Iñárritu & Mark L. Smith
Basata in parte sul romanzo di Michael Punke
Cast: Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson,
Will Poulter, Forrest Goodluck, Paul Anderson,
Kristoffer Joner, Joshua Burge, Christopher Rosamond
Voto: 7.7/ 10
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In principio fu Guillermo Arriaga: il cui interesse per il caso e il caos si sposava divinamente con un regista messicano, «nato autore», Alejandro González Iñárritu: uno scrisse e l'altro diresse Amores Perros e l'attenzione fu mondiale. Si parlava di Città del Messico, quartieri alti quartieri bassi, e di come il caso potesse unire tre storie lontane di isolati. Poi venne 21 Grammi, poi Babel: che di storie ne univa quattro lontane continenti. Il sodalizio si ruppe e le storie iniziarono a non essere corali; Biutiful tornò alla lingua spagnola e poi a sorpresa Birdman l'anno scorso raccontava del non talento, del mondo dei social, dell'amore mondiale confuso con l'ammirazione, della pretesa e della pretenziosità – il tutto sotto forma di barrocchettismo, un unico fintissimo pianosequenza che volava in una unica strada di New York, Broadway. Quattro Oscar a sorpresa visto che l'altro esperimento durato dodici anni, Boyhood, aveva fatto credere di essere il film dell'anno. Così i Golden Globe, questo mese, dovevano chiedere scusa al regista e dargli i premi che avanzava: film, regia, attore protagonista: Leonardo DiCaprio, finalmente senza concorrenza, che non sa più come imbruttirsi, invecchiare, per sporcarsi il faccino immutabile: grande prova fisica e non interpretativa. Si brucia il collo per disinfettare le ferite, mangia carne umana, sventra un cavallo morto per dormirci dentro mentre infuria la neve, si lascia sbattere dalla corrente di un fiume e poi da un animale giù da un dirupo, ma soprattutto lotta contro un orso che lo lascia vivo per miracolo in una sequenza che fra dieci anni studieremo al cinema e poi viene sepolto vivo da Tom Hardy, forse l'attore più sottovalutato del decennio, che impasta un accento incomprensibile mentre si parla francese o la lingua dei nativi americani – lui devoto al fatturato, al capitale, nei boschi gelidi e sperduti di inizio Ottocento: supervisore di un gruppo di lavoratori di pelli di animali cerca di scappare da un attacco di pawnee incurante dei compagni colpiti o feriti: anzi, il figlio di uno di questi, di Leonardo, lo ammazza con consapevolezza, Leonardo lo abbandona nel nulla e tutte le peripezie prima elencate il nostro eroe le fa per vendicarsi dei due torti subiti: un puro western d'altri tempi, un film che non si incastrerebbe in nessun modo nella carriera di Iñárritu: se non per le pelli sporche, i corpi marci, le carni rancide; e l'esistenzialismo sfiorato, l'esistenza e il rapporto tra il vivere e il sopravvivere. Alla vendetta, che è solo nelle mani di Dio, si affianca ancora una volta la tecnica. La musica abbandona la batteria per un connubio rumori naturali + sintetizzatore + orchestra; la macchina da presa, una nuova camera digitale, la Alexa 65mm, impazzisce e in nuovi, lunghi pianisequenza inquadra, usando lenti grandangolari, alberi dalla base del loro fusto, canne di fucile di scorcio in prospettiva a farle sembrare eterne; e si avvicina ai volti perché ci respirino sopra, annebbino lo schermo, ci sputino sangue. Non ricordo un direttore della fotografia che, come Emmanuel Lubezki, abbia quasi preso il posto del suo regista: e non è un caso che si faccia riferimento (e sarebbe impossibile non farlo) a The New Word, che Malik diresse e Lubezki fotografò. In questo caso però la storia di partenza è vera e veritiera: ma l'intento è nobile quando necessario: chiedere scusa ai nativi americani per il più grande e immotivato genocidio che la Storia possa ricordare.

venerdì 15 gennaio 2016

Adrian's.



Creed –
Nato Per Combattere
Creed | 2015 | USA | 2h 13min
Regia: Ryan Coogler
Sceneggiatura: Ryan Coogler & Aaron Covington
Basata sui personaggi di Sylvester Stallone
Cast: Michael B. Jordan, Sylvester Stallone, Tessa Thompson,
Phylicia Rashad, Andre Ward, Tony Bellew, Ritchie Coster,
Graham McTavish, Malik Bazille, Ricardo McGill, Gabe Rosado
Voto: 6.8/ 10
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Chi avrebbe mai pensato che il duo Ryan Coogler - Michael B. Jordan dopo il bel Fruitvale Station che si fece strada tra i premi del cinema indipendente due anni fa, avrebbe sfornato non il settimo Rocky ma il primo Creed. Il soggetto è del regista – per cui viene da domandarsi dove abbia tenuto nascosta la passione per la boxe fino ad oggi: e di Jordan, dove abbia messo quei bicipiti e quel trapezio. Certo il punto di partenza deve essere quello: il figlio di Apollo Creed che non ha mai conosciuto il padre e fa entra-ed-esci da riformatori e istituti sociali viene su con il pugno facile e la voglia di seguire le orme paterne – senza farne il nome, ovviamente. Si fa chiamare infatti Johnson come sua madre e va a tampinare Balboa per convincerlo a diventare suo allenatore. Molti «no», infine il «sì» che fa cominciare il film. Sylvester Stallone con meno botulino che alle cerimonie di premiazione usa un unico tono per dire qualsiasi cosa – ma dice bene, mentre tutto il resto della faccia non si muove. Ricorda i tempi in cui era uno sconosciuto che si presentava come attore ai provini e poi finiva a scrivere le sceneggiature – ed è il primo film della saga che non scrive. Sarà per questo allora (?) che c'è un problema di esasperante banalità narrativa che avvolge il già banale sviluppo della vicenda: la scappata da casa, la musica troppo alta al piano di sotto al nuovo appartamento, Tessa Thompson (guardacaso nera come il protagonista) guardacaso che apre la porta e si fa invitare a cena. Poi liti con l'allenatore, liti con la morosa, riappacificazioni, l'incontro degli ultimi 20 minuti che macina tutti e 12 i round. Un film sulla boxe e sulla scalata sportiva come cento milioni di altri film sulla scalata sportiva e sulla boxe – con la differenza che questo, a detta dei pugili veri, è un tripudio di impossibilità a partire dal troppo sangue versato (ad esempio, ad Adonis a metà incontro si chiude completamente un occhio) (che nella scena successiva è completamente aperto). Per accorciare i tempi, l'incontro del secolo tra il figlio di Creed (che merita?, o è solo nome?) e il campione di pesi arriva dopo una unica lotta clandestina e sono già stendardi, dirette nazionali, stampa e televisione. Dopo il sottofinale è chiaro che la speranza è quella: che il film vada bene in modo da continuare il franchise confidando nel successo dell'antenato – che tra l'altro, Rocky fu famoso e annoverato nella Hall of Fame dei pugili esistenti perché bianco ai tempi dei neri, caso unico di tecnica mentre gli afroamericani erano i veri campioni del genere; adesso, dopo anni, si ribalta la cosa e a detta del co-protagonista (Golden Globe per l'interpretazione di supporto e Oscar dietro l'angolo con tripudio anche dei mobili) lentamente Rocky svanirà dalla scena fino a non sapere più niente di lui per lasciare spazio al vero personaggio principale. Intanto Ryan Coogler si attiene al modello e confeziona un film con i suoi ralenti mentre ci si allena, i montaggi alternati, la parabola infanzia-difficile-nei-centri-di-recupero/ adolescenza-con-la-testa-a-posto – e solo in alcune scene si lascia andare al mestiere, tipo la lunga camminata dal camerino al ring poco prima dell'incontro finale, un pianosequenza silenzioso, con i due attori di spalle, spezzato da una frase detta per forza: uno spiraglio in un film del genere.

giovedì 14 gennaio 2016

ciliegina.



Assolo
id. | 2015 | Italia, Francia | 1h 37min
Regia: Laura Morante
Sceneggiatura originale: Laura Morante & Daniele Costantini
Cast: Laura Morante, Piera Degli Esposti, Francesco Pannofino,
Lambert Wilson, Marco Giallini, Donatella Finocchiaro,
Angela Finocchiaro, Antonello Fassari, Gigio Alberti,
Emanuela Grimalda, Carolina Crescentini, Eugenia Costantini,
Edoardo Pesce, Giovanni Anzaldo, Filippo Tirabassi
Voto: 6.9/ 10
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Laura Morante ha due ex mariti (Francesco Pannofino e Gigio Alberti) da cui ha avuto altrettanti figli (Filippo Tirabassi e Giovanni Anzaldo): i due ex mariti hanno due nuove compagne (Emanuela Grimalda e Carolina Crescentini) – e una tradisce uno, e uno tradisce una; ha ancora due uomini: un amante, che non si decide a lasciare la moglie, il francese Lambert Wilson dato che, come il film precedente, per metà la Morante è francese; un collega, Marco Giallini, più burino che mai. Ha due amiche: una che è anche collega, Donatella Finocchiaro, massaggiatrice nell'albergo di lusso in cui lavorano entrambe; un'altra che è Angela Finocchiaro, dipendente dal marito che l'ha lasciata da ormai sette anni e che continua a pedinare, a chiamare, a controllare, a farsi piacere – e che guarda quella che potremmo definire TV-spazzatura in un siparietto che è il più veritiero del film intero: il livello intellettuale che si annebbia di fronte ai montaggi serrati di certi programmi-verità. Infine ha una psicoterapeuta, Piera Degli Esposti – con qualcosa che non va in faccia, addobbata e acconciata ma ferrea nel suo ruolo: presenza fissa dentro e fuori il campo, costringe Laura/ Flavia a parlare di sé, visto che parla solo degli altri, a parlare del suo rigetto per la masturbazione, del suo desiderio sessuale represso, del motivo per cui non prende la patente e delle basi nascoste del desiderio di vivere a Paperopoli: dove non ci sono né madri né padri ma solo zii e una nonna che fa le torte di mele. Una sceneggiatura sconnessa, scollegata, narrativamente a singhiozzi, senza un vero filone di trama per punteggiare pregi e difetti – anzi soprattutto difetti – di una protagonista pienamente cinquantenne, che deve affrontare la vecchiaia, la decadenza fisica, quella erotica, la solitudine effettiva e quella percepita, il confronto con gli altri. L'unica valvola di felicità parrebbe essere il cane di quelli-di-sopra, mentre l'assolo del titolo riguarda la presa di coscienza, di posizione, per evitare di scivolare nelle avances degli uomini sbagliati – sbagliati nel senso che non sono necessari – per affrontare il più grande demone della nostra società: quello di essere da soli, sentimentalmente, forse anche socialmente, e stare bene. Non si sa quanto la Morante stia bene in questo senso ma la ricerca frenetica di un uomo la perseguita sia come attrice che come autrice (scrive, dirige e interpreta questo film, seconda volta), insieme alle nevrosi da curare, alle schizofrenie interpretative. Non poteva mancare quindi la figura dell'analista che rende l'impianto americanoide, affiancato da un ritmo francese che comincia però come una pellicola di Fellini, in queste digressioni oniriche di uomini in completo (che ricordano anche il Café Müller di Pina Bausch) che si fanno circensi oppure di donne nel bosco con cappelli e fiori, spiritualizzate, come la Giulietta di Federico. Sicuramente un film imperfetto, che viaggia su due binari troppo banali: l'incapacità di prendere metaforicamente la patente di guida e la relazione con un animale adottato, maltrattato dai suoi “genitori biologici”. Un film però che dimostra come la commedia in Italia possa svincolarsi dai soliti canoni, come le risate possano giungere da una dialettica (forse pretenziosa) aulica, fuori campo, colta, letteralmente elevata – soprattutto toccando temi (esasperati) legati alle famiglie imperfette e disfunzionali nascosti in telefonate giovanili che raccontano di un erasmus o pranzi in silenzio sfiancati da relazioni morbose. Un assolo, corale, discorde.

lunedì 11 gennaio 2016

swap.



La Grande Scommessa
The Big Short | 2015 | USA | 2h 10min
Regia: Adam McKay
Sceneggiatura non originale: Charles Randolph & Adam McKay
Basata sul romanzo The Big Short – Il Grande Scoperto
di Michael Lewis (Rizzoli ETAS)
Cast: Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling, Brad Pitt,
Marisa Tomei, Melissa Leo, Karen Gillan, Aiden Flowers,
Charlie Talbert, Harold Gervais, Margot Robbie, Selena Gomez
Voto: 7.6/ 10
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Christian Bale suona la batteria, scalzo, nel suo ufficio: la musica a palla, biascica parole, messaggi in segreteria, mail – e fuori i suoi colleghi contano il numero di giorni che è stato chiuso là dentro, «ogni tanto lo fa». Si chiama Michael Burry e dopo aver letto fascicoli di migliaia di pagine si rende conto di un gap nei contratti del mercato immobiliare, contratti che noi non capiremmo mai, dalle sigle e dai cavilli che ci vengono spiegati, più o meno metaforicamente, da Margot Robbie nuda in vasca da bagno che beve champagne, Anthony Bourdain in cucina con del pesce di tre giorni, Selena Gomez al tavolo di un casinò – ci spiegano nel dettaglio terminologie e stratagemmi ma noi continuiamo a non capire, soprattutto perché si parla alla velocità della luce e si parla in dozzine di persone nella stessa stanza che all'unisono danno del pazzo a Burry, ormai convinto che Wall Street sia vicina al crollo e scommettitore di miliardi di dollari contro azioni che, nel 2005, parevano sicuramente felici e alle stelle. Gli sta dietro prima: Ryan Gosling, che torna in sala dopo una parentesi da regista (Lost River, «un impegno molto maggiore del recitare», girato a Detroit, «città particolarmente colpita dalla crisi»), nella voce dentro e fuori campo Jared Vennett: «per un attore un ruolo del genere è un sogno, nel film fa letteralmente di tutto: passa dal dramma alla commedia nella stessa scena, interagisce col pubblico, è stato uno spasso». Gli sta dietro poi: Steve Carel, una metamorfosi, che dopo Anchorman 1 e 2 torna a lavorare con Adam McKay (storico sceneggiatore del Saturday Night Live) per interpretare l'esistente e vivo Mark Baum, che grazie a una telefonata sbagliata venne a sapere della mossa di Burry e a metà tra la disperazione per le perdite economiche del Paese e la consapevolezza di poter fare i milioni, si aggiunse alla grande scommessa. Oltre a Melissa Leo e Marisa Tomei, due Premi Oscar che si intravedono appena, completa il cerchio Brad Pitt, ruolo piccino di mentore selvatico di due wannabe pescecani post-adolescenti, anche produttore della pellicola con la sua Plan B, «una delle società più appassionate e coraggiose della Hollywood odierna» ha dichiarato Carell. Come si dice, cast stellare per due ore abbondanti non facili in cui si mischiano foto a schermate di computer, videoclip musicali a materiale d'archivio, immagini di repertorio a fiction storicizzata ed esagerata, con personaggi che ogni tanto parlano allo spettatore, ogni tanto parlano fuori campo, con la telecamera che a volte è lontanissima a volte anatomicamente vicina: e il cast che improvvisa, pedinato dalla macchina da presa, a mo' di quel mockumentary che va tanto di moda adesso. Un pastiche partecipato e incredibilmente calibrato dal suo autore per fare una feroce satira al sistema contemporaneo, con tanto di catastrofica previsione su quello che ci aspetta (vedi alla voce: acqua). Addio commediole demenziali con Will Ferrell: McKay si fa burattinaio (e gli viene facile con quattro maschi del genere) di un quadro che fa riflettere chi non ha potere e fa indignare chi dovrebbe riflettere, e mira a far nascere quel germe che scatena le rivolte – compito dignitoso del cinema. Ma ammetto: chiede allo spettatore troppo.

Golden Globes 2016 – vincitori.



È Kate Winslet (nella foto) ad aprire le danze – più sorpresa di noi che guardiamo la sedia di Jennifer Jason Leigh rimanere piena – migliore attrice non protagonista per Steve Jobs, che vince anche, sempre a sorpresa, il premio alla sceneggiatura; e ringrazia subito Michael Fassbender, attore che ha cambiato il cinema recente, dice, e che per lo stesso film resta a bocca asciutta. Ma è Quentin Tarantino a scuotere le masse ritirando il globo d'oro a Ennio Morricone, il suo compositore preferito, preferito «non nel cinema: ma a partire da Mozart, Schubert…» e aggiunge che a più di ottant'anni Morricone non ha mai ricevuto un premio in America e grazie a lui, che lo adora, riceve il suo primo Golden Globe. Tutti in piedi, anche i tavoli, per Sylvester Stallone attore non protagonista in Creed – Nato Per Combattere, tra poche settimane nei nostri cinema (e siccome questa è la cerimonia delle standing-ovations, nonostante tutti mangino, vince anche Lady Gaga come attrice per American Horror Story, e poi la famiglia Coppola per Mozart In The Jungle e il suo protagonista). Passando ai premi cicci, avendo preferito Boyhood a Birdman, l'anno scorso, la Hollywood Foreign Press Association non poteva non farsi perdonare e così Alejandro G. Iñárritu rivece la statuetta alla migliore regia (!), al miglior film (!) e al migliore attore protagonista drammatico Leonardo DiCaprio, per Revenant – Redivivo (di cui fa capolino grazie a Jonah Hill anche l'orso co-protagonista, in una gag particolarmente non riuscita) (moltissime gag, quest'anno, erano particolarmente non riuscite). Attore comedy è invece Matt Damon, che ricorda di essere salito su quel palco ormai n anni fa: The Martian, blockbuster che «per una volta tutti hanno visto al cinema», è anche la migliore commedia dell'anno. Menomale che non ci sono state sorprese per il film straniero, l'ungherese Figlio Di Saul, introdotto da una felice Helen Mirren e diretto da un giovanissimo László Nemes; e nemmeno per il film animato, l'ovvio Inside Out – e la Joy dell'anno, nonostante il terzo Globe quasi di fila per Jennifer Lawrence (non candidata al SAG ricordiamo), è proprio quella di questo film. Per terzultima in una serata che ha estenuato anche il suo presentatore Ricky Gervais, eppure alla quarta volta, è giunta la statua della categoria più dibattuta, battuta, interessante, interessata della notte: l'attrice drammatica, che è Brie Larson per il potente Room, e che, giustamente, era vestita da Premio Oscar: batte le due attrici di Carol (la pellicola con più nomine e nessun premio) (gli altri big a bocca asciutta: La Grande Scommessa e Spotlight) e Alicia Vikander, che con una mano tra le gambe di Fassbender, aveva due nominations individuali.
Di seguito e dopo l'interruzione tutti i candidati e i vincitori per il cinema.

miglior film
drama
Carol
Mad Max: Fury Road

Revenant – Redivivo
Room
Il Caso Spotlight

miglior film
musical o comedy
La Grande Scommessa
Joy

Sopravvissuto – The Martian
Spy
Un Disastro Di Ragazza


sabato 9 gennaio 2016

lady m.



Macbeth
id. | 2015 | UK, Francia, USA | 1h 53min
Regia: Justin Kurzel
Sceneggiatura non originale: Jacob Koskoff,
Michael Lesslie e Todd Louiso
Basata sulla tragedia omonima di William Shakespeare
Cast: Michael Fassbender, Marion Cotillard, Paddy Considine,
Lochlann Harris, Lynn Kennedy, Seylan Baxter, Hilton McRae,
Sean Harris, Jack Reynor, David Thewlis, David Hayman
Voto: 6/ 10
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«[…] un'operazione fallimentare, fedele al testo nei dialoghi ma traditrice nella sostanza: non un male in sé, ma le immagini di battaglia congelate, i ralenti estenuanti, l'enfasi riversata a piene mani in ogni circostanza, avvicinano il film a 300 di Zack Snyder […]. Dubbi anche sulla recitazione di tutti, impostatissima. Siccome gli attori sono notoriamente bravi, il difetto è nel manico» scrive il direttore di Film TV: e le parole giustificano una bocciatura generale, un silenzio quasi indifferente che echeggia da Cannes, dove il film fu presentato in concorso per ultimo. Eppure la potenza visiva e sonora è immensa (ma «l'incessante accompagnamento musicale di sottofondo dopo un po' comincia ad assomigliare allo stridio di una sega circolare», Paola Casella): la Scozia che raccontava Shakespeare nella più importante delle sue tragedie è ripresa esteticamente in quello stesso modo: con quei castelli diroccati ma intatti, quelle sale immense, immensamente spoglie ma decorate da archi, e poi gli esterni, i boschi e i giardini e soprattutto il cielo a tutte le ore del giorno, e le battaglie, le facce degli uomini in battaglia, maschere di guerra fatte di terra e di sangue, tutto restituito attraverso una fotografia (di Adam Arkapaw) impeccabile e soprattutto una sfilata di costumi (di Jaqueline Durran, Premio Oscar per Anna Karenina) che mischiano mirabilmente moderno e medievale, veli e perle, ossa e legno. Come lo scenario, a volte apparentemente dipinto, è fedelissimo all'opera-prima anche lo script, che circolava da anni alla ricerca di un regista. Spiega il produttore Ian Canning che la scelta è infine caduta su Justin Kurzel grazie al suo esordio cinematografico Snowtown, in cui un personaggio maschile riusciva a riunire attorno a sé una comunità intera e che quindi assomigliava, ispirava quest'altra storia: opposta, dato che Macbeth viene annunciato da tre “sorelle fatali” come prossimo re, ma la sua poca ambizione, il senso di insufficienza che lo pervade, gli ostacoli attorno, i legittimi reali lo portano continuamente sulla soglia del dubbio – e così la moglie, madre di un bambino morto e cantato nella prima immagine, interviene in modo da rendere vera la profezia: però la sete di potere, l'arrampicata sociale lentamente perde appiglio e se da una parte si sgretola in senso di colpa, dall'altra diventa follia allucinogena. Michael Fassbender è il secondo nome scritturato dopo quello del regista, e incarna un Macbeth sfiancato da disturbi post-traumatici non dissimili da quelli dei reduci di guerra, colpiti da allucinazioni, ossessionati da immagini terribili di persone e personaggi che potrebbero non esserci; più che dell'ambizione, Fassbender si preoccupa di affondare nel dramma familiare: «quello dei protagonisti è un disperato tentativo di riportare in asse il rapporto, dopo una deviazione tanto drammatica» che è la perdita di un figlio. Abbandonato da Natalie Portman, è soccorso sul set da un'altra migliore attrice, «the best in the business», Marion Cotillard, che nella conferenza stampa del festival francese non nasconde la difficoltà ad approcciare il ruolo: «ho interpretato spesso personaggi drammatici, ma non fino a questo punto. In lei tutto è buio», dice, e non c'è bisogno di ricordare che Judi Dench è quello che è soprattutto grazie al ruolo di Lady M., che in questo caso riesce quasi a farsi più protagonista del protagonista, comunque sempre figura essenziale al dramma, madre e moglie gelida, matrice di mostruosità. Eppure, tolto un paio di sequenze leggermente diverse dall'originale, tutto è fedele a sé, estetizzato, ingerito senza tener conto dei demoni di Welles, Polanski e Kurosawa alle spalle: ma se il coraggio della rielaborazione dei precedenti riusciva a formulare capolavori, qui il rigore formale e la devozione all'originale non fa niente di più del già-fatto.

venerdì 8 gennaio 2016

premi dei sindacati/ 1.



I sindacati cinematografici americani sono cricche di lavoratori davanti e dietro alle telecamere che per la maggiore compongono l'Academy, cioè la cricca per eccellenza che ogni anno vota, candida e premia (l'eccellenza?) con la statuetta (per eccellenza) che è il Premio Oscar. Queste candidature – frammentate e molto tecniche, certo – servono quindi soprattutto a capire, prima dell'ufficializzazione del 14 gennaio, quali sono i nomi che i membri della giuria mormorano. Ed è un piacere sentire quello di Dante Ferretti, scenografo di Fellini, di Scorsese e di Tim Burton, tre volte premiato con Francesca Lo Schiavo e candidato all'ADG Award questa volta per il magnifico ruolo in Cenerentola – altrettanto doveroso quello della costumista Sandy Powell. Gli ADG Awards saranno consegnati domenica 31 gennaio; salta subito all'occhio l'assenza di Carol, probabilmente perché la scenografa Judy Becker è candidata già per Joy, e quella di Brooklyn; ma è un piacere vedere riesumato Crimson Peak nella categoria del mastodontico The Danish Girl (sotto questo aspetto). I WGA premiano invece (il 13 febbraio) le sceneggiature, originali e non originali: al tanto elogiato Room scritto dalla stessa autrice del romanzo viene preferito Sopravvissuto, insieme ai tanto elogiati La Grande Scommessa, Trumbo e Steve Jobs. Sul versante parallelo Amy Schumer grazie alla sua fama televisiva è nominata come scrittrice di Un Disastro Di Ragazza e saltella verso gli Oscar; la spunta Sicario, passato inosservato a Cannes e Straight Outta Compton, che ha incassato troppo per non essere preso in considerazione. ASC Awards che saranno consegnati il 14 febbraio: i premi dell'American Society of Cinematographers e cioè: i direttori della fotografia. Non manca il due volte (consecutive) vincitore dell'Oscar Emmanuel Lubezki per Redivivo, del suo fedele regista e compatriota: se la vede col veterano Roger Deakins sempre ignorato dall'Academy e con John Seale per il film dell'anno, Mad Max. Infine i produttori: quelli che ci mettono i soldi e che, quindi, ritirano i premi più importanti. Fa parlare la presenza di Ex Machina, già premiato dal cinema indipendente, mentre per quanto riguarda l'animazione Inside Out non lascia concorrenti e, nei documentari, Amy si scontra con The Look Of Silence e poco altro. I vincitori saranno annunciati sabato 23 gennaio.
Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i nominati.

mercoledì 6 gennaio 2016

il Signor Principe.



Il Piccolo Principe
The Little Prince | 2015 | Francia | 1h 48min
Regia: Mark Osborne
Sceneggiatura: Irena Brignull & Bob Persichetti
Basata sul romanzo di Antoine de Saint-Exupéry
Voci originali: Rachel McAdams, Benicio Del Toro, Paul Rudd,
James Franco, Marion Cotillard, Mackenzie Foy, Jeff Bridges,
Paul Giamatti, Vincent Cassel, Albert Brooks, Ricky Gervais
Voci italiane: Andrea Santamaria, Vittoria Bartolomei,
Stefano Accorsi, Alessandro Gassmann, Micaela Ramazzotti,
Toni Servillo, Paola Cortellesi, Pif, Alessandro Siani
Voto: 4.8/ 10
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Passati gli anni, sbloccata l'esclusiva della Bompiani sul manoscritto, tutti, persino la Sellerio, hanno pubblicato la propria versione de Il Piccolo Principe, la «tradizionale storia più amata del mondo» che ha avuto versioni televisive e cinematografiche più o meno consecutive, teatrali, di merchandising soprattutto elementare (nel senso: per la scuola primaria), ma come per i Peanuts, è obbligo aggiornare le generazioni sempre più nuove e allora ecco un'altra trasposizione per il grande schermo pronta pronta per le feste in cui i bambini sono a casa: la storia è quella di una piccola giudiziosa che deve sostenere il colloquio per accedere alla più prestigiosa scuola della città, del Paese, con una madre alle spalle che la incoraggia e la istruisce: ma il colloquio fa fiasco e allora, per le restanti vacanze estive, ecco trovata e comprata una nuova casa in quel quartiere, un tabellone di marcia, una scaletta rigorosissima sull'ordine dello studio, della sveglia, della ginnastica, della colazione, del riposo e dello studio ancora. Il papà non c'è, la mamma non c'è mai. Di fianco, motivo per cui la casa trovata e comprata in una scena di due minuti costava così poco, abita un vecchio aviatore con un aereo in giardino e la presunzione di accenderlo ogni tanto recando danni a chi sta intorno. Questo vorrebbe raccontare la sua storia a qualcuno, ma non sa a chi: la bambina prima è restia, poi si lascia ammaliare anche solo per evitare il ritmo angosciante a cui è sottoposta. Il regista di Kung-Fu Panda Mark Osborne all'inizio rifiutò di dirigere la pellicola: gli chiedevano di fare un «gran film» e lui sapeva che era cosa impossibile (ma perché, poi?); la soluzione, dopo varie riscritture, è arrivata immaginando un mondo in cui il romanzo di Saint-Exupéry non fosse mai stato pubblicato, in cui al vecchio in difficoltà, aiutato da un bambino nel deserto, si sostituisce il ribaltamento del bambino in difficoltà nella metropoli, aiutato da un vecchio mezzo pazzo. Se ne ricava il cartone-animato-come-tanti aiutato da una miriade di voci celebri in tutte le lingue (da noi spiccano la Cortellesi e Accorsi, si sente anche Pif, Toni Servillo) che mantiene il nome collettivo di Piccolo Principe anche se di principe ad un certo punto ce n'è uno anche grande e l'apprendistato alla vita con tanto di morte necessaria viene eliminata per il più tradizionale/ista lieto-fine. Perché, allora, andare ad attingere da un romanzo che si fa storia nella storia? Ancora merchandising forse, giustificato dallo sperimentalismo animato. Ai due livelli e mezzo di narrazione infatti se ne affiancano altrettanti di tecnica: personaggi tridimensionali come gran parte dei prodotti animati made-in-USA, poi impercettibili personaggi di carta dall'apparenza piatta ma in realtà disegnati per la “storia di mezzo” e infine lo stop-motion del Piccolo Principe che conosciamo tutti, mezzo pongo e mezzo legno, vestito di tessuto di carta, la rosa, la volpe dalla doppia faccia (!), l'uomo che conta le stelle. Tante giustificazioni perché «il libro è dedicato a un amico dello scrittore quando era stato bambino, cioè un adulto», e così come il libro, il film deve riuscire a parlare a più target: la protagonista allora è una bambina che si vede già impiegata d'ufficio, manager aziendale, mentre l'anziano che la cambia è rimasto bambino dentro: agli adulti piacerà la parte non narrativa e ai più piccoli quella classica: il contesto è un mondo omologato e il cambiamento arriva da chi è rimasto puro, o da chi comincia ad esserlo. Ma tutte queste cose, le abbiamo già viste, le abbiamo già lette, e c'era stata, quelle volte, della poesia.

lunedì 4 gennaio 2016

certe classifiche.



«You do you, Chaiers» scrive Indiewire, uno dei più affidabili e importanti giornali on-line di cinema americano e non solo: e i Chaiers du Cinéma francesi do them perché mettono al primo posto della loro personalissima classifica del meglio del 2015 un film non americano, non francese, ma italiano: Mia Madre di Nanni Moretti – e non sarà mica un caso se era in concorso a Cannes come quasi tutti i film precedenti. I francesi lo amano, Nanni, nemmeno quanto gli italiani. Anche se sorte diversa è stata quella agli European Film Awards, dove a trionfare è stato Youth – qui assente da ogni chart. Fisso per tutti i critici in tutti gli elenchi è Mad Max: Fury Road (nella foto, una scena), il ritorno di George Miller sulla sua vecchia trilogia riarrangiata, rivista e remixata, nonostante il genere convince tutti e incassa un premio dopo l'altro. Gli sta leggermente dietro Carol, per alcuni il capolavoro di un secolo, per altri niente di che. Fatto sta che al momento parrebbe essere la pellicola con più chance alle prossime grasse statuette. Un altro italiano, incredibilmente, nella lista del meglio secondo Indiwire: un italiano che neanche gli italiani hanno apprezzato, e cioè La Sapienza, elogio dell'architettura di Borromini recitata malissimo ma ben orchestrata, passato dal Festival di Torino con un po' di applausi e poi nemmeno di striscio dalle sale. Neanche i super-indie USA resistono all'Interceptor di Tom Hardy ma all'altro fenomeno dell'anno, Inside Out, preferiscono Cheatin', un film d'animazione maturo quanto invisibile. Altra presenza continua, sempre animata, è Anomalisa, svolta stop-motion di quel geniaccio di Charlie Kaufman, e dall'anno scorso con furore il Vizio Di Forma di Paul Thomas Anderson – pellicola incomprensibile a prima vista. La spunta il trittico portoghese infinito Le Mille E Una Notte, il documentario di Kapadia Amy, The Assassin, a sorpresa non in lizza per l'Oscar al film straniero come tutti i migliori film della categoria, Figlio Di Saul che invece l'Oscar lo dovrebbe vincere, il bel 45 Anni, Diamante Nero – ma soprattutto Il Segreto Del Suo Volto del tedesco Christian Petzold: l'avevo detto io, all'epoca, che era un gran film. Best Movie fa un mistone di vecchio e nuovo e nuovissimo, italiano e americano, decretando Room pellicola del 2015 – e chissà se l'hanno visto sul serio – mentre Film TV di Mauro Gervasini applaude il banalotto, ritrito Blackhat di Michael Mann: fanno anche notare che l'annata, «ricca di proposte interessanti», è stata segnata da un numero eccessivo di uscite in sala. Inside Out, con oltre quattro milioni di spettatori e 25,298 milioni di euro di incasso, è anche il nostro titolo più visto.
Dopo l'interruzione, le maggiori classifiche.

venerdì 1 gennaio 2016

carol of the bell.



Carol
id. | 2015 | UK, USA | 1h 58min
Regia: Todd Haynes
Sceneggiatura: Phyllis Nagy
Basata sul romanzo Carol di Patricia Highsmith (Bompiani)
Cast: Cate Blanchett, Rooney Mara, Kyle Chandler,
Jake Lacy, Sara Paulson, John Magaro, Cory Michael Smith
Voto: 7.9/ 10
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Che responsabilità essere «il miglior film attualmente in sala», il film col maggior numero di nominations ai Golden Globes (cinque: film, regia, entrambe le attrici protagoniste e colonna sonora), con due interpreti femminili tra le migliori – una e mezzo in realtà, ché Cate Blanchett è un manuale di recitazione ma Rooney Mara, nonostante il premio (motivante?) a Cannes, non è che proprio passi alla storia; e da tanta responsabilità derivano tante aspettative, per cui in molti, tra quelli che hanno visto Lontano Dal Paradiso, dello stesso regista, non troveranno molto di nuovo: non troveranno, in generale, novità nell'impianto e nel genere. Ma il melodramma, in questo caso, è punto di partenza e punto di arrivo, celebrazione della categoria: ispirazione per una messa in scena che ricalchi quella, un film fatto come si faceva negli anni '50 che racconta – a partire dal retrogusto thriller, con tanto di pistola, che guarda a Gilda ma che è frutto della penna di Patricia Highsmith, dal cui romanzo omonimo è tratta la sceneggiatura di Phyllis Nagy (guardacaso una donna), che è la scrittrice di Mr. Ripley. E le feste natalizie, che spesso ascrivono una pellicola a quel catalogo di film (on-demand?) da fine dicembre, inizio gennaio, quasi improponibili durante il resto dei mesi, non sono altro che una metafora dell'ipocrisia della società americana che si sforza di farsi piacere, e piacere, in una manciata di giorni – stesso sottotesto che era del film di cui prima, ma qui i doppi sensi sono esasperati. La Carol del titolo incontra Therese nei grandi magazzini in cui la seconda lavora: cerca un trenino elettronico da regalare alla figlia il venticinque. Con l'arguzia di chi è meno giovane, lascia (dimentica?) il suo paio di guanti sul bancone e Therese cerca di mettersi in contatto con lei per restituirglieli – finiscono a pranzare insieme, durante una pausa; poi finiscono a girare l'America in macchina attraverso varie stanze d'albergo. Carol è sposata ma il suo matrimonio è finito. Lei parrebbe essere l'unica ad ammettere l'evidenza, a desiderarla, davanti al velo di convenzioni e obblighi che il periodo storico le impone. Il marito la costringe al vincolo nonostante non vivano più insieme con ricatti e rancori che vanno indietro nel tempo, al tempo in cui Carol aveva una relazione non meglio definita con Sara Paulson. A Carol piacciono le donne, e non fatica a negarlo, addirittura arriva ad urlarlo nonostante quello che potrebbe conseguire; Therese chiede al suo fidanzato: «sei mai stato innamorato di un altro ragazzo?» con l'ingenuità di chi non ha ricevuto nessun tipo di educazione. Le costrizioni di Brokeback Mountain che trovano sfogo soltanto nell'isolamento bucolico qui si fanno Thelma & Louise in macchina, guardando a Mildred Pierce e ai suoi impeccabili interni medio-borghesi, aristocratici, color pastello: la fotografia, la musica senza precedenti di Carter Burwell confezionano un'altra metafora, un'altra perfezione che è solo apparente, superficiale, per mascherare le peripezie legali e le minacce individuali. Todd Haynes torna sui suoi passi: torna a dirigere la Blanchett dopo Io Non Sono Qui, film-collage, montage of heck, su un Bob Dylan immaginario dopo il realistico Brian Slade di Velvet Goldmine. Ma più che il “periodo queer”, sono il film con Julianne Moore e Kate Winslet a fare da eco, memori di personaggi forti, donne contro corrente, ribelli, sole senza nessuno, che non accettano supinamente e fanno qualcosa per cambiare: e cambiano un film solo all'apparenza uguale a tanti, come tutti i grandi film.