giovedì 21 marzo 2013

ma cos'hai messo nel caffè.



Gli Amanti Passeggeri
Los Amantes Pasajeros, 2013, Spagna, 90 minuti
Regia: Pedro Almodóvar
Sceneggiatura originale: Pedro Almodóvar
Cast: Antonio de la Torre, Hugo Silva, Miguel Ángel Silvestre,
Laya Martì, Javier Cámara, Carlos Areces, Raúl Arévalo,
José Maria Yazpik, Guillermo Toledo, José Luis Torrijo,
Lola Dueñas, Cecilia Roth, Blanca Suárez, Penélope Cruz,
Antonio Banderas, Carmen Machi, Paz Vega, Pepa Charro
Voto: 7.5/ 10
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Pedro pazzerello che col sole spunta ogni marzo degli anni dispari torna in sala dopo averci incantato con Volver, coinvolto con Gli Abbracci Spezzati e deluso con La Pelle Che Abito rispondendo al calo artistico tornando alla sua vecchia gloria: la commedia. E sebbene siano molte le pellicole di genere (e sui generis) del passato madrileno rimpianto dal personaggio di Norma (una su tutte: la geniale Kika) è palese qui come, giunto all'età in cui l'autocitazione è doverosa, torni a ricalcare quella che gli diede fama e gioia (e una nomination all'Oscar): Donne Sull'orlo Di Una Crisi Di Nervi. È palese nella scena del tentato suicidio al ponte-balcone, lo è nei cocktail corretti con sonniferi e droghe, lo è nei sonni lunghi quanto metà film, nelle portinaie che raccolgono oggetti lanciati dalle finestre. Ma se quella era un susseguirsi di eventi che coinvolgevano valanghe di personaggi, qui di personaggi se ne contano più del doppio e la trama è una frase sola: un aereo ha perso un carrello e gira su se stesso sopra a Toledo in attesa che sia pronta la pista d'atterraggio d'emergenza di La Mancha. La terra natale sempre presente descritta qui col dispiacere degli scandali aeroportuali, mentre il solito fratello Agustín si concede il solito cameo di mezzo minuto in un ruolo a caso. Lasciano la propria presenza anche le glorie di metà carriera, Penélope Cruz e Antonio Banderas, i divi internazionali che sono strana coppia con problemi logomotori nella frecciatina iniziale sulle nuove tecnologie, con le quali se ci si sta dissanguando non si chiede più in fretta il soccorso ma lo si scrive su Twitter.
E l'occhio nostalgico sulla situazione spagnola porta dentro all'aereo nel modo più vecchio del mondo, che fu dei Dieci Piccoli Indiani fino al Fascino Discreto Della Borghesia: gruppo costretto in un luogo chiuso fino all'isteria. Pare il pretesto migliore per il regista dei monologhi nervosi: l'alcool fa parlare tutti troppo e le droghe portano a rapporti spudorati e verginità perse. E dove le scene parlate brillano al solito modo, l'unica immagine che abbiamo dell'esterno è quella che stona e abbassa il tono, in un'improbabile incontro-scontro di persone e telefoni e amori passati. E l'occhio nostalgico di Pedro, dicevo, lascia fuori dall'aereo la Cruz e Banderas e porta a bordo i soliti visi (da un'algida elegantissima Cecilia Roth a una sensitiva e ingenua Lola Dueñas, personaggio migliore del film) mischiandoli a nuovi, lo Hugo Silva appena eletto “uomo più desiderato di Spagna” per la terza volta di seguito a Blanca Suárez che avevamo già (intra)visto ne La Pelle Che Abito. Tutti loro, unici svegli del mezzo, raccolti nella business class, cercano di sottostare alle indicazioni libertine dei tre stuard capitanati da un sempre immenso Javier Cámara che è paradossalmente meno gay qui rispetto a La Mala Educación, dove tutti gli uomini erano peccaminosamente gay, mentre qui, commedia libertina liberale sul sesso e sull'omosessualità (e bisessualità e sadomasochismo e sesso occasionale e sesso anale e sesso orale e sperimentazione omosessuale), si placa per fare la brava moglie nella relazione silenziosa col capo-pilota Antonio de la Torre, il Paco che finiva morto in un frigo in Volver. Si e ci concede una performance musicale (sottolineando: «il musical ha ucciso il vero cabaret») perché a Pedro la musica piace assai, e come aveva sofferto senza esibizione canora ne Gli Abbracci, che ne La Pelle ce ne ha messe due. E con il resto della musica al solito di Alberto Iglesias, la fotografia di José Luis Alcaine e le solite scene coloratissimamente studiate, i costumi a fiori, Carmen Machi che si atteggia a Chus Lampreave, ne deriva un film che solo Pedro poteva girare, quasi settantenne in grado di toccare temi sconci e scomodi ma paurosamente attuali come nemmeno i nuovi cineasti (non solo spagnoli) sarebbero in grado di fare.

martedì 12 marzo 2013

quattro passerotte.



Spring Breakers
id., 2012, USA, 94 minuti
Regia: Harmony Korine
Sceneggiatura originale: Harmony Korine
Cast: Selena Gomez, Vanessa Hudgens, Ashley Benson,
Rachel Korine, James Franco, Thurman Sewell, Gucci Mane
Voto: 6.9/ 10
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Il Festival di Venezia l'anno scorso ha visto un film che cominciava così: musica di Skrillex in sottofondo e immagini rallentate di statue di muscoli maschili in pantaloncini variopinti e tubi di silicone dalla bocca alle taniche di birra, ragazze messe non peggio fisicamente con bikini ora alzato ora abbassato, culi al vento sventolanti, sventole spudorate e arrapatoni eterissimi che stanno a guardare le donzelle limonare tra loro, limonare con le onde, limonare con le bottiglie di alcolici che compaiono sotto ogni arto. E, prima di questa scena, titoli di testa con una bizzarra font per le lettere maiuscole.
Poi, dopo questa sorta di videoclip americano d'apertura, inizia la storia. L'attuale generazione di adolescenti maschi e femmine del pianeta s'annoia: è stanca di vedere ogni giorno le stesse persone che compiono ogni giorno le stesse cose. Tra di loro, Selena Gomez reduce dai telefilm Disney e da un disco di discreto successo (di pubblico) è la più annoiata di tutte, e accetta di partire con il gruppo di amiche che conosce «da una vita» sebbene le sue compagne di diocesi (sì, diocesi) le dicano di fare attenzione e pregare molto per quel tipo di cattiveria femminile. Le tre tipe si presentano così alla porta della Bieber-girl in cerca dei soldi per il viaggio, viaggio-rito di ogni collegiale americano, che per la pausa primaverile tra un semestre e l'altro se ne va a bivaccare nel mar di Florida nei costumini e tra le birre di cui sopra. Del gruppetto, fanno parte: la Rachel Korine moglie del regista di questo film; la Ashley Benson scheletrica protagonista di Pretty Little Liars; la Vanessa Hudgens che accompagnava Zac Efron nelle danze e nelle canzoni di High School Musical e che definitivamente si stacca dal marchio (pure su di lei) disneyano passando il film intero a fare, diciamo così, la sfacciata, ecco. Il clan, perenne pezzo di sopra diverso dal pezzo di sotto che all'occorrenza è un micro short, continua a non avere il denaro sufficiente per partire, e allora cosa fa?, Selena “diocesi” Gomez esclusa, con passamontagna in testa e pistole ad acqua nelle mani svaligia un fast food e s'accaparra denaro da annusare e spendere. Si parte: la Hudgens fa la sfacciata, la Benson fa la frivola, la Korine fa il tavolo su cui sniffano strisce i maschi in sospensorio, la Gomez chiama la nonna e le dice che sta trovando se stessa in questo paradiso dal quale non vorrebbe mai più andarsene, e l'anno prossimo ce la porta. Ma il paradiso finisce presto, perché al quarto festino in casa fatto di tequila e tetto sfondato, arriva la pula e li mette tutti dentro. A pagare la cauzione per il quartetto sarà un James Franco che non vorreste vedere mai nella vita: treccine sfocianti in dread terminanti in perline stile Sean Paul, denti davanti ricoperti d'argento, pancia da birra e tatuaggi a caso sparsi sul corpo fino ai polpacci appena visibili nei pinocchietti larghi. Il tipico bianco anneritosi col malaffare che vive in una casa fatta di armi e oggetti in più.
Selena non accetta la nuova comitiva e decide di ritornarsene a casa e come lei se ne torna anche il pubblico di metà sala. Eppure il film non è proprio una porcheria: la scena della rapina è, infatti, esempio magistrale di come si può rendere una sequenza trita e ritrita nella storia del cinema, in modo originalissimo. E, prendendo sempre come esempio questa scena, poi ci verrà fatta di nuovo vedere da un'altra parte, perché alla fine il film su questo si basa: sull'ordine non cronologico delle immagini (vediamo una pistola, un braccio ferito e poi uno sparo) e sulla ripetizione quasi ossessiva di alcuni dialoghi, che in certi punti anche asfissiano («hai paura?», «sì», «ti fotti di paura»). Dialoghi che sono il punto debole del film. Che cercano di essere teen & cool & gangsta ma che come sempre fanno la figura del posticcio e del surreale, per quanto si compongano di espressioni come «un botto di soldi» e «la doppia penetrazione mi fa strippare».
E in tutto questo, siamo ben lontani dai film su questo tema: dai film a tema droga, dai film a tema college&sballo (mi viene in mente Le Regole Dell'attrazione), dai film a tema ghetto e sparatorie, dai film con le protagoniste lolite ex candide e mezze nude. Peccato però che non tutto vada sempre per il verso giusto; neanche con questa pellicola, dopo aver messo insieme nello stesso film Marilyn e Michael Jackson e il Papa e Cappuccetto Rosso, dopo essere passato per Cannes e per Venezia, il baby-regista Harmony Korine convince del tutto la critica. E ancora meno il pubblico.

lunedì 11 marzo 2013

scritto sul corpo.



Educazione Siberiana
id., 2013, Italia, 110 minuti
Regia: Gabriele Salvatores
Sceneggiatura non originale: Stefano Rulli,
Sandro Petraglia e Gabriele Salvatores
Basata sul romanzo Educazione Siberiana di Nicolai Lilin (Einaudi)
Cast: Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson,
John Malkovich, Peter Stormare, Arnas Sliesoraitis
Voto: 6.9/ 10
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Eccetto il «Robbeertoo!» nazionale che s'è dato alla Commedia dantesca e alla Costituzione italica da spiegare ben bene in televisione e pratici cofanetti DVD, i nostri ultimi premi Oscar (attenzione: al Film Straniero) tornano tutti (e due) al cinema quest'anno, entrambi con opere recitate in inglese – perché ad un regista da Oscar ciò viene richiesto; e se il primo, Tornatore, ci ha incantati con l'eleganza algida dell'arte della truffa e dell'artista Christopher Plummer in UK, Gabriele Salvatores, molto meno osannato oltreoceano (ma pure in patria) che certo peggio di Happy Family non poteva assolutamente fare (dato che aveva quasi sfiorato I Cesaroni) se ne va dove non smette mai di nevicare e racconta la condizione post-conflitto dei siberiani esiliati in Russia in clan malavitosi che si spalmano sul territorio facendo attenzione a non incappare (male) in altri clan malavitosi stile Napoli-e-poi-muori. Basandosi sul romanzo e sull'esperienza del tatuato scrittore autobiografista Nicolai Lilin (un libro all'anno dal 2009 per Einaudi) ricostruisce, insieme alla coppia più prolifera del cinema d'autore italiano, Petraglia & Rulli (Romanzo Criminale, La Meglio Gioventù, La Nostra Vita, Romanzo Di Una Strage), su tre livelli narrativi, la storia di Kolyma, bambinetto orfano di padre allevato da una mamma quasi invisibile ma molto forte e un nonno capobranco tutto parabole e saggezze crude prima, e giovane arruolato in una guerra che non c'è poi, e adolescente bivaccante nel mezzo, circondato da amici sempre sul punto di perdere la retta via e imboccare la strada sbagliata, quella dove il lupo offre soldi e droga e aspettative per un futuro che non deve brillare perché «un uomo non può avere più di quanto può amare». Accozzagliando per la prima metà scene a caso, sconnesse su tutti i fronti, sfumate, rallentate, alternate a immagini di ghiacci galleggianti sul mare piatto, Salvatores si conferma regista dal basso gusto estetico, bassissimo, dandosi a un montaggio così veloce da annientare i movimenti della macchina (che si muove?) e sembrando quasi televisione. Gli viene incontro la fotografia di Italo Petriccione, che lo accompagna da una vita e che qui è magistrale, mentre sul fondo musiche sovietiche si susseguono imbarazzanti. Il mordente arriva quasi in chiusura, quando un'improbabile protagonista femminile un po' tocca viene violentata e picchiata che se ci sforziamo un pelo sappiamo bene chi ha la colpa e che tipo di fine farà. Fino all'apprezzabile ultima scena.
Intorno al navigato e intoccabile John Malkovich si dipanano tutta una serie di attori alle prime armi e alla prima esperienza che tanto il doppiaggio li salva tutti (recitano in un inglese che non vorrei mai sentire) (e la matta è doppiata da Cristiana Capotondi) e su tutti il protagonista – che è più protagonista dell'attore in locandina – Arnas Fedaravicius è, praticamente, un modello scultoreo di Dolce&Gabbana che viene preso, spogliato quando si può, messo su una barca con una fanciulla nel bel mezzo del mare e fatto scattare in piedi. All'occorrenza, diventa faccia testimonial di un altro profumo, facciamo Armani, sempre mezzo nudo, che si butta acqua in faccia col labbro inferiore in bella vista. Io, che recito sicuramente meglio (soprattutto se poi mi doppiano) non ho né quella schiena né quelle labbra, e quindi Salvatores non ha scelto me. Ma in casi come questi, The Paperboy ci insegna che all'attore bono e incapace non si dedicano tutti questi primi piani.
Paradossalmente, ciò che il film dovrebbe raccontare, e che ci sarebbe piaciuto molto approfondire, e cioè la capacità di leggere la storia di una persona attraverso i suoi tatuaggi, non ci viene quasi detto, se non in una scenetta frettolosa di carcerazione e condivisione collettiva (improbabile) della cella in cui scende la neve. Non ci viene raccontato, in effetti, quasi niente.

domenica 10 marzo 2013

ding dong! the witch is dead.



Il Grande E Potente Oz
Oz: The Great And Powerful, 2013, USA, 130 minuti
Regia: Sam Raimi
Sceneggiatura non originale: Mitchell Kapner & David Lindsay-Abaire
Basata sui romanzi di L. Frank Baum
Cast: James Franco, Michelle Williams, Rachel Weisz,
Mila Kunis, Zach Braff, Joey King, Tony Cox
Voto: 6.7/ 10
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Prima che il ciclone sradicasse dal suolo la fattoria di Dorothy, in Kansas, dove Toto era solito infiltrarsi nell'orto della proprietaria del paese, prima che la casa schiacciasse la Strega dell'Ovest e quella dell'Est a bordo di una scopa che fuma e con la faccia verde e la risata stridula, prima che Oz venisse scoperto per quello che è: un ciarlatano che proietta la sua faccia nel fumo, prima di tutte queste cose, cosa succede?
Frank Baum ce lo racconta in uno dei libri-succursale a Il Mago Di Oz che Victor Fleming fece diventare, nel 1939, il suo secondo più celebre film (dopo il Via Col Vento sempre del '39) e Judy Garland il suo repertorio musicale più di successo. E la trovata è intelligente: raccontare perché la Strega è verde, perché Oz si nasconde dietro al fumo, perché i papaveri sono soporiferi. E la trovata, di Sam Raimi, il regista della saga di Spider Man e soprattutto di qualche episodio de La Casa e di un sacco di cose uscite negli scorsi anni che per decenza non dico, di ricalcare esattamente quel film (di settant'anni fa) poteva anche esser buona, ma ahimè si perde in se stessa: inizio in bianco e nero, in un circo che prende nome dallo scrittore che a tutto diede inizio; James Franco dongiovanni e ciarlatano incanta con due trucchetti e con due no, si rifiuta di risanare un'ammalata e brilla nell'incontrare la Michelle Williams che ama e brama ma che presto sposerà un'altro. Viene inseguito perché smascherato dall'amante di una delle sue conquiste ed eccolo scappare a bordo di quella stessa mongolfiera che alla fine del primo Oz vedemmo ben bene. E intorno a lui, intorno a loro, in questo film del 2013, ci sono, ad omaggiare le scene di quell'altro, i fondali dipinti che non si usano più, che sono realisticamente pittorici, che si confondono col reale ma non con i posticci effetti digitali. Il ciclone colpisce anche lui, che impreca e invoca Dio (che in originale non c'è) e la telecamera va dove vuole, o meglio, va dove non dovrebbe andare: mai scena di suspance fu girata peggio – in film da botteghino. E piomba in Wonderland o nel posto in cui se la fa l'ultima Biancaneve, perché i fiori giganteschi, l'acqua digitale, le fatine del fiume certo non ci fanno pensare ad Oz. E lo accoglie Mila Kunis, vestita da Carmen Sandiego per chi coglie il riferimento, che subito s'innamora e avvisa la sorella, che è Rachel Weisz ma sembra Natalie Portman, forse perché siamo abituati al duo danzante. Le due, streghe di questo e quel punto cardinale, si parlano in modo bizzarro e non si capisce bene cosa vogliano fare, dove stiano cercando di arrivare, e intanto Oz (abbreviazione di Oscar) cerca la perfida strega che manca all'appello e trova la Williams che aveva lasciato in bianco e nero. Ora: di tutti i personaggi del prima e dopo ciclone, mentre nella pellicola di Fleming c'era il corrispondente da questa parte, lei è l'unica a comparire due volte, e ci si domanda il perché. Si unisce all'allegra combriccola una bambola di porcellana dalle gambe spezzate che questa volta si possono risanare e una scimmia con le ali – personaggio migliore di tutti, per animazione e interpretazione – che però non ha il bel completino che ci ricordavamo dal passato. In tutto questo, l'eco di Tim Burton si sente non solo per Alice ma, nella lotta finale tra maghette, anche per Dark Shadows, che a sua volta rimandava a La Morte Ti Fa Bella. L'anonimato in cui passa la Weisz vestita malissimo copre l'orrore in cui si trasforma la Kunis e tra tutti splende, come al solito, la migliore giovane attrice vivente, e cioè la vedova Ledger, che si spreca in un ruolo che poveretta ha dovuto accettare per vedere almeno un suo film andare oltre il confine marino. Franco, appena incoronato “etero più gay del pianeta”, sorprende in queste vesti così come sorprendeva come presentatore agli Oscar: in male. Siamo abituati a vederlo serio e tutto preso dai suoi progetti impegnati, e poi scivola nei film per famiglie dal dubbio budget.
Le scenografie non incantano, i costumi sono paradossalmente migliori sulle comparse che sui protagonisti, la musica di Danny Elfman nemmeno si fa sentire e la canzone originale, Almost Home, cantata da Mariah Carey in un video ufficiale brutto più del film, non compare mai. Eppure, come al solito, i titoli di testa, parte migliore della pellicola, ci fanno sperar bene.

lunedì 4 marzo 2013

interception.



Beautiful Creatures
La Sedicesima Luna
Beautiful Creatures, 2013, USA, 124 minuti
Regia: Richard LaGravenese
Sceneggiatura non originale: Richard LaGravenese
Basata sul romanzo La Sedicesima Luna
di Kami Garcia & Margaret Stohl (Mondadori)
Cast: Alice Englert, Alden Ehrenreich, Viola Davis, Jeremy Irons,
Emmy Rossum, Thomas Mann, Emma Thompson, Eileen Atkins
Voto: 5/10
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Un sedicenne con la barba già cresciuta su tutta la faccia e la faccia palesemente non da sedicenne conduce questa originale vita che nei film americani non abbiamo visto mai: è popolare a scuola perché giocatore di qualche sport, col fisicaccio e la morosetta benvestita, cattolica, imbecille come l'acqua dei lupini, e lui è stanco del paese e della provincia ed è anche orfano di madre, povera stella, e allora per viaggiare con la testa visto che con la macchina non può – ma il suo originale amico sfigato figlio di colei che capeggia i conservatori della contea sì – legge libri su libri, quasi tutti vietati in paese, con copertine dritte dritte degli anni '60  ma siamo ai giorni nostri, e lo scopriamo dallo smartphone che usa a malapena in una scena (cosa credibile, sì). In questa originale vita di questo originale personaggio di questa originale trama compare una nuova compagna di classe nipote di, indovinate un po', il vecchio del paese che nessuno vede mai uscire dalla villa che, indovinate un po', pare sia infestata da fantasmi e spiriti e indovinate: i cattolici si riuniscono perché secondo loro là dentro fanno riti satanici nudi e la ragazzetta è un pericolo per le scolaresche. Per cui il nostro protagonista che ho già dimenticato com'è che si chiami se la fa subito amica, questa strana giovinetta dai capelli scuri che spesso gli è venuta in sogno (e questa scena iniziale del sogno è meravigliosa: il film dovrebbe finire al minuto 2:00) e smolla quell'altra, la scema religiosa, e cosa succede? Ommioddio che cosa originale: lei è una strega – anzi attenti a dire “strega” – lei è una maga e in quanto tale non può amare un mortale! E poi su di lei c'è una maledizione che colpisce ogni personaggio della famiglia da tanti antenati! La persona che lei ama deve morire per regola! Oddio! E adesso come fanno, il nostro eroe e la nostra eroina che chissà come si chiamino ad amarsi? Mentre loro ci provano, arriva la femme fatale a bordo di decappottabile, esattamente come abbiamo visto in Dark Shadows qualche mese fa, e sempre come abbiamo già visto in Dark Shadows poi ci sono banchetti con superpoteri, stanze inquietanti, costumi bizzarri. Ma siamo ben lontani da quella cura artistica. Qua è tutto un imbarazzo: dal montaggio alle frasi che escono dalla bocca di Viola Davis che sicuramente ha il personaggio più insulso, insipido, banale della saga – perché una saga è. Viola Davis che fece brillare Il Dubbio già luminosissimo con i soli otto minuti in cui era in scena, accetta di far parte di questa porcheria di film che cerca di inserirsi tra i vampiri e i maghi inglesi raccontando la storia d'amore impossibile di uno con le pozioni e i libri delle ombre dell'altro, e accetta forse perché c'è il grande Jeremy Irons che pure non può vantarsi a lungo di ciò che interpreta e ancora Emma Thompson, unico e solo motivo per cui questa pellicola potrebbe essere vista senza abbandonare la sala al minuto 2:01 come stavo per fare: il suo corpo, usato da una specie di fantasmino non morto, la porta ad essere algida fascista (meraviglioso l'elenco delle condanne) e madre delle tenebre, e la sua faccia cambia e ricambia e il suo accento pure, e noi ci vergogniamo del suo unico Oscar preso per la Sceneggiatura. C'è, ancora, ed è quella che se la spassa in Ferrari e gonne cortissime e gratuiti costumi da Gilda (scena totalmente inspiegabile) Emmy Rossum, che avevamo lasciato, stessi chili e molti più capelli fa, a gorgheggiare ne Il Fantasma Dell'opera di Joel Schumacher dopo il quale l'abbiamo vista addirittura in Dragonball.
Dietro tutti questi protagonisti e personaggi di cui non ricordo neanche un nome, c'è colui che rappresenta al meglio la decadenza di una carriera hollywoodiana: Richard LaGravenese, dalla sceneggiatura de I Ponti Di Madison County, L'uomo Che Sussurrava Ai Cavalli e La Leggenda Del Re Pescatore (nomination all'Oscar) alla regia di P.S. I Love You.
Andate da McDonald's e quei cinque euro usateli per l'Happy Meal piuttosto.

Bif&st 2013.



Poco prima del Festival del Cinema Europeo di Lecce, un'altro capoluogo pugliese brilla di cinema – e quest'anno lo fa col botto: il Bari International Film Festival chiama a raccolta l'Adriano Celentano delle polemiche nazionali per consegnargli il Premio Fellini e a Federico Fellini stesso dedica retrospettiva e mostra: quest'ultima, si avvale di gran parte dei disegni originali del Libro Dei Sogni; la retrospettiva invece conta lungometraggi di finzione (E La Nave Va..., Luci Del Varietà) e documentari, tra cui spicca L'ultima Sequenza di Mario Sesti che rivela il finale originale di 8 1/2. Accanto a Fellini vengono elogiati Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, tre Oscar a testa per le scenografie dei film che hanno fatto la storia (Il Nome Della Rosa, Casinò, Shutter Island), e ancora l'appena compianta Mariangela Melato (Caro Michele, La Classe Operaia Va In Paradiso) e Alberto Sordi (Il Tassinaro, Le Coppie) e Bertrand Tavernier, Stephen Frears, Emidio Greco e Lina Sastri che si esibirà durante la cerimonia di chiusura. In occasione della premiazione di Adriano Celentano, sarà proiettata la versione digitalizzata di Yuppi Du alla presenza del direttore del festival Ettore Scola, mentre l'ultimo giorno del festival, il 23 marzo, la giuria presieduta da Michel Ciment assegnerà i premi ai film in concorso durante la serata presentata da Laura Morante; questi film, si dividono tra gli italiani (opere prime e seconde, pellicole uscite quest'ultimo anno in sala) e gli stranieri provenienti da tutto il mondo, documentari (specialmente di ambito locale) e corti.
I biglietti per le proiezioni vanno da € 1 a 12, gli abbonamenti fino a € 80. Per informazioni su laboratori, iniziative, tavole rotonde e tutte le altre iniziative che dal 16 marzo si svolgeranno nel capoluogo pugliese rimando al sito ufficiale.