giovedì 30 maggio 2013

lunedì 27 maggio 2013

#Kechiche



Attenzione a non chiamarlo “film lesbo” quello che ha vinto la sessantanovesima Palma d'Oro al Festival di Cannes 2013; apprezzato persino dalla Radio Vaticana che lo ha definito «ricco di scene indimenticabili», «un'esplosione di sentimenti», recensito bene da tutti, già in odore di premio, La Vie D'Adèle (letteralmente: La Vita Di Adele, ma ha titolo inglese Il Blu È Un Colore Caldo come la graphic-novel da cui è tratto) conquista il massimo riconoscimento senza prendere quello per le attrici, elogiate a onor del vero più della pellicola in sé, la diciannovenne Adèle Exarchopoulos e la richiestissima Léa Seydoux (entrambe nella foto, col regista Abdellatif Kechiche, che ha dedicato il premio alla sua Turchia natale) – perché la Palma all'Interpretazione Femminile è andato alla Bérénice Bejo di The Artist per Il Passato di Asghar Farhadi (pure questo profumato di qualche vittoria). Miglior attore l'anziano Bruce Dern per la pellicola in bianco e nero di Alexander Payne (Paradiso Amaro), Nebraska, osannato più del resto dell'alta competizione insieme a Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen, Gran Premio della Giuria applauditissimo – e qui ha ritirato la Palma ai registi l'attore Oscar Isaac mentre il premio per Dern l'ha ritirato Payne. Miglior Regista: il messicano Amat Escalante per Heli, che come l'altro messicano che vinse lo stesso premio l'anno scorso, confeziona una pellicola di dubbia qualità cerebrale ma con scene indimenticabili – tipo la tortura con bruciatura di pene finale. Miglior Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke per il cinese A Touch Of Sin. Premio della Giuria: Like Father, Like Son, lo scambio di bambini diretto dal giapponese Hirokazu Kore-Eda.
Neanche questa volta – dopo This Must Be The Place – Sorrentino porta a casa niente, ma ci consoliamo con i due premi vinti da Salvo e quello vinto ex-aequo dalla Golino: Miele ha infatti ottenuto la Menzione Speciale della Giuria Ecumentica insieme al Like Father, Like Son di cui prima, mentre il Premio vero e proprio se l'è aggiudicato Il Passato di Farhadi. La Golino, al suo debutto dietro la macchina da presa, avrebbe potuto sperare nella Camera d'Or, all'opera prima, andata invece a Ilo Ilo, dal Singapore, presentato nella Quinzaine, storia di una famiglia e della domestica filippina pari pari a A Simple Life.
Dopo l'interruzione, tutti i premi.

sabato 25 maggio 2013

#Gray #Chandor



Il premio Oscar Marion Cotillard (foto) arriva a Cannes al penultimo giorno di festival: è una polacca che fugge dall'Europa stremata dalla Grande Guerra insieme alla sorella verso l'America in The Immigrant di James Gray, storia di un inserimento sociale che non avviene; ad aiutarla, nel film, ci penserà Joaquin Phoenix, attore feticcio del regista (anche nell'ultimo Two Lovers), qui arraffone disperato e anche lui desideroso di appartenere ad una New York ricostruita totalmente in studio e fotografata dall'immenso Darius Khondji, qui l'anno scorso per il meraviglioso lavoro svolto in Amour, che per questa pellicola a-temporale sceglie di illuminare tutto col rosso – tipo il tramonto sul Titanic.
Applausi e commozioni per questo film che si mette in fila insieme agli altri in attesa della Palma di domani: The Past di Asghar Farhadi, che dopo l'Oscar per Una Separazione prende la candidata all'Oscar per The Artist e racconta di un matrimonio iraniano per le periferie di Parigi; Like Father, Like Son, del giapponese Hirokazu Koreeda, storia di un figlio scambiato alla nascita e del rapporto tra un padre e ciò che ha cresciuto per tanti anni; ma sono stati soprattutto Nebraska e Inside Llewyn Davis, entrambi americani, rispettivamente dei super-celebrati Alexander Payne e fratelli Coen, a strappare più consensi e recensioni positive.
In questo ultimo giorno di proiezioni tornerà sullo schermo Roman Polanski col francese Venus In Fur; lui ovviamente assente dal tappeto rosso mentre sfilerà il super-cast dell'ultima pellicola in gara, Only Lovers Left Alive – Mia Wasikowska, Tom Hiddleston, Tilda Swinton, John Hurt, Anton Yelchin – prima pellicola fantasy-vampiresca di Jim Jarmusch.
E se il nostro Sorrentino ha diviso, come sempre, il pubblico e la critica, l'italiano a sorpresa che fa il colpaccio è il film Salvo, vincitore di entrambi i premi della Settimana della Critica (il Gran Premio della Giuria e il Premio Rivelazione): cinque anni per raccogliere i fondi necessari per le riprese (un milione di euro), distribuzione francese già confermata e un nome noto dietro la direzione della fotografia (Daniele Ciprì), Salvo è l'esordio di Piazza & Grassadonia a partire da un corto con lo stesso tema di qualche anno fa.
Sullo stesso genere di tensione ha viaggiato All Is Lost due giorni fa: Robert Redford (76 anni non sentiti) e la sua barca in mezzo al mare sono unici figure di questo film totalmente privo di dialoghi – un monologo iniziale, qualche «fuck» nel mezzo – diretto dal celebrato J.C. Chandor di Margin Call che ha messo tutti d'accordo sulla qualità di una regia narrativamente insolita per un film d'azione.

martedì 21 maggio 2013

i trenini migliori di tutta Roma.



La Grande Bellezza
id., 2013, Italia, 145 minuti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura originale: Paolo Sorrentino & Umberto Contarello
Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli,
Carlo Buccirosso, Pamela Villoresi, Galaeta Ranzi, Iaia Forte,
Serena Grandi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,
Giorgio Pasotti, Luca Marinelli, Lillo Petrolo
Voto: 8.3/ 10
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Una citazione da Céline (Ferdinand, Viaggio Al Termine Della Notte) che ci si poteva risparmiare, uno scoppio di cannone e il film comincia: Roma, l'afa, il turismo, le prove del coro, l'acqua della fontana in pieno giorno. Poi: Roma, alla sera, su una terrazza con la scritta Martini a coprire l'orizzonte (come succedeva a Renzo e Luciana in Boccaccio '70) e un manipolo di starlette e attorucoli decaduti e non, ereditieri e gente che «di mestiere fa il ricco», giornalisti, direttori che si dimenano, si divincolano, si disperano sopra e sotto i cubi e i tavoli di drink e spettegolano di loro stessi se Serena Grandi, una Saraghina moderna, salta fuori da una torta prima che ci si metta a ballare tutti insieme la Colita.
E il film comincia, e il film è di Federico Fellini: che ha già girato una pellicola che si chiama Roma e che ha già girato una pellicola che si chiama La Dolce Vita. Nel primo ci si dedicava agli episodi che Roma la fanno o la compongono geograficamente (il raccordo), nel secondo ci si dedicava a chi la vive, ai paparazzi e alle dive straniere, alle bivaccate nelle case per far niente o far molto poco, dirsi che una sta col trainer e l'altra dà tutto in beneficenza, volersi bene senza entrare nei particolari – e sfociare in cacce ai fantasmi fortemente riprese qui con una Sabrina Ferilli ammantellata che, candelabro in mano come nel '60, si accinge a varcare soglie di cui Giorgio Pasotti ha le chiavi, nel buio. Ma pare nessuno l'abbia notato. Come nessuno ha notato la giraffa al centro del Colosseo, eco del rinoceronte di E La Nave Va..., o le prostitute divertite in una scena di sfuggita, le colleghe di Cabiria, le contesse vestite a festa coi fiori nei cappelli di Giulietta Degli Spiriti per andare a incontrare il cardinal Roberto Herlitzka a cui il protagonista, scrittore che non scrive libri, chiederà consigli come il regista che non gira film Guido Anselmi di 8 1/2. Ma nessuno pare l'abbia notato, dicevo, perché basta dire «Fellini» e «La Dolce Vita» (fischiatissimi in Francia ma vincitori della Palma) che a Cannes si storce il naso, o meglio, come Paolo Sorrentino ha fatto notare, la stampa italiana storce il naso. Anche per Il Divo s'era trovavo lo stesso problema («è un prodotto troppo italiano, che all'estero non verrà colto») e invece s'era candidato a un Oscar (per il trucco, ma vabbè). Dopo il Neorealismo di Reality, di cui comunque si stente l'eco, ritorniamo a farci rappresentare da un regista – che a Cannes è di casa – che ricalca le antiche glorie, e pare le appiccichi insieme più che idolatrarle. Utilizza, come Fellini, ma come anche se stesso, il tecnica della non-narrazione raccontando per episodi sconnessi, tra i quali potrebbe passare un giorno come un mese, una storia non di un uomo che ci viene detto molto sensibile (e poi non lo è) ma di una società, la nostra, che pubblica foto sempre e comunque, si vanta di amare Proust «ma anche Ammaniti», intavola conversazioni a base di ricette quando dovrebbe redimere dai peccati, chiama artista una che si lancia nuda contro il muro. La satira sociale è altissima, soprattutto quella religiosa, nella Roma del Vaticano, ma è mascherata, da una Grande Bellezza che non si trova, e non si trova perché non si sa dove cercarla: Toni Servillo, immenso come al solito, è un palese omosessuale che cambia una donna per notte e ama «l'odore delle case dei vecchi» piuttosto che «la fessa», ma poi si spalma su questo balcone di una casa che non vediamo in cui la mediocrità e l'ipocrisia e la mondanità spicciola e squallida vanno a dormire alle sei dell'alba. La sua sensibilità si perde e si ritrova davanti a fenicotteri in riposo e foto di una vita vissuta, ma ancora non basta per tornare a questo libro da scrivere, da decidersi a cominciare, sebbene Fanny Ardant scenda le scale e la Santa suora le salga in ginocchio.
Per questo artistico/ letterario/ satirico ritratto della Roma decadente di oggi, Sorrentino trova 8 milioni di budget e una fila di attori desiderosi di aiutarlo, e prende Carlo BuccirossoIsabella Ferrari, Iaia FortePamela Villoresi, Galatea Ranzi, ma di tutti è il personaggio di Carlo Verdone, a sorpresa, che rappresenta la morale: «Roma mi ha molto deluso», e me ne ritorno per sempre al paese. Se ne esce distrutti, disincantati, e dispiaciuti soprattutto perché di tutta la filmografia del regista questo è il lavoro meno rigoroso tecnicamente e con la potenza musicale più blanda. Ma è quel cinema italiano, tipo Reality di cui prima, di cui dovremmo essere fieri, e che ai festival invece fischiamo.

venerdì 17 maggio 2013

#Gondry #Salvo



A Cannes non esiste solo il concorso ma anche quello che viene chiamato Marché, il cinema delle proiezioni per gli acquirenti esteri dei diritti, il cinema, insomma, dove i film piccoli piccoli incrociano le dita sperando di essere comprati da qualche paese (grosso grosso). Non si direbbe, ma qua in mezzo c'è Michel Gondry, Oscar alla sceneggiatura di Se Mi Lasci Ti Cancello e in cartellone alla Semaine De La Critique l'anno scorso con The We And The I, film che – appunto – nessuno ha comprato e distribuito (era americano) in Italia ma che io ho particolarmente apprezato; gira, questa volta, in francese, prendendo la Audrey Tautou madrina di questo Festival di Cannes 2013 e Omar Sy, nuovo spassoso volto del cinema francese grazie al Quasi Amici che non commento più. Lei è una gracile innamorata malata ai polmoni perché una ninfea le è cresciuta nel corpo, lui è un avvocato ora cuoco ora ballerino amico del protagonista Roman Duris che per pagare le visite mediche ad Amélie fa qualsiasi lavoro, anche il più becero, portando così il film al bianco e nero... Da questo e da altri dettagli (il matrimonio sott'acqua, le scarpe-cuccioli che scappano da casa, il campanello-scarafaggio) si riconosce il ritorno di Gondry alla surrealtà de L'arte Del Sogno portata agli eccessi: nessuna scena è risparmiata dalla fantasia assoluta e dalla costruzione artistica del mondo parallelo. Uscito il 24 aprile in Francia, La Schiuma Dei Giorni non ha ancora distribuzione nostrana (ma il libro da cui è tratto, di Boris Vian, è edito, da Marcos y Marcos) e per ora si accontenta di un 5.9 su iMDB.
Apre, invece, la Semaine di cui prima, l'italiano Salvo, opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza considerato già «il miglior esordio dell'anno» perché diretto con una padronanza maniacale degli spazi, dei tempi e soprattutto dei rumori da cui è composto, storia poliziesca ambientata in una Sicilia che sembra Far West con Luigi Lo Cascio che poco più di un mese fa ha esordito alla regia con La Città Ideale. E le sparatorie e i furti colpiscono la città francese non solo nei film.

giovedì 16 maggio 2013

sussurri e champagne.



Il Grande Gatsby
The Great Gatsby, 2013, Australia, 142 minuti
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura non originale: Baz Luhrmann & Craig Pearce
Basata sul romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald
Cast: Tobey Maguire, Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan,
Joel Edgerton, Elizabeth Debicki, Isla Fisher
Voto: 6.9/ 10
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Era marzo quando si iniziò a parlare dell'uscita di un film di Baz Luhrmann basato sul libro di Fitzgerald ed era poi maggio quando spuntò un trailer con una locandina. Questo film era, dunque, pronto da quasi un anno, al punto che se ne aspettava l'imminente uscita a dicembre. Ma l'uscita non ci fu, perché il regista voleva portare il 3D ai «massimi livelli» che la tecnica permette, facendo insomma la pernacchia allo Hugo Cabret da tanti celebrato. E già dall'inizio della pellicola, in effetti, ci si rende conto che – a differenza di molte altre occasioni – il 3D c'è. In certi momenti anche troppo. Ma non è certamente solo questo ciò che ha tolto il sonno al caro vecchio Baz: gli era andata male (molto male) con Australia e allora il “visionario” regista australiano mette in disparte la sua australiana musa (che ieri a Cannes ha visto il film sulla poltrona della giuria) ed è tornato indietro, a ricalcare il suo film di maggior successo. E già dall'inizio, dicevo, 3D a parte, l'eco del Moulin Rouge! si sente e nella sala rimbomba, dal montaggio frettoloso e dagli effetti posticci, dalle sovrapposizioni di immagini grottesche, dalla moltitudine di colori e suoni e soprattutto dalla presenza di uno scrittorucolo che si mette a sedere e a battere a macchina (in questo caso, però, comincia con la penna) la storia che ci racconta da fuori campo. Che è la storia d'America per eccellenza, successiva forse solo a Il Giovane HoldenIl Buio Oltre La Siepe (entrambi titoli ben tradotti, noto): una storia di un romanzo di uno scrittore considerati da alcuni la miglior prosa e il miglior prosatore del Novecento ma che a me personalmente scivola addosso come il VivinCi, senza effetti collaterali, per cui la mia lettura del romanzo, se non qualche accorgimento poi scoperto, che riguarda soprattutto la predizione del crollo del '29 e un'aura di rammarico per “l'età del jazz”, mi ha riportato alla mente quegli stereotipi leggermente sopra agli Harmony tipo I Ponti Di Madison County o giù di lì.
Lo scrittore di cui prima, che per campare si mette a vendere azioni a Wall Street in una cornice bizzarramente tridimensionale ma fatta di foto d'epoca, prende una casetta sulla costa di New York di fianco alla villa gigantesca di un tale Gatsby che a quanto pare ogni fine settimana si mette a dare feste matte senza mai parteciparvi: dicono sia stato ad Oxford, sia un assassino, sia stato in guerra. Lui né annuisce né smentisce: non c'è. O meglio: c'è ma si confonde tra la servitù, e si rivela solo a chi vuole. E dunque, l'animo degli anni '20 tutti alcool e musica – che qui, trovata geniale, non è puro jazz ma una compilation di voci contemporanee dell'R&B risuonate dalla Bryan Ferry Orchestra o riarrangiate da Craig Armstrong (che già lavorò al Moulin!) – è qui, in questa villa, mentre Francis Scott Fitzgerald guarda dall'alto e sa che presto l'incanto finirà. E finirà – nel romanzo e nel film – per un amore tenuto lontano e vicino, nascosto e ben presente, quello di Jay Gatsby per la sposata Daisy cugina del protagonista Tobey Maguire tanto pesce lesso quanto lo fu Sam Waterston nel film del '74 – film che, diretto da Jack Clayton e sceneggiato da F. F. Coppola, fu il punto d'arrivo per Mia Farrow che impersonò la più giuliva Daisy della storia del cinema (si contano altre tre trasposizioni) qui ricalcata, nemmeno tanto forzatamente, dalla meravigliosa Carey Mulligan a cui viene dato troppo poco spazio, dato che se lo prende tutto Leonardo DiCaprio: un Oscar che, se non lo vince per questa interpretazione (uguale, certo, a molte altre, ma padrona dell'unico buon personaggio della pellicola) non lo vincerà più.
In sostanza: l'attesa, come sempre, delude. E delude soprattutto perché: il film è incapace di mantenere un proprio ritmo: l'apertura troppo diluita, allungata inutilmente in presenza di uno psicologo, così come il finale totalmente scivolato, cozzano con i momenti frizzanti del film, di azione, di baldoria, che a loro volta cozzano con la quiete di certe altre lunghe scene – penso al the a casa di Nick – che ricalcano pari pari la pellicola degli anni '70. Con una differenza: qui si sono spesi una quantità incredibile in più di soldi per scene e costumi che ormai non ci sorprendono più.

#Ozon #Coppola



Con un'immagine insolita (tratta dal sito «di attualità, cinema e disegni» Dé'Ciné di Joris) apriamo la cronaca da Cannes che, dopo l'apertura di ieri – con cerimonia presieduta da Audrey Tatou, conferenza stampa con i fotografatissimi Steven Spielberg e Nicole Kidman, proiezione de Il Grande Gatsby già reduce dall'incasso di poco inferiore all'Iron Man record in America (72 milioni e mezzo per l'eroe Marvel, 50 milioni per la trasposizione da Fitzgerald) – dopo l'apertura di ieri, dicevo, si appresta a visionare e far vedere i film del concorso nella Selezione Ufficiale e nell'Un Certain Regard. Per la prima delle due parti, si comincia con François Ozon: Jeune Et Jolie non è solo la traduzione francese della canzone originale del film di Luhrmann di Lana Del Rey, ma anche il nuovo titolo del celebrato autore di 8 Donne E Un Mistero e Potiche, di ritorno nella kermesse francese dopo dieci anni esatti da Swimming Pool, il suo film più visto all'estero, che però non gli aveva fruttato nessun tipo di riconoscimento. Per Young And Beautiful (sarà così tradotto, in uscita il 21 agosto in Francia) si affida a un'attrice ventitreenne che giovane è giovane e anche bellissima, tale Marine Vacth, a cui auguriamo una carriera più splendente della sua ex musa Ludivine Sagnier, bellissima, ma dimenticata dopo due performance e mezzo. Questa esordiente (è il primo ruolo da protagonista) interpreta un'adolescente che vende il proprio corpo non per punizione ma per piacere, fino al giorno in cui incappa in un ragazzo conosciuto su un social network... È il ritorno di Ozon sui temi dell'adolescenza dopo la parentesi di Nella Casa in cui si circondava di una marmaglia di pischelli per raccontare la scuola ma giostrava un protagonista certamente anziano. E il tema del giovane (e ribelle?), del bello (e dannato?) torna soprattutto nel film che apre l'Un Certain Regard con la Sofia Coppola da cui ci si aspetta molto, dato che le è stato regalato un Leone d'Oro (per Somewhere) e un Oscar (per Lost In Traslation). Anche per lei è la seconda volta a Cannes dopo la trasposizione tutta pasticcini e rock'n'roll di Marie Antoinette che pure a lei non valse quasi niente. Bling Ring (in Italia perde l'articolo The all'inizio) racconta la storia, basandosi su fatti reali, di cinque teen-agers ossessionati dal denaro e dal successo che intercettano grazie ad internet i luoghi esatti di dimora dei personaggi famosi per intrufolarvisi e derubare. Con Emma Watson non più Ermione Granger e la più giovane Taissa Farmiga, sorella di Vera Farmiga (Tra Le Nuvole) e attrice in American Horror Story, la Coppola mette in campo, pure lei, una schiera di esordienti giovanissimi. In Italia il film è previsto per il 19 settembre.

martedì 14 maggio 2013

strizza l'occhio al gatto nero.




Kiki - Consegne A Domicilio
Majo No Takkyûbin, 1989, Giappone, 103 minuti
Regia: Hayao Miyazaki
Sceneggiatura non originale: Hayao Miyazaki
Basata sul romanzo di Eiko Kadono
Voci americane: Kirsten Dunst, Phil Hartman, Matthew Lawrence
Voci italiane: Domitilla D'amico, Ilaria Stagni, Davide Perino
Voto: 7.8/ 10
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Funziona così: compiuti i tredici anni di età, le streghette di tutte le famiglie alla Sabrina (quella bionda, non la mora) devono salire in groppa alla propria scopa (o a quella della madre, se la propria è troppo piccola) e in un giorno di luna piena e cielo sereno, anzi in una notte, viaggiare verso una città nuova e sconosciuta e insediarvisi, sperando che non ci sia una seconda, più antica strega, perché ogni città, tipo i carri armati nel Risiko, ne può vantare solo una. Qui, nella nuova città di residenza e non domicilio, la streghina manco adolescente dovrà mettere in pratica il proprio dono-super-speciale e campare, o arrancare almeno, per poi ritornare vincente a casa propria dopo, non ricordo più, circa un anno.
E così la nostra Kiki, ormai tredicenne, nel sentire che il cielo resterà tre giorni sereno decide in fretta e furia di lasciare la casina, la mamma, la nonna, il papà – ma non la sua radio – e compiere il primo passo della formazione. Con qualche difficoltà nella partenza, si alza e va, e per colpa di un treno-merci carico di mucche si ritrova su una collina senza papaveri ma con torre dell'orologio che tanto a Kiki piace. Gli alberghi non accettano né lei né la sua scopa, i passanti, a prima vista, nemmeno, e Kiki poi un dono super-specialissimo non ce l'ha: l'unica cosa che sa fare è stare in cielo. Non vuoi che, un po' per caso un po' per desiderio (cit.) un lavoro la Kiki a bordo della scopa lo può fare? Ed eccoci alle “consegne a domicilio” del titolo, durante le quali la nostra si troverà a fronteggiare gli uccelli non di Hitchcock, le vecchine gentili con badanti, le nipoti di queste, antipatiche e benvestite, tutto col fiocco rosso in testa e palandrana nera addosso, e un gatto parlante che ha la voce di Bart Simpson e Gabrielle Solis.
Scoperto dagli italiani con La Città Incantata, secondo film a vincere l'Oscar nella neonata categoria del Film d'Animazione dopo Shrek, benché contemporaneo a questo, il «maestro dell'animazione giapponese» Hayao Miyazaki ha conosciuto elogi e glorie con quello e con i film successivi e solo dopo la seconda nomination all'Oscar (per il capolavoro Castello Errante Di Howl) e un Leone alla Carriera a Venezia prima di infilare in concorso Ponyo Sulla Scogliera si è dato avvio alla riscoperta dei suoi primi e più celebri (all'estero) film, seguito di una carriera televisiva doratissima con Lupin e Sherlock Holmes. Il Castello Nel Cielo l'anno scorso, Porco Rosso quello precedente, e prima ancora Il Mio Vicino Totoro hanno riportato in sala le perle dello Studio Ghibli degli anni '80 e '90 affiancandoli alla produzione contemporanea (Arrietty) di cui fa parte anche il figlio Goro Miyazaki, esordiente con I Racconti Di Terramare, che non ha saputo gestire l'eredità paterna ma sta migliorando col tempo: aspettiamo l'ultimo lavoro di questo, Hôjôkishiki, e di Hayao, il biografico Kaze Tachinu, che dovrebbe uscire a fine anno, per un cinema che raccoglie una schiera infinita di fans e nonostante la diversissima struttura narrativa e culturale e il gusto per il realismo molto più accentuato riesce a dare filo da torcere a certe produzioni Disney.
(Continuare a leggere per una galleria d'immagini).


domenica 12 maggio 2013

#LlewynDavis #LayDying



Abbandonati i fasti degli anni '90 di  Fargo, Il Grande Lebowski e Fratello, Dove Sei? Joel e Ethan Coen fratelli degli alti e bassi (alti: Non È Un Paese Per Vecchi, Il Grinta) (bassi: Prima Ti Sposo, Poi Ti Rovino, Ladykillers) tornano in sala da registi dopo tre anni di assenza e tornano a Cannes, in concorso, dopo sei. E tornano col film che avrebbero dovuto far concorrere agli scorsi Oscar ma che per lunghezze di montaggio (sempre loro, col nick Roderick Jaynes) non hanno concluso in tempo. Inside Llewyn Davis li riporta all'America civilizzata degli anni '60 in cui tale Llewyn Davis, interpretato da Oscar Isaac, attraversa la New York dei locali folk con la chitarra al collo e un album che dà il titolo al film sulla falsa riga del realmente esistito Dave Van Ronk, basandosi liberamente sul memoir che questo pubblicò postumo. Lo accompagnerà Carey Mulligan, mora e doppiamente a Cannes per Il Grande Gatsby d'apertura e, tra gli altri, John Goodman e Justin Timberlake, reduce dal quasi-record di vendite al debutto del suo 20/20 Experience di cui presto si avrà il secondo CD e che firma, insieme a T Bone Burnett e Marcus Mumford (nessuno dei due necessita di presentazioni) la colonna sonora composta da vecchi brani folk riarrangiati. In cartellone il 19 maggio a Cannes, il film sarà distribuito nelle sale americane dal 6 dicembre, e questo è il primo trailer.
Dall'altra parte della Selezione Ufficiale invece si trova il prolifero James Franco – 14 film in uscita come attore, 6 come autore, già a Berlino con lo sperimentale Interior. Leather Bar. – in concorso nell'Un Certain Regard da regista con As I Lay Dying, che se manterrà il titolo del libro da cui è tratto si chiamerà in Italia Mentre Morivo (di William Faulkner, Adelphi edizioni, € 10,00) perdendo il riferimento all'Odissea (libro IX) in cui Ulisse scende agli Inferi e ascolta Agamennone lamentarsi del nessun aiuto ricevuto dalla moglie, neanche da morto. La storia semplicissima del libro è ormai un classico della narrativa americana per la struttura e lo stile assurdi e studiatissimi che stanno alla base; in che modo il nostro James (che ricordiamo con treccine e denti d'argento in Spring Breakers) sia riuscito a trasporre la storia in pellicola, ci viene raccontato qui. Al suo fianco, come attore, oltre a Danny McBride che con Franco ha lavorato in Sua Maestà, c'è Tim Blake Nelson, appena visto in Lincoln e, a chiudere il cerchio, in Fratello, Dove Sei? dei Coen nel 2000.

sabato 11 maggio 2013

l'anima gemella.



Mi Rifaccio Vivo
id., 2013, Italia, 105 minuti
Regia: Sergio Rubini
Sceneggiatura originale: Sergio Rubini,
Carla Cavalluzzi, Umberto Marino
Cast: Emilio Solfrizzi, Neri Marcorè, Pasquale Petrolo, Vanessa Incontrada,
Margherita Buy, Sergio Rubini, Gianmarco Tognazzi, Valentina Cervi
Voto: 5.2/ 10
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Comincia la Festa del Cinema che non è quella di Roma ma quella di tutta Italia per cui al cinema si va con € 3 se non si scivola nel 3D (che costa 5) per ventisei film (qui l'elenco) inclusa la nuova uscita di Sergio Rubini, il – ed esagero considerevolmente – Tornatore della mia Puglia, colui che non riesce a staccarsi dalla propria terra e che, al contrario di Tornatore, quando si stacca fa cilecca. Come questo Mi Rifaccio Vivo, tremendo titolo dal doppio senso non così difficile da cogliere, soprattutto se si è già visto L'anima Gemella – con cui questo film condivide il tema dello scambio d'identità ma assolutamente non il potere della terra, del caldo truce e trucido, e la Valentina Cervi che abbiamo prestato all'America di True Blood e che ci siamo ripresi. Dunque, si comincia con una lettera d'addio alla moglie, un posacenere pieno di sigarette fumate, un paio di scarpe lasciate sul molo, un sasso legato alla corda legata al collo e un tentativo di suicidio, ma: prima del lancio volontario si mette di mezzo un chiodo che spingerà Biagio prima nell'acqua e poi nel taxi che va verso l'albergo-copia della solita scena di 8 e 1/2 a cui si rifaceva anche il tremendo Il Volto Di Un'altra. A guidare c'è Enzo Iacchetti, uno dei tanti personaggi che picchiettano la pellicola, ma nessuno eguaglia il regista & sceneggiatore & interprete Sergio Rubini che, nei panni prima di un barbone e poi di un portinaio, aiuterà il defunto Biagio a non finire, così come il regolamento vuole, ai piani bassi (che in 8 e 1/2 erano alti), convincendo Karl Marx a dargli una seconda possibilità della durata di una settimana sul mondo dei vivi: dal suo comportamento se ne dedurrà l'esito. E il contento Biagio può anche scegliere in che corpo infilarsi, e sceglie: non quello della nemesi di tutta una vita, un Neri Marcorè sempre bravo che prende qui il nome improbabile di Ottone, ma del Dennis super-ricco che Ottone ha come amico. Sulla terra ritroverà le mogli Margherita Buy – ancora nevrastenica e cornuta come qualsiasi altro ruolo della carriera – e Vanessa Incontrada – rassegnata e quasi insipida – insieme alla matta segretaria-amante, la Cervi di cui prima. In tutto questo, l'idea migliore è la presenza di Marx nell'aldilà, e forse la struttura del trapasso. Potrebbe anche essere piacevole il fatto che i riflessi nello specchio rivelano ai vivi la doppia natura di Dennis/ Biagio, ma il fatto che le due figure si scolleghino e parlino separatamente rende la trovata peggiore delle peggiori gag di Woody Allen a cui ogni tanto il film sembra guardare. Emilio Solfrizzi, poi, che credo di non aver mai visto al cinema, ricalca movenze e gesti di Pasquale Petrolo che nella commedia degli equivoci e del denaro si confondono insieme a tante altre cose: le donne, tutte pazze sessuomani; gli uomini, tutti arrivisti truffatori. Fino a Gianmarco Tognazzi, il cameo migliore.
In conclusione, il film è una sciocchezza che non fa ridere quasi mai, totalmente privo di morale – o meglio, che una morale ce l'ha, ed è meglio che non ce l'avesse tanto è banale. Tra il cast e le scenette sciape, pare di essere di fronte a una puntata de I Cesaroni o che ne so, allungata per il cinema e proposta a Natale. Ma io non ho mai visto né I Cesaroni né i film di Natale per cui potrei anche sbagliarmi. Fatto sta che a metà film mi sono bellamente addormentato e ho pensato: mannaggia a Sergio Rubini; ma grazie a Dio è costato solo tre euro.

#QueerPalm4.



In attesta della locandina forse più ufficiale di questa – che di solito ha svolazzi e ghirigori – mi sorprendo della scelta del fotogramma di un film portoghese del 2000 che non passò a Cannes bensì a Venezia, e che, stroncato da gran parte della critica, venne mandato una volta o due su Sky quando io ancora ero al liceo, e si chiama Il Fantasma (regia di João Pedro Rodrigues) – e se riconosco l'immagine è solo perché è pure sulla locandina.
Certo la Queer Palm, Palmina d'Oro al film a tematica GLBT presentato all'interno di una delle competizioni (la Selezione Ufficiale e l'Un Certain Regard), è troppo giovane per potersi permettere vecchie glorie sul manifesto (e penso a L'avventura), dal momento che festeggia questo maggio il quarto compleanno, dopo aver premiato, nell'ordine, il dubbio Kaboom, il sud-africano Beauty mandato all'Oscar l'anno scorso e Laurence Anyways del franco-canadese Xavier Dolan, attore e regista mio coetaneo ma già di culto (soprattutto grazie a Les Amours Imaginaires).
E i candidati di quest'anno sono pochi ma molto grassi: lo Steven Soderberg attualmente in sala col thriller farmaceutico Effetti Collaterali è uno dei due possibili vincitori del Concorso Ufficiale, e il più vistoso, con gl'imparruccati Matt Damon e Michael Douglas, rispettivamente Scott Thorson e il pianista e attore ultra-pagato Liberace degli anni '50, nella biografica storia d'amore durata sei anni e molte più primavere di differenza tra i due; Behind The Candelabra è anche il primo film made-for-television (più precisamente, il canale HBO) a partecipare in Concorso nel festival francese – sarà trasmesso il 26 maggio in USA e il 14 giugno in UK. Concorre per entrambe le Palme poi anche l'Abdellatif Kechiche di casa solitamente veneta (era in concorso per il Leone con Tutta Colpa Di Voltaire, Cous Cous e Venere Nera) con il lesbo La Vie D'Adèle chiamato anche Il Blu È Un Colore Caldo dalla graphic-novel da cui è tratto – dove blu è il colore dei capelli di una delle due protagoniste.
Di tema orgiastico, forse, sono L'inconnu Du Lac di Alain Guiraudie (Un Certain Regard), incontro tra un frequentatore di battuage lacunare con un assassino, e Les Rencontres D'après Minuit di Yann Gonzalez (Settimana della Critica), storia annoiata di una coppia che, per portare brio alla vita e alla casa, organizza una serata di sesso in gruppo nel salotto invitando personaggi cliché da film porno a partire dal nome.
Uno dei quattro episodi di cui è composto l'indiano Bombay Talkies (con cui, tra l'altro, si celebrerà il centenario della nascita di Bollywood) e il francese Les Garçons Et Guillaume, À Table! dell'attore e sceneggiatore teatrale Guillaume Gallienne (che ha messo il suo nome nel titolo perché storia autobiografica) completano il sestetto in gara. Mentre l'italiano Dimmi Che Destino Avrò, diretto da Peter Marcias e scritto da Gianni Loy (qui la pagina Facebook del film), sarà presentato al Marché tra gli otto titoli della casa di distribuzione filogay The Open Reel col titolo internazionale My Destiny.

lunedì 6 maggio 2013

io sono il vento.



Miele
id., 2013, Italia, 93 minuti
Regia: Valeria Golino
Sceneggiatura originale: Valeria Golino, Francesca Marciano
e Valia Santella
Ispirata al romanzo A Nome Tuo di Mauro Covacich (Einaudi)
Cast: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo,
Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco
Voto: 8.3/10
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Apparentemente basato su Vi Perdono di Angela Del Fabbro, come scrivono alcuni, l'esordio dietro alla macchina da presa di Valeria Golino, e dietro le quinte della produzione di Riccardo Scamarcio suo compagno, prende deliberata ispirazione dalla seconda metà del romanzino A Nome Tuo di Mauro Covacich, sempre Einaudi, senza dire che la Del Fabbro non esiste (ma Covacich sì) e lui è autore di entrambe le cose, e così mischia quei (sopran)nomi e queste ambientazioni per raccontare la storia (originale) di Irene, in arte Miele, che se si entrasse al cinema senza sapere in cosa consista quest'arte sarebbe ancora meglio, perché la Golino non ce lo dice subito, ci lascia aguzzare l'ingegno, stare attenti ai dettagli, e dopo una porta aperta e richiusa e un'istruzione data e una musica partita ci domandiamo: che è? In questo stesso modo farà poi tutto il film, intriso di una storia impeccabile che solo apparentemente è stata resa allo stesso modo, o forse lo è ma la troppa attenzione ci ha fatto sfuggire qualche dettaglio. Di Miele/ Irene cominciamo a sapere che va a Padova all'università (e ci va?), che incontra il suo professore per scrivere la tesi (e la scrive?), che è orfana di madre (morta per malattia?) e ogni tanto si reca in Messico (e gli altri lo sanno?) per comprare barbiturici per sopprimere i cani. E i cani, li sopprime?
La verità si mischia alle bugie che racconta e in un modo incredibilmente non didascalico, qualità che raramente appartiene al cinema italiano, e pezzi interi di trama non ci vengono dati, o ci vengono semplicemente abbozzati, com'è giusto che sia, e in un lasso di tempo abbastanza grande (abbastanza per includere più viaggi in America del Sud e uno ad Istanbul) Jasmine Trinca addobbata a Paola Cortellesi da giovane si sobbarca l'intera pellicola senza essere mai assente da nessuna scena. Il suo mestiere – che a questo punto non rivelerò – la fa sottostare a determinate regole di comportamento e segretezza, e nella sua tremenda solitudine (scalfita a volte da un uomo probabilmente sposato e molto spesso da canzoni di vario genere) si ritrova in case di sconosciuti ad assistere ad amori infranti, madri straziate, davanti a librerie piene di Einaudi e Adelphi (che appartengono, guarda un po', al presunto malato di AIDS gay la cui sorella, Iaia Forte, era stata incredibilmente più fuori luogo ne Il Volto Di Un'altra).
E la macchina da presa, e quindi la Golino, è sempre lì dove nessun altro andrebbe, o quasi; ora è traballante ora è ferma immobile, ora è commoventemente poetica e ora si avvicina al ghetto romano. Dall'altra parte del ciak, la Trinca va sempre benissimo e sempre è naturale ma quando ha troppe battute sale un tantino sopra il tono, al punto che ci sorprende nella delicatissima scena del vetro in discoteca, alla quale arriviamo subito dopo la prima morte volontaria: Io Sono Il Vento in sottofondo, un'anziana donna incapace di sostenere la malattia e il marito devoto a scartarle il cioccolatino preferito. Parrebbe una scena qualsiasi della seconda metà di Amour, ma sebbene non ci sia né un'intercettazione telefonica né un cane investito, forse per il modo in cui viene resa la vita di Irene forse per il rapporto burrascoso in principio con l'Ingegnere (magistrale Carlo Cecchi), ci viene da pensare a Film Rosso, con le stesse cose non viste (là era il fidanzato, qui la casa di lei) e con un finale poi non tanto diverso. Paragone superbo: nel senso che, sebbene imperfetto, Miele rappresenta esattamente il cinema italiano che non abbiamo più, e che grazie a Dio ci rappresenta nell'Un Certain Regard di questo Festival di Cannes.

il divo Giulio.


mercoledì 1 maggio 2013

la regina delle nevi.



Primo maggio e ancora piove che sembra novembre, clima perfetto per parlare di un film che uscirà sotto la neve – e che della neve parlerà: il 53esimo Classico d'Animazione Disney avrà titolo italiano Frozen - Il Regno Di Ghiaccio e arriverà nelle sale di tutto il mondo tra fine novembre e inizio febbraio 2014, in Italia precisamente il 19 dicembre scontrandosi ai botteghini con la seconda parte de Lo Hobbit: La Desolazione Di Smuag (12 dicembre) e Piovono Polpette 2 (25 dicembre), entrambi dell'ingorda Warner Bros.
Alla base di Frozen, che vede nel cast originale le voci di Kristen Bell (Veronica Mars), Idina Menzel (dai musica di Broadway a Come D'incanto e Glee), Josh Gad (L'era Glaciale) e Jonathan Groff (vedi Idina Menzel, ma con più comparsate in TV), c'è la fiaba di Hans Christian Andersen La Regina Della Neve (o Delle Nevi, a seconda delle traduzioni), storia di una scheggia di specchio che dai demoni (o demonî, a seconda delle traduzioni) del cielo scivola sulla terra e finisce nell'occhio di un fanciullo, Kaj, che coltivando rose sul ponticello che unisce il suo balcone a quello dell'amica d'infanzia Gerda cambierà totalmente atteggiamento e, irascibile e dispettoso, salirà a bordo della slitta della Regina del Nord per rinchiudersi nel suo castello a comporre puzzle di scritte con cubi di ghiaccio. Da qui inizierà il viaggio della piccola Gerda, un'Alice nell'Europa del Nord che attraverso renne, streghe allevatrici di fiori, incantesimi e aiuti dalla Natura riuscirà a raggiungere il lontano castello della sovrana per riprendersi ciò che le appartiene. Ma la fiaba originale (che potete trovare, ad esempio, qui per iscritto e qui nella fedele animazione russa), viene ovviamente modificata – come fu per la principessa jazz che baciando il ranocchio diventa rana – e compare l'uomo di montagna Kristoff, aiutante della protagonista che prende il nome di Anna, mentre la Regina si chiamerà Elsa.
Dietro la macchina da presa, se così si può dire, un'altra volta è una coppia: Chris Buck, navigato regista di Tarzan e Surf's Up, sceneggiatore di Pocahontas, disegnatore de La Sirenetta; e Jennifer Lee, sceneggiatrice del geniale Ralph Spaccatutto che firma anche questo script insieme all'esordiente Shane Morris.
Ancora pochi bozzetti pubblicati e qualche poster di dubbia fattura; ma dai paesaggi e dai costumi pare un altro, ennesimo, capolavoro visivo.