venerdì 31 gennaio 2014

la punizione del faraone.



12 Anni Schiavo
12 Years A Slave, 2013, USA/ UK, 134 minuti
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura non originale: John Ridley
Basata sul romanzo omonimo di Solomon Northup
Cast: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Sarah Paulson,
Paul Dano, Benedict Cumberbatch, Paul Giamatti, Brad Pitt,
Lupita Nyong'o, Alfre Woodard, Kelsey Scott, Quvenzhané Wallis
Voto: 8.8/ 10
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Candidato a nove Premi Oscar:
film, regia (Steve McQueen), sceneggiatura non originale (Joh  Ridley)
attore (Chiwetel Ejiofor), attore non protagonista (Michael Fassbender)
attrice non protagonista (Lupita Nyong'o), montaggio (Joe Walker)
costumi (Patricia Norris), scenografia (Adam Stockhausen & Alice Baker)
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Il «genio» Steve McQueen (le virgolette sono di Michael Fassbender su Vanity Fair), video-artista al suo terzo lungometraggio, raccoglie il crescendo di successi accumulati in precedenza e approda al cinema con un'opera che, stando solo alla trama, spezza con le precedenti; è una storia in costume, storia vera di Solomon Northup rapito da due bianchi finti impresari circensi e venduto come schiavo, privato della sua identità e separato con la forza e l'inganno dalla famiglia, dai figli, per essere deportato altrove a coltivare il cotone e lavorare la terra mantenendo la media delle 200 libbre raccolte ogni giorno sennò cento frustate. Ed è una storia linearmente raccontata, affrontabile da ogni tipo di pubblico: non siamo più davanti ai pianosequenza estremi di Hunger, al suo silenzio perenne rotto dal magistrale dialogo del mezzo; non abbiamo più il mistero da svelare scavando nella psicologia dei due protagonisti di Shame: qui tutto ci viene raccontato sin dall'inizio, come a voler privare il film della sua trama, del suo sviluppo, anche perché a McQueen raccontare una storia in ordine cronologico non piace. Eppure gli strascichi di Shame si sentono, soprattutto nella colonna sonora che un sacco le assomiglia (Glenn Gould escluso) ma di Hans Zimmer, ingiustamente non candidato all'Oscar; e ancora di più si sente Hunger: nell'esplicitazione della violenza, nella nudità dei corpi maltrattati, nelle frustate, nelle ferite sulla schiena, sui lividi, sulle magrezze. Ancora una volta il regista irlandese confeziona un'accusa verso la società: non è più la condizione dei prigionieri politici né quella del disturbo sessuale di un presunto violentato, ma un'accusa più grande, immensa, di cui tutto il mondo parla: è l'olocausto del Nuovo Continente, la tratta dei negri che ormai il cinema ci racconta in tutte le salse – e gli attuali adolescenti cresceranno come noi siamo cresciuti leggendo Anna Frank. Ma 12 Anni Schiavo si eleva sugli altri, sui grotteschismi ironici di Django, sull'asciuttezza narrativa di Lincoln, sulla compassione pietosa di The Butler, e si fa pellicola per chi si ritiene troppo intelligente per tutti i precedenti: perché McQueen estetizza, racconta una catastrofe ingiusta, un'altra vittimizzazione dovuta a circostanze esterne, alle cose del mondo, e lo fa senza mai perdere la propria concezione di Arte. Più il film avanza, più la storia si sporca di sangue, migliori sono le scene, concludendosi in un pianosequenza in cui la straordinaria Lupita Nyong'o si ritrova, nuda e legata, a sorbirsi colpi di frusta che le vediamo squarciare le carni. Però la fama del regista, e soprattutto del suo sodalizio con Michael Fassbender, qui relegato in una parte minore ma terribile e terribilmente interpretata, lo spinge sul grande pubblico, per cui lima i propri pirotecnicismi e puntella la pellicola con immagini di paesaggi e di orizzonti ricordando I Giorni Del Cielo e semina tra il cotone attori da cartellone, dal cattivo-a-tutti-i-costi Paul Dano al commerciante Paul Giamatti, dal buono Benedict Cumberbatch al buonissimo Brad Pitt (anche produttore). Se Spielberg si stendeva sulla sua impeccabile sceneggiatura, e soprattutto sui suoi attori, McQueen fa l'esatto opposto, prendendosi il carico della creazione di pathos – eppure gli attori lo superano lo stesso: Chiwetel Ejiofor è straordinario, e lui se ne accorge e lo riprende, fermo, per una scena intera. Meravigliosa. Cerca il meraviglioso in tutto – ma in tutto il becero, il cattivo, l'estremo: non ci mostra infatti la conclusione della storia (pubblicata nel 1853), e ce la riassume con troppe didascalie di fondo.
Era stato eletto film dell'anno prima che uscisse, ha avuto la sfortuna di uscire insieme a troppi film dell'anno. La critica si divide: attenzione però che le aspettative alte ammazzano.

giovedì 30 gennaio 2014

canzone originale - revoca di nomination.



Prima volta nella storia che l'Academy ritira una candidatura fresca di due settimane: Alone Yet Not Alone dal film omonimo è stata squalificata dalla corsa come miglior canzone originale «per incorrettezze elettorali». Nell'incontro del Governors Board di martedì sera i membri dell'AMPAS hanno votato per l'eliminazione dalla cinquina del brano; l'autore della musica Bruce Broughton, ex governatore della branca musicale e attuale membro del comitato esecutivo, a quanto pare, ha goduto della propria posizione per ottenere la nomination (e farla ottenere al paroliere Dennis Spiegel) divulgando la traccia tra i giurati. Lui così si è difeso sull'Entertainment Weekly: «i giurati musicali sono soliti raccogliere tutte le canzoni in un unico CD e ho pensato che questa sarebbe stata trascurata e allora, sì, ho scritto a qualcuno per dire: ehi, puoi dare un'occhiata? È stato questo il limite della mia campagna, ho ricevuto via mail canzoni di altri film che erano state messe su CD per cui non mi è sembrato di fare niente di male»; ma ormai la decisione di soppressione è stata presa e le canzoni candidate si riducono a quattro (l'Academy non ha accennato a una nuova candidatura).
La revoca di una nomination è capitata solo altre cinque volte nei quasi novant'anni di cerimonie; dalla colonna sonora di Nino Rota per Il Padrino, che utilizzava accordi già inseriti nel commento musicale a Fortunella, e che comunque vinse lo stesso premio due anni dopo per Il Padrino Parte II, al film straniero Un Posto Nel Mondo del 1992, inviato dall'Uruguay ma di produzione quasi completamente argentina, per cui eliminato dalla votazione finale.
La gara tra Let It Go e Ordinary Love si fa più ristretta.

mercoledì 29 gennaio 2014

Grammy Awards - visual media vincitori.



Thomas Newman (foto) porta a casa il 56esimo Grammy Award per la migliore colonna sonora in un film, lo Skyfall dell'anno scorso; dello stesso film è la migliore canzone originale, Skyfall scritta da Adele e Paul Epworth e interpretata da Adele, che con questo Grammy raggiunge la quota di dieci grammofoni sulla mensola della libreria. La musica originale dell'ultimo capitolo di 007 diretto da Sam Mendes, l'anno scorso, non fu neanche candidata all'Oscar (mentre la canzone sì), accontentandosi dell'altro premio per il sonoro. Vince il terzo e ultimo premio per la visual-media music Sound City: miglior album – e vince facile, essendo un documentario sulla storia dello studio di registrazione di Los Angeles. Tra gli altri, nel debutto alla regia di Dave Grohl, compaiono Mick Fleetwood, Trent Reznor, Paul McCartney, Neil Young e, attraverso materiale di repertorio, Johnny Cash e Kurt Cobain. Nonostante non sia piaciuta a Pitchfork, che l'ha votata 5.3 su 10, la compilation (qui i dettagli) batte l'ensamble canterino de Les Misérables e l'epopea del pop rivisitato per Il Grande Gatsby.
Tutti i candidati, di seguito, dopo l'interruzione mentre questo è il sito ufficiale dei Grammy, dove si può trovare l'elenco degli altri infiniti premi insieme ai video delle performance della cerimonia di domenica scorsa.

martedì 28 gennaio 2014

Directors Guild Awards - vincitori.



Alfonso Cuarón riceve da Ben Affleck, vincitore della scorsa edizione, il premio come miglior regista 2014 ai 66esimi Directors Guild Awards (foto), i premi del sindacato americano dei registi che ogni anno premia il cinema e la televisione (qui il sito ufficiale, con i vincitori di tutte le categorie). L'autore, produttore e montatore di Gravity incassa un altro trofeo dopo il Golden Globe per lo stesso ruolo, per lo stesso travagliato film che, con 100 milioni di budget, scritto anni fa e poi acquistato nel 2010 dalla Warner Bros, ha rappresentato uno dei maggiori incassi del 2013 (più di 675 milioni di dollari, l'80% dei quali per le proiezioni in 3D, battendo l'incasso parziale di Avatar). Durante la cerimonia di premiazione, dove era secondo favorito Steve McQueen, è comparsa anche Sandra Bullock, protagonista quasi unica del film dopo che la sua parte era stata data a Blake Lively e Natalie Portman, che rifiutarono durante la lavorazione. Cuarón ha ripreso su green screen attraverso una macchina digitale il cui ricavato è stato poi convertito in 3D. Lavorando con la Framestone (Oscar agli effetti de La Bussola D'oro), Cuarón ha montato 155 inquadrature di circa un minuto l'una, fatta eccezione per la prima, di quasi 20: un pianosequenza magistrale.
L'Oscar a questo punto è certo, a meno che la presenza di Ben Affleck, che l'anno scorso non fu neanche candidato per la sua direzione di Argo, non porti sfortuna all'autore de I Figli Degli Uomini; ma l'Academy premiò Ang Lee per la super-digitale Vita Di Pi, segno di un interesse verso l'uso impastato del digitale.


miglior regista
di un lungometraggio di finzione
Alfonso Cuarón per  Gravity 
Paul Greengrass per Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Steve McQueen per 12 Anni Schiavo
David O. Russell per American Hustle - L'apparenza Inganna
Martin Scorsese per The Wolf Of Wall Street

AZT.



Dallas Buyers Club
id., 2013, USA, 117 minuti
Regia: Jean-Marc Vallée
Sceneggiatura originale: Craig Borten & Melisa Wallack
Cast: Matthew McConaughey, Jared Leto, Jennifer Garner,
Denis O'Hare, Steve Zahn, Michael O'Neill, Dallas Roberts
Voto: 7.4/ 10
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Candidato a sei Premi Oscar:
film, sceneggiatura originale (Craig Borten & Melisa Wallack)
attore (Matthew McConaughey), attore non protagonista (Jared Leto)
montaggio (Jean-Marc Vallée & Martin Pensa)
trucco e acconciature (Aruditha Lee & Robin Mathews)
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Scommettitore truffaldigno al rodeo, consumatore di sesso occasionale tra gli spalti, il saldatore Ron Woodroof ci viene presentato subito nel modo becero in cui è: orgette nella roulotte in cui vive, battute sui froci durante il lavoro coi compagni maschioni, coca e whisky come se piovessero. Poi un cavo del pannello gli fa scintille in faccia e lui finisce in ospedale: tutto ok in viso ma c'è un male nelle analisi del sangue. I medici lo informano del virus dell'HIV che ha contratto e lui, come ogni manuale di psicologia vuole, comincia col rifiuto della malattia, una malattia che è roba da froci o da tossici per endovena, mentre lui scopa solo le fighe e sniffa dal naso. Abbandona l'ospedale dando degli incompetenti ai camici e questa scena la rivedremo ancora dozzine di volte, perché quando avrà accettato la condizione terminale Ron finirà spesso sulla barella sotto osservazione. Capiamo quindi la magrezza estrema, una magrezza che ha ridotto Matthew McConaughey (complice il trucco) a un girovita inaffrontabile che, però, gli resterà uguale per tutto il corso del film. Gli avevano previsto trenta giorni di vita, non di più – e invece campa più di sette anni. Non certo grazie ai medicinali che gli vengono prescritti, inefficaci e non completamente testati; siamo negli anni dell'AIDS sterminatore e solo in Messico si trovano cure che certo non ammazzano il virus ma almeno eliminano i sintomi. Ron, di cui criticheremmo certamente lo stile di vita (che continua ad essere tutto donne coca alcool e soldi), parte e torna dal confine con carichi di pillole che prima si mette a vendere di contrabbando, parallelamente ai gruppi d'ascolto degli infetti, poi commercia in un vero studio con vere segretarie. Una di queste è Jared Leto, altra anoressia disgustosa per entrare nei panni di una donna priva di seno e di vagina, e che – deduciamo – non arriveranno mai, dato che sarebbe inutile intervenire chirurgicamente per un corpo in decomposizione. Parentesi sulla sua interpretazione: evitando la macchietta in cui sarebbe facilmente caduto, Leto mantiene i connotati maschili del maschio che fa la donna senza eccedere. Inevitabile il paragone con Gael García Bernal de La Mala Educación perché anche quello restava mascolino (essendo poi etero), ma celava un femminilismo che il buon Pedro aveva imposto. Leto invece non si sforza di camminare neanche dritto, tanto si sta disfacendo e tanto non crede a se stesso. Dice solo una volta «tesoro» e sentendolo ci accorgiamo che forse lo dovrebbe dire di più. Vomita sangue e implora la sopravvivenza e allora capiamo perché piace tanto all'Academy.
McConaughey invece, ormai dichiaratamente bravo, diventa quindi il portatore della sanità che la sanità non porta, addirittura regalando a chi gli aveva dato del finocchio le medicine per i parenti. Un percorso tipico da grande gigante egoista a gentile: ci schieriamo dalla sua parte, nonostante abbia deriso il prossimo se debole, perché adesso gli va incontro, nonostante i modi burberi e il rifiuto dell'istituzione ospedaliera. I medici sono tutti cattivi, tranne Jennifer Garner, che vive il dilemma – e tutto questo è molto ruffiano, i ruoli sono troppo squadrati e Jean-Marc Vallée non avrebbe dovuto prendere parte né posizione. Gli viene bene la stessa ambiguità sessuale che era tra i fratelli di C.R.A.Z.Y., suo film del quasi-esordio già piccolo cult, ma canadese e recitato in francese: un protagonista malato di AIDS eterosessuale, che addirittura disprezza i gay, è un buon punto di partenza; e infatti, è storia vera. Tutto il resto, eccetto i tentativi di immergerci nella malattia attraverso il sonoro e un montaggio svelto, è sviluppo di una storia da manuale.

venerdì 24 gennaio 2014

Producers Guild Awards - vincitori.




Con un parimerito si è conclusa la 25esima edizione dei Producers Guild Awards, i premi del Sindacato dei Produttori Americani che mai nella storia aveva assegnato il massimo riconoscimento a due film invece che a uno. E stando alle statistiche del passato (17 volte in 24 anni), chi vince questo premio va a ritirare poi l'Oscar al miglior film, e per questo 2014 il campo si restringe a due scelte: Gravity, l'epopea fantascientifica di Alfonso Cuarón, e 12 Anni Schiavo, l'epopea anti-razziale di Steve McQueen (il primo nella foto a sinistra, il secondo a destra con Brad Pitt, produttore della pellicola). Entrambi i registi sono da elogiare, e presumibilmente uno riceverà la statuetta alla regia e l'altro no. Altro vincitore annunciato (in tutti i campi) è Frozen, ultimo classico d'animazione Disney e campione d'incassi qui e oltreoceano. Meno prevedibile il premio dei produttori al documentario: We Steal Secret, la storia del sito internet di Julian Assange, batte la HBO in lizza con due titoli (ma attenzione: nessuno dei candidati concorre ora per l'Oscar). Qui trovate l'elenco di tutti i vincitori, sia i produttori di film e serie televisive sia di spot pubblicitari; di seguito invece, dopo l'interruzione, i candidati e i premiati per il cinema.

fucking fucker.



The Wolf Of Wall Street
id., 2013, USA, 180 minuti
Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura non originale: Terence Winter
Basata sul romanzo omonimo di Jordan Belfort
Cast: Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie,
Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner,
John Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin
Voto: 8.9/ 10
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Candidato a cinque Premi Oscar:
film, regia (Martin Scorsese), sceneggiatura adattata (Terence Winter)
attore (Leonardo DiCaprio), attore non protagonista (Jonah Hill)
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Portati a casa gli Oscar di consolazione per The Departed, uno dei forse tre registi ancora viventi che hanno segnato la storia del cinema americano, Martin Scorsese, ha iniziato un percorso di rinnovamento staccandosi dal genere che gli era sempre stato congeniale e che gli avremmo sempre attribuito e ci sorprese tutti, un paio d'anni fa, quando portò al cinema un'omaggio all'arte cinematografica e alla finzione filmica più per i bambini che per i maschi adulti. Con Hugo Cabret aveva dimostrato una maestria ormai raggiunta, una capacità di muovere la telecamera, pensare la scena, utilizzare il mezzo e coinvolgere (e confondere) lo spettatore degna di inchini – e del nome che porta; un film che se fosse stato girato da qualcun altro sarebbe finito dritto dritto su Italia 1 al sabato sera, e invece lo si studia ai corsi di Cinema (soprattutto per la sequenza iniziale). E quando pensavamo che ormai l'arte era dimostrata e l'abilità era stata messa sul piatto, ecco che torna in sala con una commedia, una commedia nera, di un nero che oscilla tra il grottesco e il demenziale senza mai toccare nessuno dei due generi, che è nera perché è profondamente tragica ma fa sorridere senza assolutamente dare giudizi o prendere posizioni o fare del moralismo. Cambia ancora rotta, ma non attore protagonista, e il sodalizio tra lui e Leonardo DiCaprio brilla di luce propria in un film che già splende di rigore tecnico. Scorsese ormai sa tutto: spazia dallo spot televisivo al ralenty, dal montaggio allucinato e frettoloso alle sequenze comiche diluite, dal cartone animato visto in TV al filmino girato con telecamera; conosce ogni strumento, sa come contaminare la propria opera, sa in che modo inquadrare la folla, un manipolo di broker in ufficio, una serie di uomini nudi durante un'orgia gay, una serie di donne nude in un'ammucchiata aeroportuale. Dall'altra parte della macchina c'è il suo attore, che si sobbarca tre ore intere di film tutte sulle spalle dipingendo un personaggio privo di sbavature, che scandisce la sua esistenza tra sesso droga e dollari coi quali compra il sesso e la droga che gli servono per scandire la sua esistenza di qualcosa. Lo vediamo, ventenne, con la stessa faccia che DiCaprio ha da vent'anni, mentre si fa istruire da Matthew McConaughey in un quasi-cameo iniziale che quasi dimentichiamo, seduti al tavolo di un ristorante mentre il novello ordina acqua liscia e dimostra la gioia di essere entrato a Wall Street e il magnate sniffa in pubblico e chiede al cameriere di portare tanta vodka quanta ne serve a farlo svenire. Dopo vent'anni il romanzo di formazione sarà chiuso in cerchio, con Jordan Belfort (Leonardo) ormai talmente ricco «da non sapere come spendere i soldi» che striscia dalle scale per raggiungere l'auto che, in piena paralisi cerebrale, non saprà come guidare (sequenza memorabile: soprattutto per il seguito). Jonah Hill è il suo unico amico, ma scopriremo presto che anche l'amicizia davanti ai soldi subisce dei tentennamenti e che i soldi, come si dice, non comprano la felicità ma tante altre cose che ci avvicinano ad essa: case, yacht, feste, vacanze, una moglie stra-viziata che non accetta i vizi coniugali (una Margot Robbie mozzafiato) e soprattutto tanta coca per avere l'energia di affrontare tutto questo, di vivere sempre tutto appieno, di non crollare mai sotto alle cose ma guardarle dall'alto. Una considerazione quasi verista del materialismo, un Mazzarò che non si preoccupa assolutamente di ciò che possiede e di quello che potrebbe perdere perché non ne porta neanche il conto, ma che non ha altri argomenti di conversazione se non i suoi possedimenti e in generale il denaro, che parla ai dipendenti ricordandoli poveri, che solo per un attimo nella vita dimentica di essere ricco e non ci dice cosa prova. Vediamo tutto attraverso i suoi occhi, e ciò che vediamo, per quanto spaventosamente desiderabile e pericoloso, è impeccabile.

martedì 21 gennaio 2014

Screen Actors Guild Awards - vincitori.




Finalmente Lupita Nyong'o torna in auge per la straordinaria performance in 12 Anni Schiavo, che si era presentato, a inizio stagione, come il film arraffa-tutto dell'anno e invece piano piano sta cedendo colpi. Se è suo lo Screen Actor Guild Award per la migliore attrice non protagonista, non lo è quello per l'attore Chiwetel Ejiofor, battuto dal già-Golden Globe Matthew McConaughey, che adesso passeggia indisturbato verso l'Oscar – un premio comunque giusto, considerata anche la carriera recente e snobbata dell'attore, straordinario in Killer Joe. Anche Michael Fassbender, già messo in disparte per Shame, vede il proprio trofeo nelle mani di Jared Leto per Dallas Buyers Club. 12 Anni Schiavo, che poteva allora farcela per l'intero cast (tra gli altri, Brad Pitt, Benedict Cumberbatch, Sarah Paulson, Paul Giamatti, Paul Dano, Alfre Woodard) ha perso contro il ben più elogiato American Hustle, ritratto di un'America molto più grottesca di quanto negli anni '70 non fosse (nella foto, Jennifer Lawrence e Amy Adams con la direttrice del cast), dato che il premio alla migliore performance femminile l'ha giustamente ritirato Cate Blanchett per Blue Jasmine.
Nella serata sono stati consegnati anche i premi alle serie e ai film per la TV. Oltre a Behind The Candelabra e Modern Family, qui l'elenco di tutti gli awards assegnati, e di seguito, dopo l'interruzione, l'elenco delle performance cinematografiche.

miglior performance
di un attore protagonista
Bruce Dern in Nebraska
Chiwetel Ejiofor in 12 Years A Slave
Tom Hanks in Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Matthew McConaughey in  Dallas Buyers Club 
Forest Whitaker in The Butler - Un Maggiordomo Alla Casa Bianca

miglior performance
di un'attrice protagonista
Cate Blanchett in  Blue Jasmine 
Sandra Bullock in Gravity
Judi Dench in Philomena
Meryl Streep in I Segreti Di Osage County
Emma Thompson in Saving Mr. Banks

i nativi americani.



I Segreti Di Osage County
August: Osage County, 2013, USA, 121 minuti
Regia: John Wells
Sceneggiatura non originale: Tracy Letts
Basata sullo spettacolo omonimo di Tracy Letts
Cast: Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor, Chris Cooper,
Margo Martindale, Sam Shepard, Dermot Mulroney, Abigail Breslin,
Julianne Nicholson, Juliette Lewis, Benedict Cumberbatch
Voto: 7.5/ 10
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Candidato a due Premi Oscar:
attrice protagonista (Meryl Streep)
attrice non protagonista (Julia Roberts)
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“La vita è molto lunga” – T.S. Eliot.
Con una considerazione sul diritto d'autore si apre un film che vede un uomo, un poeta abbastanza famoso in passato, esordire sbeffeggiando un collega che non ha detto niente di nuovo ma a quello che ha detto adesso vede affiancato il proprio nome, e capovolge il senso della frase; la vita è molto lunga, ma non lo sarà per lui, nel momento in cui assume la domestica indiana/ nativa americana che si deve prendere cura della casa e, all'occorrenza, della moglie malata di cancro alla bocca, una Meryl Streep che compare già la prima volta ammattita dalle pillole da cui dipende, coi pochi capelli scampati alla chemio, con la bocca che a tratti brucia e la costringe alla balbuzie, alle dita sulla lingua, con una sigaretta sempre accesa per sentire un altro sapore. Dal momento in cui entrerà nello studiolo del marito che sta assumendo la domestica indiana/ nativa americana, sarà la stella del film, la colonna della storia. I compatimenti e gli abbracci saranno tutti per lei, quando il marito non si vedrà più in casa né in giro, probabilmente scappato, magari in gita in barca senza avvisare. In tre momenti diversi di un caldissimo agosto (che ingiustamente è stato tolto dal titolo) vedrà le tre figlie pioverle in casa: Ivy, tenera e dolce e mite e insicura donnina vicina ai cinquanta con una segreta relazione insieme al cugino mezzo tocco (l'ormai onnipresente Benedict Cumberbatch; ma senza accento inglese); Karen, una splendida Juliette Lewis trucida e convinta di aver trovato l'uomo giusto in un divorziato già tre volte, oca e malvestita; Barbara, la Julia Roberts vera protagonista della storia, la figlia forte, il pugno di ferro, colei che a tavola stabilisce che la dipendenza dalle pillole deve finire e lancerà i flaconi in faccia all'incapace medico, che aggredirà la madre alla cena di lutto facendola finire schiacciata per terra (vedi locandina originale) senza però rompere l'incanto familiare perché è così che in famiglia si fa: si litiga fino ai cazzotti ma poi l'equilibrio ritorna e i rancori si mascherano. E di questo il film vuole parlare, partendo dal libretto e dallo spettacolo di Tracy Letts, pluripremiato a teatro, in cui vedeva ricostruita una casa intera a due piani per distribuire i personaggi nello spazio, il Tracy Letts autore di un altro spettacolo e un'altra sceneggiatura magistrali, Killer Joe, capace di incastrare crisi familiari a carriere corrotte di poliziotti, sempre con un'adolescente disturbata da qualcosa, dalla realtà troppo poco fiabesca probabilmente: lì era Juno Temple, che viveva in una sorta di baracca con madre assente e traditrice e padre desideroso dei soldi dell'assicurazione; qui è Abigail Breslin, ex bambina prodigio (per Little Miss Sunshine) e ormai volto qualunque, quattordicenne devota all'erba e accattivata dagli adulti che le sputano il fumo in bocca. Guarda Il Fantasma Dell'opera del 1925 per evadere da una famiglia in cui ogni elemento costituisce un problema per sé e per gli altri senza apparente soluzione. Tutto pare vada a scatafascio: dalle relazioni sentimentali (a cominciare da quella col tenero Ewan McGregor) ai legami di sangue, fino all'appartenenza territoriale; si evade, si scappa, si vola a New York o a Miami, eppure tutti sono chiusi in questa casa in cui, a coppie o in gruppi, si tirano addosso le proprie disgrazie. Gli esterni hanno meno forza, fuori dalla casa ci sono solo anonime insegne o campi o strade tra i quali gli attori si fanno piccoli piccoli. E, alla fine, non si trova rimedio.
Il film, pare incompleto. Comincia all'improvviso, salta grandi episodi senza avvisarci, finisce senza dircelo. Come la vita – ed è giusto così. Ci regala una performance straordinaria, una delle tante, della Streep, che sboccata e perfida sente la responsabilità di tanti errori e sa di stare pagando. La prova da regista di John Wells, però, non va completamente in porto. Lui, sceneggiatore e regista storico di E.R., adesso autore di Shameless e nel 2010 al cinema con The Company Men sempre con Chris Cooper, sa come dissolvere la telecamera tra i drammi umani ma non riesce poi a ricomporla quando è il momento. Anche se l'amaro in bocca ce lo lascia di più la storia.

sabato 18 gennaio 2014

MPSE Golden Reel Awards - nominations.



L'associazione dei Motion Picture Sound Editors ha annunciato le nominations delle 22 categorie che concorrono al Golden Reel Award, il premio al miglior montaggio sonoro assegnato ogni anno dal Sindacato; oltre al cinema, le candidature spaziano tra la televisione, l'animazione, i videogiochi. La 61esima cerimonia di premiazione si svolgerà lunedì 17 febbraio a Los Angeles e vedrà scontrarsi i tecnici del suono delle migliori e più premiate pellicole dell'anno, dal pluri-candidato 12 Anni Schiavo (qui in corsa per gli effetti sonori, dialoghi, musica) alla perla di fantascienza Gravity, dalla commedia grottesca American Hustle a Captain Phillips, dai musicali Frozen e A Proposito Di Davis ai film stranieri La Vita Di Adèle, The Grandmaster, Il Passato che conta una troupe mezza iraniana e mezza francese e La Bicicletta Verde con la sua prima regista araba donna. Tra i film d'animazione compare l'europeo Ernest & Celestine mentre non dovrebbe avere concorrenti, tra i documentari, 20 Feet From Stardom che, occupandosi delle carriere dei più famosi cantanti e musicisti del mondo, ha una particolare cura per l'aspetto sonoro. Tutte le altre candidature sono nella pagina del sito ufficiale mentre di seguito, dopo l'interruzione, le nominations per il cinema di finzione, di documentario e d'animazione.

miglior montaggio sonoro -
effetti in un film
(a lingua inglese)
12 Anni Schiavo
All Is Lost - Tutto È Perduto
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Fast & Furious 6
Gravity
Lo Hobbit: La Desolazione Di Smaug
Iron Man 3
Lone Survivor


miglior montaggio sonoro -
dialoghi e presa diretta in un film
(a lingua inglese)
12 Anni Schiavo
American Hustle - L'apparenza Inganna
I Segreti Di Osage County
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Gravity
Her
A Proposito Di Davis
Lone Survivor

le pere.



Saving Mr. Banks
id., 2013, USA/ UK/ Australia, 125 minuti
Regia: John Lee Hancock
Sceneggiatura originale: Kelly Marcel, Sue Smith
Cast: Emma Thompson, Annie Rose Buckley, Colin Farrell,
Tom Hanks, Paul Giamatti, Jason Schwartzman, Ruth Wilson,
Bradley Whitford, B.J. Novak, Rachel Griffiths
Voto: 7.8/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
colonna sonora originale (Thomas Newman)
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P.L. Travers, ormai sessantenne, conduce la sua vita tutta the (col latte, che si versa prima) e macchina da scrivere nella sua grande casa a schiera tipicamente inglese dove l'ingegno partorisce a intermittenza gli episodi che formano i vari libri di Mary Poppins (In Cucina, In Giardino, Dai Vicini...); causa di ciò è lo straordinario successo del primo di questi non-romanzi durante gli anni '40, quando l'arrivo della bambinaia con l'ombrello parlante fu la lettura di ogni infante e il sorriso di tutti i genitori. Walt Disney, vivissimo e vegeto e con già una libreria a muro tempestata di Oscar, aveva promesso alle figlie che un giorno avrebbe reso il loro libro preferito un film di successo – e per vent'anni si è battuto con la scrittrice affinché lei gli concedesse i diritti per girare. La Travers però, rigidissima e conservatrice, diffidente dell'animazione, del musical e dei grandi pupazzi che iniziavano a infestare il primo parco di divertimenti della compagnia, rifiutò senza indugio per anni, fino all'invito a trascorrere due settimane a Los Angeles per visionare il copione già pronto e, magari, decidersi alla firma. Ovviamente la permanenza sarà fatta di paragoni con l'amata Inghilterra, di strade prive di gente a passeggio, di sole troppo forte, di peluche ingombranti e spaventosi nel letto: tutto è poco desiderato, tutto è sbagliato, gli sceneggiatori sono poco più che incompetenti, Walt Disney è scortese nel chiamarla «Pamela» – ed Emma Thompson dà una prova di attrice come forse non le era mai successo. Il film è tutto su di lei, sulla rigidità imposta e sulla tradizione che ha voluto spingersi nel sangue per nascondere una solitudine e tante debolezze che l'accompagnano da quand'era giovane. La pellicola affianca le immagini del 1961 a L.A. all'infanzia della Travers quando ancora usava il nome di battesimo, in Australia, in una fattoria che faticava ad andare avanti tra il controllo degli averi di mamma Ruth Wilson (la cugina di Anna Karenina) e lo sperpero del denaro in alcool e pere di papà Travers, interpretato da un Colin Farrel esaltato e ripulito, legatissimo alla bambina di un affetto più che ricambiato. Le storie che scorrono parallele servono a mostrarci come in realtà Mary Poppins sia infestato dei ricordi dell'infanzia, dei riferimenti alla vita da bambina dell'autrice e il titolo, effettivamente azzeccatissimo, fa riflettere su quanto anche la pellicola Disney ruotasse più attorno alla figura del padre di famiglia, il signor Banks, che ad altro. Perché il film poi si fa, e noi oggi lo sappiamo bene: 5 Oscar e qualche canzone passata alla storia. Questo è il problema delle pellicole che ci raccontano vicende che sappiamo già come hanno fine, ma il film si fa vedere senza problemi, chiedendosi spesso come abbia reagito poi l'autrice nel vedere tanta musica, tanti balletti, tanti elementi animati a cui era contrarissima. E il film, dicevo, si fa vedere, perché è marchiato Disney (altrimenti non potrebbe permettersi di cominciare sussurrando Chim Chim Cher-ee né potrebbe farci vedere qualche estratto dalla sala cinematografica) e la Disney, si sa, accontenta grandi e piccini. Con le scene che ricreano i campi di primo Novecento tanto curate quanto lo erano in War Horse e i temi scomodi ridotti al minimo quanto lo erano in War Horse – che parlava di una guerra in cui praticamente nessuno muore – Saving Mr. Banks si fa piccolo kolossal pieno di costumi e scenari ben fatti. Ma a John Lee Hancock è andata peggio che a Spielberg, che con quel film ottenne 6 candidature all'Oscar; il regista texano di The Blind Side, che ha illuso il mondo che la Bullock sappia recitare e ha stregato gli appassionati di cronache sportive, è qui praticamente invisibile, come lo era lì, adagiandosi su una scioltezza filmica quasi banale. Magistrale il lavoro con la protagonista femminile, che certo non ha bisogno di farsi dirigere; meno potente quello con Tom Hanks, che ricrea un Walt Disney molto più paffuto e decisamente meno ambiguo e charming dell'originale. Ma cadiamo nell'illusione.

giovedì 16 gennaio 2014

Oscar 2014 - nominations.



Ce la dovremo vedere contro l'accusa di stupro de Il Sospetto, la malattia terminale a suon di musica di Alabama Monroe, il genocidio cambogiano ne L'immagine Mancante e l'amore e gli altri isolamenti di Omar; ma siamo candidati con La Grande Bellezza agli 86esimi Academy Awards, i cui Oscar saranno consegnati domenica 2 marzo al Kodak Theatre di Los Angeles. La gara sarà in realtà tra i filmoni: Gravity in testa con 11 nominations, inclusa quella regalata a Sandra Bullock; subito dopo 12 Anni Schiavo, il film dell'anno, con 10 candidature e senza il nome di Hans Zimmer tra i migliori compositori; sempre con 10 nominations gareggia American Hustle, che non è nella lista del trucco e delle acconciature (a discapito di Jackass) ma fa fare doppietta a David O. Russell per la squadra degli attori tutti candidati come fu l'anno scorso per Il Lato Positivo. Oltre ai tre registi di questi film, tra cui dovrebbe avere la meglio Alfonso Cuarón, troviamo Martin Scorsese che di striscio ce la fa e Alexander Payne che toglie il posto a Greengrass – ma il suo Captain Phillips se la cava più che bene (6 candidature, incluso l'attore non protagonista Barkhad Abdi). Al contrario fanno le pellicole nel limbo già dall'inizio A Proposito Di Davis (2 nominations: fotografia e mixaggio sonoro) e Saving Mr. Banks (colonna sonora), che non vede né i costumi né le scene né soprattutto l'attrice, a cui è preferita (ancora!) Meryl Streep, e nemmeno l'attore non protagonista Tom Hanks, che non è candidato neanche per Captain Phillips cedendo il posto a Leonardo DiCaprio. Perché pare che sia l'anno in cui l'Academy spinga i film indietro: The Wolf Of Wall Street ottiene 5 candidature a sorpresa (la sceneggiatura ma, soprattutto, Jonah Hill come attore non protagonista) e il film indipendente dell'anno viene incoronato Dallas Buyers Club, 6 nominations (film, sceneggiatura, attore, attore non protagonista, montaggio, trucco) che sbattono fuori la probabile sorpresa Fruitvale Station e fanno spazio a un'altra pellicola meravigliosamente presente, Nebraska (6 nomine). Viene riesumato Il Grande Gatsby per poche cose (costumi, scene – ma non la canzone di Lana Del Rey) e The Grandmaster è preferito per i suoi aspetti tecnico-atristici che al film straniero; le candidature di reparto, tipo la fotografia, sono fedeli al sindacato (spunta Prisoners), ma non vale per gli effetti speciali: la più grande mancanza è Pacific Rim, deludente ma impeccabile. Oltre che tra i cortometraggi, l'Europa è celebrata anche con i corti; un segnale, ancora, che vede l'Academy preferire un certo cinema (il tenero e futuristico Her ha 5 nominations inattese) piuttosto che la celebrazione patriottica (niente Oprah per The Butler).
Qui il sito ufficiale dell'Academy e di seguito, dopo l'interruzione, tutti i candidati all'Oscar.

film
American Hustle - L'apparenza Inganna prodotto da Charles Roven, Richard Suckle, Megan Ellison, e Jonathan Gordon
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto prodotto da Scott Rudin, Dana Brunetti e Michael De Luca
Dallas Buyers Club prodotto da Robbie Brenner & Rachel Winter
Gravity prodotto da Alfonso Cuarón & David Heyman
Her prodotto da Megan Ellison, Spike Jonze e Vincent Landay
Nebraska prodotto da Albert Berger & Ron Yerxa
Philomena prodotto da Gabrielle Tana, Steve Coogan e Tracey Seaward
12 Years a Slave prodotto da Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Steve McQueen e Anthony Katagas
The Wolf of Wall Street – produttori da determinare

CAS & VES Awards - nominations.



Sono state annunciate quasi contemporaneamente le nominations per i 50esimi Cinema Audio Society Awards, la cui cerimonia di premiazione si svolgerà il 22 febbraio al Crystal Ballroom dello storico Millenium Biltmore Hotel dove Andy Nelson, re-recording mixer, riceverà il premio alla carriera; e le candidature per i 12esimi VES Awards assegnati ogni anno dalla Visual Effects Society che si terranno sabato 12 febbraio al Beverly Hilton Hotel, dove Alfonso Cuarón riceverà un premio riconoscimento dello straordinario lavoro fatto in tutti i suoi film – e pare scontato che sarà riconosciuto anche lo spettacolare risultato di Gravity. Oltre alla pellicola di fantascienza con Sandra Bullock, reduce dal Golden Globe alla miglior regia, l'unico film che si candida sia al miglior sonoro che ai migliori effetti è il campione d'incassi Iron Man 3; totalmente diverso sul fronte dell'animazione, dove Frozen, Monsters University, Cattivissimo Me e I Croods sono i soliti nomi che compaiono ad ogni cinquina. La spuntano Walter Mitty, Il Grande Gatsby e The Wolf Of Wall Street tra i film non di carattere digitale candidati ai migliori effetti visivi; molto più scontate sono le pellicole pseudo-fantasy Lo Hobbit e Pacific Rim dall'altra sponda. A Proposito Di Davis guadagna la nomination al miglior sonoro grazie alla pulizia con cui passa dal parlato al cantato ed è l'unico non-kolossal del suo gruppo.Qui il sito della CAS e qui quello della VES per consultare anche le nominations televisive alle serie, film per la TV e spot; di seguito invece, dopo l'interruzione, i candidati cinematografici.

lunedì 13 gennaio 2014

Golden Globes 2014 - vincitori/ 2.



Non importa che Greta Gerwig non abbia vinto per Frances Ha contro Amy Adams (che poverella, 4 nominations all'Oscar, 4 al BAFTA ed era la quinta al Globe – meritava di vincerne) né che Jennifer Lawrence l'abbia fatto, per la seconda volta di fila, immeritatamente, contro la super-favorita Lupita N'yongo e la divertentissima June Squibb; è stata la sera in cui, dopo venticinque anni, per la categoria del miglior film straniero è stato detto un titolo italiano: La Grande Bellezza ha battuto i capolavori di Kechiche, Vinterberg, Farhadi e Miyazaki nella più bella cinquina della serata, probabilmente, la più genuina, non sporcata da premi in avanzo né trovate di marketing – motivo per cui Leonardo DiCaprio, giunto all'undicesima candidatura, pretendeva di ricevere un secondo Golden Globe, così come gli U2, autori della canzone originale per il film su Mandela, erano certi che l'eroe nero sarebbe stato ricordato in qualche modo. Non si sa bene in che direzione punti la doppia vittoria di Dallas Buyers Club, con un favorito Jared Leto miglior attore non protagonista e Matthew McConaughey che sgambetta e trattiene l'euforia perché meno speranzoso di farcela (foto). Entrambi, con la Lawrence, hanno battuto il cast di 12 Anni Schiavo, che perde anche il premio alla regia e si accontenta di una sola statuetta, al miglior film drammatico. Alfonso Cuarón è però giustamente celebrato per la maestria dimostrata in Gravity, e a sua volta celebra Sandra Bullock, che lo guarda dal tavolo con cui è a cena. Insomma una serata di premi seminati un po' in giro, senza una pellicola arraffa-tutto né dei film elogiati per determinate categorie, fatta eccezione per American Hustle, miglior film comedy (ma perché, fa ridere?) e migliori interpretazioni femminili. David O. Russel, regista e sceneggiatore, si vede rubare il globo allo script (giustamente) da Spike Jonze, per la prima volta candidato ai dialoghi (nel 2003 fu nominato come regista per Il Ladro Di Orchidee) – ma la sorpresa più grande è sicuramente questo Alex Ebert che, prima esperienza come compositore per un film, All Is Lost, tiene banco sul palchetto raccontandoci di una festa stringendo il premio alla colonna sonora, tolto al veteranissimo John Williams e al favorito Steven Price.
Qui il sito ufficiale con i video della serata; di seguito e dopo l'interruzione tutti i candidati e i vincitori.

miglior film
drama
 12 Anni Schiavo  di Steve McQueen
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto di Paul Greengrass
Gravity di Alfonso Cuarón
Philomena di Stephen Frears
Rush di Ron Howard

miglior film
comedy o musical
 American Hustle  di David O. Russell
Her di Spike Jonze
Inside Llewyn Davis di Joel & Ethan Coen
Nebraska di Alexander Payne
The Wolf Of Wall Street di Martin Scorsese

sabato 11 gennaio 2014

American Cinema Editors Awards - nominations.



Ancora un'altra lista di candidati, questa volta dell'Associazione Americana dei Montatori, ancora una serie di nomi ormai prossimo al red carpet del 2 marzo. La 64esima edizione degli Eddie Awards vede in gara i super favoriti Gravity e 12 Anni Schiavo per la statuetta-nastro al miglior montaggio in un film drammatico; concorre l'agitato Captain Phillips e i flashback dell'infanzia australiana di P.L. Travers di Saving Mr. Banks. Sul fronte delle commedie non c'è Blue Jasmine ma finalmente il teneramente senile Nebraska in bianco e nero, Osage County col suo cast stellare e il vincitore certo American Hustle; potrebbe essere battuto dal dramma musicato A Proposito Di Davis dei Coen. Ormai ridotti a tre i titoli animati che si sono fatti valere quest'anno, Monsters University che ritrova la Pixar un po' sottotono, lo spettacolare Frozen e Cattivissimo Me 2 che ogni tanto si fa sostituire dai Croods; tre titoli d'oltreoceano invece per i documentari, col bel Blackfish che si scontra con l'elogiatissimo 20 Feet From Stardom.
I premi verranno assegnati venerdì 7 febbraio al Beverly Hilton Hotel; per l'elenco completo dei candidati anche televisivi e tutte le altre informazioni, questo è il sito ufficiale. Mentre le nominations cinematografiche sono dopo l'interruzione – e ricordate che il premio al montaggio è importantissimo.

venerdì 10 gennaio 2014

Art Directors Guild Awards - nominations.



Il Sindacato degli Scenografi Americani he appena annunciate le candidature ai 18esimi ADG Awards che vanno dal cinema alla televisione, serie e spot (qui il sito ufficiale con tutti i candidati).
Per il grande schermo troviamo la stessa divisione fatta per i costumi: film ambientati ai giorni nostri, nel passato e scenografie di fantasia. C'è ovviamente Lo Hobbit che è l'unico fantasy senza tendenze fantascientifiche. Se la vede con gli spaziali Gravity e Star Trek e gli apocalittici Elysium e Oblivion. L'eccellenza è sempre nei film di periodo: 12 Anni Schiavo ottiene anche questa candidatura contro l'avvantaggiato Grande Gatsby e il bel sottovalutato A Proposito Di Davis. Sorprendono ancora una volta i film contemporanei. Blue Jasmine intasca un'altra nomination inaspettata mentre le scenografie più elaborate e speranzose sono forse quelle del film di Scorsese e di Her di Spike Jonze (il primo in Italia tra una settimana, il secondo a marzo).
Dopo l'interruzione, tutti i candidati.

lega, nord.



Il Capitale Umano
id., 2013, Italia, 109 minuti
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura non originale: Francesco Bruni,
Francesco Piccolo e Paolo Virzì
Basata sul romanzo Human Capital di Amidon Stephen
Cast: Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino,
Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giovanni Anzaldo,
Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli, Gigio Alberti, Bebo Storti
Voto: 8.5/ 10
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Che si tolga i panni di direttore di un festival o che si metta quelli di agnello sacrificale della stampa italiana, Paolo Virzì resta il più grande fotografo della condizione sociale contemporanea: aveva saputo raccontare, sempre partendo da un romanzo all'epoca semi-sconosciuto, il lavoro precario di una laureata in Filosofia ridotta ad un call-center in stile reality show (e mai film fu più profetico) e poi, sempre partendo da un romanzo semi-sconosciuto, l'amore che arranca per arrivare a fine mese di un letterato e una cantautrice sui trenta. E il lavoro umano, più che il capitale, torna ad essere protagonista dell'ultima pellicola che, costruita a cerchi concentrici, racconta per episodi, focalizzandosi su tre personaggi principali, uno spaccato di Lombardia, la Brianza tanto cara ai leghisti. E proprio sul neo-leader della Lega è modellato (fisicamente, per carità) Fabrizio Bentivoglio, forse il personaggio meglio dipinto e con maggiore profondità interpretato: un padre di famiglia, divorziato e ri-accoppiato (con modesta psicologa Valeria Golino) che perde acquolina dalla bocca nell'accompagnare la figlia in casa (villa) dei Bernaschi, famiglia bene che bazzica tra la periferia e Milano frequentando le maison che portano il nome dei proprietari. Il très d'union tra i due nuclei è la scuola che la figlia di Bentivoglio, Serena (Matilde Gioli; ma dove l'han trovata una ragazza così bella e brava?), e Massimiliano Bernaschi (Guglielmo Pinelli) frequentano, nella quale, a fine anno, si celebra la premiazione dell'alunno che si è distinto nei voti, nello sport e nelle amicizie. Tra un'aspettativa troppo alta e una contestazione della grande competizione a cui sono sottoposti i giovani d'oggi, succede che la serata finisce, i personaggi si disgregano e una macchina, tornando a casa, investe uno del catering che pedalava in strada. Chi la guida questa macchina non si sa, e tra i salti temporali e quelli dei personaggi il film, che parte come racconto economico e dell'arrivismo di certi piccoli borghesi, tutti tennis manicure e qualche riunione, si trasforma in thriller dei sentimenti, facendo completamente perdere per la prima volta la veste di commedia tanto cara al regista toscano. Le pellicole precedenti potrebbero apparire lontane e dimentiche, ma invece l'eco dell'amore che sboccia si risente in una passeggiata insieme al “ragazzo sbagliato” Giovanni Anzaldo. Il suo ruolo nel film, come poi gran parte della trama, non è il caso di raccontarli, e anche provandoci ci si riuscirebbe a fatica: siamo davanti a una costellazione degli equivoci e delle apparenze i cui punti si uniscono coprendosi, fino a quello più in disparte, Luigi Lo Cascio, artistoide sicilianotto, teatrante e scrittore devoto alla propria professione che prende e rilascia una sbandata per Valeria Bruni Tedeschi, figura ormai consolidata della silenziosa, rattristata, carnosa mamma con problemi di comunicazione. Le è sposato Fabrizio Gifuni, che con Bentivoglio modella la parlata su quella locale – che negli uomini si sente molto di più; sono la famiglia ricca, ma non furba. La furbizia spetta all'astro nascente dei poveri, come a voler sottolineare una giustizia divina. Da una parte, una ragazza che si è fatta da sola; dall'altra, un ragazzo che è stato fatto dagli altri. Lui necessita una figura accanto, lei la respinge. Quando la trova, succede il finimondo e, come a voler sottolineare una giustizia divina che non c'è, i ricchi tornano al loro status di recitazione sociale e i poveri si accontentano delle spicciole emozioni, anche in carcere.
Tristissima considerazione finale: siamo persone fino a un certo punto, oltre il quale siamo capitale umano; nonostante gli affetti coltivati e l'autorealizzazione, comunque siamo denaro i cui confini stabilirà meccanicamente qualcun altro. La Lega grida all'insulto ai lavoratori: e queste urla confermano la tristezza.

giovedì 9 gennaio 2014

ASC e CDG awards - nominations.



Esistono i sindacati dei registi, degli sceneggiatori, dei produttori cinematografici, di cui si parla molto, ma esistono anche sindacati e associazioni per i lavoratori del campo tecnico-artistico; sono state annunciate le nominations ai 28esimi American Society of Cinematographers Awards, la società dei direttori della fotografia americani, e ai 16esimi Costume Designers Guild Awards, il sindacato dei costumisti. Mentre nel primo caso si assiste a un solo premio, che sarà dato a uno dei sette fotografi candidati (tutti prevedibili e in profumo di Oscar, tranne Le Sourd per The Grandmaster, presente qui a sorpresa, e Roger Deakins che pensavamo sarebbe stato molto più elogiato per Prisoners), i costumi si dividono nei tre diversi generi: film ambientati ai giorni nostri, film di un passato selezionato e pellicole fantasy. Pochi questi ultimi, con Hunger Games che forse merita più per le scenografie che per gli abiti e Il Grande E Potente Oz che dovrebbe perdere di fronte all'impero visivo de Lo Hobbit; sorprendenti i contemporanei: dall'orrido Walter Mitty all'austero Philomena, con Blue Jasmine che si basa su vestiti firmati avuti in prestito perché troppo più cari del budget complessivo del film. La sfida è tutta nei film storici, ambientati complessivamente dall'inizio alla fine del '900: dagli anni '20 de Il Grande Gatsby, che dovrebbe scintillantemente battere tutti, agli '80 di Dallas Buyers Club, passando per il film dell'anno 12 Anni Schiavo che in effetti potrebbe arruffare anche questo trofeo (è l'unico candidato anche alla fotografia).
Dopo l'interruzione, tutte le nominations.

BAFTA 2014 - nominations.



La Grande Bellezza c'è anche qui, in gara per essere il miglior film straniero secondo la critica inglese dei BAFTA (British Academy of Film and Television Awards) che amano sempre auto-elogiarsi e mettono in lizza per quel premio anche L'atto Di Uccidere, capolavoro UK in cui si parla indonesiano, in corsa anche per il premio al miglior documentario. C'è poi la solita Vita Di Adèle ma sorpresa!, niente SospettoBroken Circle Breakdown: siamo contro la snobbata Bicicletta Verde (attenzione: è la vera sorpresa dell'anno) e Metro Manila, guarda un po', altro film UK recitato però in filippino. Nel grande concorso i soliti nomi: Gravity sventola la bandiera patriottica capeggiando la fila con 11 nominations (tutte meritate tranne quella a Sandra Bullock) con poco dietro un altro film inglesissimo, 12 Years A Slave, che finalmente farà salire sul palco il regista irlandese Steve McQueen e, magari, il compaesano Michael Fassbender tenuti sulle poltrone, l'anno scorso, per Shame. 10 nominations anche per American Hustle e 9 Captain Phillips, che più passa il tempo più cresce d'importanza. Peccato per A Proposito Di Davis e Nebraska, un paio di nominations a testa, le perle sottovalutate di questa stagione, mentre a sorpresa Dietro I Candelabri, appena considerato “film per la tv” dagli Emmy e dai Golden Gobes, qui è in lizza tra i lungometraggi passati in sala, e fa incetta di candidature artistiche (trucco, scenografie, costumi) oltre a quella per Matt Damon non protagonista (ma è più bravo Michael Douglas!).
La cerimonia di premiazione si svolgerà domenica 16 febbraio al Royal Opera House di Londra, presentata ancora una volta dal tremendamente comico Stephen Fry (che dovrebbe parteggiare per il suo Lo Hobbit); qui il sito ufficiale dell'Academy e dopo l'interruzione tutti i candidati.

miglior film
Anthony Katagas, Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner e Steve McQueen per 12 Anni Schiavo
Charles Roven, Richard Suckle, Megan Ellison e Jonathan Gordon per American Hustle - L'apparenza Inganna
Scott Rudin, Dana Brunetti e Michael De Luca per Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Gabrielle Tana, Steve Coogan e Tracey Seaward per Philomena
Alfonso Cuarón & David Heyman per Gravity

miglior film inglese
Justin Chadwick, Anant Singh, David M. Thompson e William Nicholson per Mandela: Long Walk To Freedom
John Lee Hancock, Alison Owen, Ian Collie, Philip Steuer, Kelly Marcel e Sue Smith per Saving Mr. Banks
Stephen Frears, Gabrielle Tana, Steve Coogan, Tracey Seaward e Jeff Pope per Philomena
Clio Barnard & Tracy O’Riordan per The Selfish Giant
Alfonso Cuarón, David Heyman e Jonás Cuarón per Gravity
Ron Howard, Andrew Eaton e Peter Morgan per Rush

mercoledì 8 gennaio 2014

Goya 2014 - nominations.



Sono state annunciate le nominations ai 28esimi Premi Goya del cinema spagnolo, privati per la prima volta completamente del maestro Pedro Almodóvar che con Gli Amanti Passeggeri ha puntato più a rivangare il suo passato che conquistare qualche altra statuetta; compaiono molti volti nuovi e moltissimi film non ancora distribuiti nel nostro Paese, a partire da 15 Años Y Un Día, che ha rappresentato la Spagna agli Oscar senza successi (ha qui 7 candidature), passando per La Gran Familia Española (10 nominations) e Caníbal (8). Arrivata alla decima candidatura, Maribel Verdú (Blancanieves, Il Labirinto Del Fauno) potrebbe ritirare il terzo Goya, mentre per Javier Cámara (Fuori Menù, Parla Con Lei) sarebbe il primo dopo cinque tentativi. Compare la nostra Grande Bellezza, candidata al miglior film europeo contro gli imbattibili Amour di Haneke, Il Sospetto di Vinterberg e La Vita Di Adèle di Kechiche; la sana competizione si fa sentire meno per la regia esordiente di Neus Ballús, per cui facciamo il tifo, con La Plaga in concorso al Festival di Torino. Compare anche Gloria, tra i migliori film sud-americani in lingua spagnola, ma sarà difficile battere La Gabbia Dorata (uscito tra l'altro da noi un paio di mesi fa) e Il Medico Tedesco (da noi ad aprile), fresco di dieci premi dell'Academia Argentina.
La cerimonia di premiazione si svolgerà il 9 febbraio all'Hotel Auditorium di Madrid, presentata da Manuel Fuentes. Qui il sito ufficiale, con tutti i candidati nelle diverse categorie (dai cortometraggi ai documentari al sonoro e trucco), mentre di seguito le nominations per i premi principali.

miglior film spagnolo
15 Años Y Un Día [15 Years And One Day] di Gracia Querejeta
Caníbal [Cannibal] di Manuel Martín Cuenca
La Gran Familia Española [Family United] di Daniel Sánchez Arévalo
La Herida [Wounded] di Fernando Franco
Vivir Es Fácil Con Los Ojos Cerrados di David Trueba

miglior film ibero-americano
Azul Y No Tan Rosa di Miguel Ferrari (Venezuela)
Gloria di Sebastián Lelio (Chile)
Il Medico Tedesco di Lucía Puenzo (Argentina)
La Gabbia Dorata di Diego Quemada-Diez (Guatemala and Mexico)

miglior film europeo
Amour di Michael Haneke (Austria)
Il Sospetto di Thomas Vinterberg (Danimarca)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (Italia)
La Vita Di Adèle di Abdellatif Kechiche (Francia)

Directors Guild Awards - nominations.



Niente nomination per i fratelli Coen (che vinsero nel 2007) ai quali è stato preferito Martin Scorsese (che vinse nel 2006), fino all'ultimo in dubbio per questi 66esimi Directors Guild Of America Awards, i premi del sindacato dei registi americani che solitamente non ne sbaglia una (sbagliò l'anno scorso dando a Ben Affleck un premio che l'Academy non riconfermò). D'altronde è stato un anno di «film incredibilmente ben fatti», ha detto il presidente dell'associazione Paris Barclay; «la passione e il genio di ognuno di questi candidati incanta il pubblico attraverso film completamente diversi uno dall'altro». Compare, infatti, una delle poche volte, un lavoro di fantascienza contestato per i suoi errori ingegneristici ma mirabilmente concepito e ancora meglio realizzato – se si pensa che tutto è ricostruito digitalmente. L'Alfonso Cuarón di Gravity merita, forse giustamente pretende un premio che non gli fu dato per I Figli Degli Uomini, ma se la deve vedere contro l'altrettanto favorito Steve McQueen e il suo biopic antirazziale 12 Anni Schiavo nell'anno della morte di Mandela che renderà colored tutte le cerimonie di premiazione. Terzo nella classifica delle speranze è David O. Russell, col terzo film di fila, dopo The Fighter e Il Lato Positivo, che convince il pubblico e la critica. Molte meno chances sono per le pietre miliari Paul Greengrass e Scorsese.
Le candidature per le serie e i film televisivi saranno annunciate il 9 gennaio mentre i lungometraggi documentari il 13. Qui il sito ufficiale; di seguito i nominati per il cinema di finzione.

miglior regista
di un lungometraggio di finzione
Alfonso Cuarón per Gravity
Paul Greengrass per Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Steve McQueen per 12 Anni Schiavo
David O. Russell per American Hustle - L'apparenza Inganna
Martin Scorsese per The Wolf Of Wall Street

martedì 7 gennaio 2014

Sidney Poitier.



The Butler
Un Maggiordomo Alla Casa Bianca
Lee Daniels' The Butler, 2013, USA, 132 minuti
Regia: Lee Daniels
Sceneggiatura non originale: Danny Strong
Da un articolo di Wil Haygood
Cast: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, John Cusack, Jane Fonda,
David Oyelowo, Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Lenny Kravitz,
Vanessa Redgrave, Robin Williams, Mariah Carey
Voto: 6.7/ 10
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Lo sterminio degli ebrei sta alla cinematografia tedesca (e Polacca) come la condizione dei neri negli anni '70 sta al cinema americano; se poco fa già lo zuccheroso The Help aveva aperto la strada a un tema sempre toccato ma mai reso così “pop”, ci ha poi pensato Tarantino a renderlo “cult” (dopo il film sui nazisti). Ma sia lui che Tate Taylor sono registi bianchi, e un bianco non riuscirà mai a raccontare una cosa che non gli appartiene al sangue. Così, Steve McQueen prende un violinista libero e lo trascina nei campi di cotone per dodici anni a subire le fruste di Michael Fassbender in un film che da noi uscirà a febbraio, mentre Lee Daniels dai campi di cotone comincia, e fa il percorso inverso: con un poco credibile Alex Pettyfer (dis)messi i vestiti da Magic Mike, cattivo stupratore di Mariah Carey e assassino senza morale, il nostro protagonista riuscirà grazie a Vanessa Redgrave (brava ma troppo misericordiosa) a entrare in quella casa e poi in quella del presidente degli Stati Uniti formandosi come negro da sala prima e fine maggiordomo poi. Riuscirà a metter su famiglia, due maschi e una moglie alcolizzata, ma lo stipendio sarà sempre inferiore a quello dei bianchi. Uno dei pargoli, poi, si ribella in adolescenza e protesta per le pari opportunità. Verrà arrestato sedici volte in due anni diventando la mezza vergogna di casa, completando il quadro perdendo l'educazione e mancando al funerale di un parente. Se la boria rivoluzionaria è ben descritta nelle poche scene azzeccate che le vengono concesse, assolutamente distaccate dalla realtà sono le scene familiari che restano. Oprah Winfrey, vero astro di questo film, che per la seconda volta non interpreta se stessa in una pellicola, è moglie innamorata a singhiozzi, che fa scenate di gelosia per le scarpe della first lady in camera, si fa trovare stesa ubriaca di gin in cucina, balla davanti alla TV in salotto; il suo personaggio pare non essere completo, ma ben si affianca (fisicamente) a un sempre bravo Forest Whitaker che fa il più bianco dei neri, devoto a un bianco e accondiscendente alle leggi, cresciuto senza pane ma con educazione e rispetto e arreso agli eventi. Crede che la rivoluzione sia l'Oscar a Sidney Poitier mentre i figli se le fanno dare di santa ragione. E le immagini di repertorio che passano al telegiornale sono anche più addolcite di quel che furono. Daniels, che l'Oscar l'ha sfiorato per Precious mancando il record del primo regista di colore a riceverlo, pare voglia proseguire nel binario della comedy attivista di The Help e sottrae tutto l'infastidibile: assolutamente niente sangue dopo lo sparo della prima sequenza, troppo poco alla morte di Kennedy (e quella coppia presidenziale è la meno riuscita della storia del cinema; l'unica che sfiora la credibilità è forse Jane Fonda come Nancy Reagan). L'obiettivo del vasto pubblico lo rimette sulla riga del patetico e commovente dopo il trucido The Paperboy con cui ci aveva fatto porre non pochi quesiti e il crudo Precious di cui prima. In quest'ultimo, erano tutti neri, ma di una periferia tremendamente dimenticata dal Signore e non solo dai bianchi (c'erano già la Carey e Lenny Kravitz); nell'altro invece c'era Macy Gray cameriera e voce fuori campo che raccontava di quell'America che le leggi se le fa da sola in cui il problema del colore c'è ma non impedisce la vita.
Raccontando poi la storia semi-vera di questo maggiordomo buono buonissimo e per trent'anni al servizio del first man, che non ha fatto altro che chiedere un aumento per sé e i suoi e niente di più, fino all'avvento di Obama e al grido di gioia delle minoranze, la ruffianata è completa, con musica strappalacrime e ultima scena per colpire al cuore. Lo spettatore attento, però, non abbocca: perché sembra che si stia raccontando una storia di cui nessuno ha colpa, né noi né i bianchi americani, troppo andata nel tempo, fintamente dimenticata, a cui s'è posto rimedio, quando tutti gli altri film del genere sanno di dover lasciare l'amaro in bocca perché la guerra non è mai finita. E la colpa forse è di: chi ha scritto la sceneggiatura, Danny Strong, un bianco politicamente colto che ha firmato il televisivo Game Change.