sabato 28 febbraio 2015

felici a tavola.



Noi E La Giulia
id., 2015, Italia, 115 minuti
Regia: Edoardo Leo
Sceneggiatura non originale: Edoardo Leo & Marco Bonini
Basata sul romanzo Giulia 1300 E Altri Miracoli di Fabio Bartolomei (E/O)
Cast: Luca Argentero, Edoardo Leo, Claudio Amendola,
Anna Foglietta, Stefano Fresi, Carlo Buccirosso
Voto: 6.7/ 10
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Un rivenditore di automobili insoddisfatto dalla vita vede il padre morire e la clientela lamentarsi della vernice o della maniglia e per contratto, di fronte a tutto questo, si costerna; un rivenditore di orologi televisivo pieno di debiti si mostra coatto disinibito senza rendersi conto di apparire ridicolo ma, gli serve per mascherar(si) l'assenza di amici e di liquidi; un marito quasi piantato in asso dalla moglie pianta in asso la centenaria osteria a conduzione familiare (di lei) e tristemente assiste ai tentativi più riusciti degli stranieri di fare gastronomia italiana. I tre si ritrovano a visitare un caseggiato nella piena campagna campana, sei camere da letto, una buca per la piscina già pronta, un prezzo che sale di centomila euro ma comunque abbordabile, soprattutto se lo si divide per tre: superando l'iniziale imbarazzo della società fra sconosciuti, i tre, che necessitano tutti di un piano B, sognano l'agriturismo come tutti i quarantenni che hanno smesso di sognare il chiringuito in spiaggia a vent'anni. Si intromette un ferreo nostalgico comunista, pragmatico e dall'impulso facile, un Claudio Amendola sorprendente, che non accettando di piegarsi al sistema del pizzo finirà per chiudere i camorristi che si presenteranno numerosi tutti in cantina; si intromette poi tale Elisa, un po' tocca nel cervello, che viene superficialmente paragonata a Lady Gaga perché ha i capelli lunghi solo a metà (ma è toscana, e incinta), l'Anna Foglietta che, tre figli e sei film sfornati in quattro anni, per una volta non fa la lesbica. Il furbetto Edoardo Leo, già regista di due pellicole dal medio successo ma soprattutto parte del cast del caso 2014 Smetto Quando Voglio, cavalca l'onda di quel suo successo, e di un altro successo, La Mafia Uccide Solo D'estate, e riprende in mano un libro letto quattro anni fa e mette insieme gli insegamenti di Pif con quelli di Sydney Sibilia: ne scaturisce una «commedia agrodolce con sfondo camorrista» che si dice perfettamente consapevole del proprio tempo: i giovani crescono col mito dell'autorealizzazione e del posto fisso e finiscono con l'essere inevitabilmente falliti se non hanno abbastanza fortuna o abbastanza coraggio; a quel punto bisogna avere la possibilità di mettere in atto quel piano B che il sistema potrebbe velocemente abbattere. Al deluso ritratto degli uomini d'oggi aggiunge gli estremi: da una parte un fascista che non accetta di avere un nero come vicino di casa, da una parte un comunista che non accetta sistemi truffaldigni nell'economia nazionale – ma Leo è visibilmente di sinistra, per cui il fascista è giustamente ignorante, mettendo il Ghana in Nigeria e fermandosi all'etichetta di una cosa per giudicarla, e i giovinastri della Camorra sono adolescenti d'oggi a cui basta una cannella, una donnetta e una PlayStation per riempire le proprie vuote giornate. Le battute a sfondo politico, molte, finiscono con l'essere stucchevoli andando avanti col tempo: perché se il film parte molto bene, lentamente si annacqua, e sfocia in un finale che chiaramente la sceneggiatura non è in grado di gestire (e infatti non lo fa: s'interrompe quando bisogna decidere). Dal momento dell'apertura del restaurato agriturismo la narrazione va a singhiozzi e la conta dei giorni si perde, si sovrappone, perché non è più importante seguire un filo logico – che risulta poi necessario. La vera sorpresa di questa confezione è il cast azzeccatissimo, davanti al quale Luca Argentero figura come protagonista data l'inutile voce fuori campo un po' figlia delle commedie di questo tipo, ma a cui Stefano Fresi ruba spesso la scena: ipocondriaco, ansiogeno, è il personaggio più caratterizzato e più approfondito nella sua ripetitività, nel suo continuo timore. Dichiarata «commedia italiana dell'anno» prima ancora che uscisse, se non altro perché molto renziana nel mettere d'accordo schieramenti politici anche opposti, ha tutti gli strumenti per farsi confermare tale.

venerdì 27 febbraio 2015

il basilico e la gru.



Maraviglioso Boccaccio
id., 2015, Italia, 120 minuti
Regia: Paolo & Vittorio Taviani
Sceneggiatura non originale: Paolo & Vittorio Taviani
Liberamente basata sul Decameron di Giovanni Boccaccio (BUR)
Cast: Lello Arena, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini,
Flavio Parenti, Vittoria Puccini, Michele Riodino,
Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak,
Jasmine Trinca, Josafat Vagni, Eugenia Costantini,
Miriam Dalmazio, Fabrizio Falco, Melissa Anna Bartolini,
Camilla Diana, Nicolò Diana, Beatrice Fedi, Ilaria Giachi,
Barbara Giordano, Rosabel Laurenti Sellers, Niccolò Calvagna
Voto: 6.9/ 10
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Uomini, donne e maiali sono colpiti dalla peste nella desolante Firenze del 1348: c'è chi inala l'odore dei fiori per prevenire il contagio e chi, straziato dalla perdita dei cari, bacia le salme o ci si fa sotterrare insieme. Dieci ragazzi, tre maschi e sette femmine, di cui tre ree (ah ah!), con difficoltosa convinzione si isolano in una villa di proprietà non ben definita, fuori porta, per scampare alla malattia, per quindici giorni; si daranno ferree regole quali la castità (ma quali altre?) e si delizieranno a turno raccontando novelle. Le quali, sappiamo, sono cento – dieci al giorno per dieci giorni con un tema che le raggruppi quotidianamente, con un leader al giorno e ogni volta dieci voci; ma non avendo quaranta ore di pellicola a disposizione, i fratelli Taviani ne selezionano cinque e selezionano cinque dei loro giovani a novellar tra un desinare e l'altro. Affida a quasi tutti gli attori italiani viventi i ruoli di queste storie nella storia: Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio sono una malata sposata e un innamorato che la strappa alla morte; Kasia Smutniak una nobile, figlia di Lello Arena, vedova e infatuata di Michele Riodinio, fabbro di famiglia, per la cui morte si toglierà la vita; Paola Cortellesi badessa di un convento dove Carolina Crescentini e molte altre hanno preso i voti senza troppa devozione ma per spinta familiare; Josafat Vagni, il falconiere Federigo degli Alberighi, notoriamente perso di Jasmine Trinca è disposto a qualsiasi cosa per accontentarla, anche a diventar povero; ma è Kim Rossi Stuard, Chichibìo senza gru, che trae vantaggio da tutta questa farsa, impersonificando il matto del paese con tale spontaneità, con tale espressività di viso da farsi ricordare fino in fondo, nonostante sia uno dei primi ad apparire. Parallelamente ai più o meno intonati attori, a noi tutti noti quasi quanto gli episodi che interpretano, scorrono i momenti sociali di questi quindici giorni insieme per questi dieci ragazzi e ragazze che invece non conosciamo, rinchiusi in una villa: il bagno al lago, il pane da impastare, i difficili primi sonni. E scorrono completamente staccati dal resto, istrionici, esasperati: vengono gestiti come interpreti teatrali dalle eccessive movenze sul palco, dai balletti eseguiti per non accavallarsi o coprirsi. Qualcuno più, qualcuno meno, sono tutti sbagliati, e ne hanno colpa fino a un certo punto, com'è sbagliato il loro comparire e sparire a comando, seguendo una ordinata e poco coraggiosa scaletta. Se tre di tutti i loro personaggi arrivano all'improvviso inserendosi anche nella primaria narrazione, i Taviani avrebbero dovuto optare per una costruzione ancora più audace, che mescolasse i due mazzi di carte. Dopo l'Orso d'Oro berlinese per il capolavoro della nostra cinematografia Cesare Deve Morire non era facile tornare dietro la macchina da presa ed era quasi impossibile confermare quel successo (un Oscar per noi mancato); dal Giulio Cesare di Shakespeare affrontato in estremo sperimentalismo (attori trovati in un carcere, set che è il carcere stesso, versi declamati dentro alla prosa, bianco e nero e colori insieme) passano al Decameron di Boccaccio adagiandosi su una messa in scena tradizionale, addirittura a episodi e con attori di scuola teatrale. Fanno un passo indietro credendo di farne uno in avanti: raccontare dolori e gioie che attanagliano i giovani contemporanei ripescando manzonianamente dal nostro passato. Ci riescono artisticamente: i costumi (di Lina Nerli Taviani) sono, come le scenogafie, azzeccati nella loro essenzialità, totalmente privi di sfarzi, per un'ambientazione fatta quasi più di immaginazione, e le musiche (di Giuliano Taviani), sempre catastrofiche, apocalittiche, si susseguono nel loro preannunciare il peggio (La Masseria Delle Allodole era apice di questo aspetto) per poi inciampare nel penultimo Manon Lescaut. Un film che, volente o nolente, ci rappresenta su più aspetti.

fuori dall'acqua/ 2.


giovedì 26 febbraio 2015

sono contento di sentire che state tutti bene.



Un Piccione Seduto Su Un Ramo
Riflette Sull'esistenza
En duva satt på en gren och funderade på tillvaron,
2014, Svezia/ Germania/ Norvegia/ Francia, 101 minuti
Regia: Roy Andersson
Sceneggiatura originale: Roy Andersson
Cast: Holger Andersson, Nils Westblom, Viktor Gyllenberg,
Lotti Tõrnros, Jonas Gerholm, Ola Stensson, Oscar Salomonsson
Voto: 8.7/ 10
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Una classe di tango, in cui la giunonica insegnante è perdutamente innamorata del danseur principal. I clienti di un bar, che all'occorrenza si mettono a cantare e pagano i bicchierini in baci. Quelli di un altro bar, che vendono i battaglioni reali fare irruzione nel locale con spade e cavalli perché il re è assetato. Un barbiere. Un venditore di formaggi. Una madre amorevole. Una coppia di rappresentanti di articoli per mascherate e feste (i denti da vampiro coi canini lunghissimi, il palloncino riproduci-risata, la protesi facciale da zio Fester), visibilmente depressi, rallentati nei movimenti e nei modi, che gira per negozi e taverne a racimolare il denaro di cui credita. Queste sono alcune delle 39 inquadrature di cui questo film è composto, non-pianisequenza, immagini ferme su interni (per lo più) freddi, congelati, con interpreti fissi sul loro posto, con addosso qualche anonimo giacchino beige, una gonna grigia, un pantalone marrò, davanti a pareti asettiche completamente spoglie, tinte unite, pavimenti a tinta unita, sono 39 quadri del nord, e non a caso il regista viene dalla Svezia. Gli si paragona l'umorismo scandinavo trattenuto di Aki Kaurismaki, ma se è da questo quadro che attinge per il titolo (il quadro si chiama Cacciatori Nella Neve, e i piccioni seduti su un ramo sono in secondo piano, a riflettere sull'inutilità del massacro umano, che poi ritroviamo con le due scenette di Carlo XII), è sicuramente dal teatro del nonsense che parte per dipingere gli affanni, le abitudini, le assurdità e i momenti di nulla del nostro quotidiano – c'è Beckett, e c'è l'attesa costante che succeda qualcosa, che non succede mai. Roy Andersson esordì col furore della nouvelle vague del Nord Europa nel '70 e fu subito premiato a Berlino; dopo un insuccesso non ha più messo mano alla macchina da presa per venticinque anni. È servito Canzoni Del Secondo Piano, presentato a Cannes, a farlo tornare operativo, ed è servita la trilogia sull'essere un essere umano di cui Un Piccione è la parte conclusiva (non a caso si apre con tre incontri con la morte e si conclude con un homo sapiens) (71esimo Leone d'Oro non privato di qualche controversia); ma ha in più dei suoi film precedenti, questo, l'uso del digitale – a volte evidente – che permette l'inserimento di materiali ancora più allucina(n)ti per appesantire ancora di più il gioco dello scherzo. Si tratta di una scimmietta legata a un apparecchio elettrico, mentre dietro il medico dice al telefono, per la dodicesima volta, le stesse parole che al telefono dicono tutti; si tratta di uno strano marchingegno cilindrico a trombe in cui, schiavi neri più fuoco sotto, attivano il movimento che dona gioia a un gruppo di anziani arricchiti. Lontane tra di loro, ma accomunate spesso dalla ricorrenza di personaggi che dopo il primo passano al secondo piano, le scene congelate scatenano il riso del disagio, facendo poi riflettere sulla necessità che abbiamo di divertirci e di portare il divertimento in case altrui. I tempi diluiti e la ripetitività non bastano ai venditori ambulanti per essere essi stessi contenti in primis. Si devono scontrare con le tristezze di certi giorni, col demone del denaro, con la bizzarra condizione casalinga e soprattutto con l'improvviso e inaspettato arrivo del mercoledì.

mercoledì 25 febbraio 2015

pizza.



Vizio Di Forma
Inherent Vice, 2014, USA, 148 minuti
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura non originale: Paul Thomas Anderson
Basata sul romanzo Vizio Di Forma di Thomas Pynchon (Einaudi)
Cast: Joanna Newsom, Katherine Waterson, Joaquin Phoenix,
Jordan Christian Hearn, Taylor Bonin, Jeannie Berlin, Josh Brolin,
Eric Roberts, Serena Scott Thomas, Maya Rudolph, Martin Dew,
Michael Kenneth Williams, Hong Chau, Shannon Collis,
Christopher Allen Nelson, Benicio Del Toro, Jena Malone,
Owen Wilson, Reese Witherspoon, Martin Short
Voto: 7.7/ 10
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Se adesso celebriamo Wes Anderson, pop e hypster, e parte della cricca degli eredi Coppola, fra venti, trent'anni parleremo di Paul Thomas Anderson come adesso parliamo di quei registi liquidati in vita e rivalutati in morte; non che Anderson non sia abbastanza celebrato, ma forse gli è dato meno spazio di quello che meriterebbe. Anche questa volta viene snobbato dall'Academy, che lo candida ancora per la sceneggiatura senza farlo vincere, preferendogli un non-gay più giovane e dal coraggio pari a zero, nella categoria dei copioni “non originali” perché, per la prima volta, Anderson si rifà a un romanzo e, per la prima volta, qualcuno si rifà a un romanzo del neo-Salinger Thomas Pynchon – autore cardine della letteratura post-moderna americana che nessuno ha mai visto in volto, che si dice appaia nella pellicola senza essere riconosciuto, che è famoso per la scrittura vaporosa e complicatissima a cui nessuno aveva mai messo mano. Solo Anderson poteva affrontare il demone: ossessionato dal libro Vizio Di Forma (che si discosta dagli altri, L'arcobaleno Della Gravità in primis), ha passato mesi a scrivere e trascrivere ogni singolo dialogo, restandogli il più fedele possibile, abbandonando il «caos organizzato» di cui parlano i suoi attori – una battuta iniziale e una finale e la possibilità di improvvisare nel mezzo: tutto doveva essere pianificato per non discostarsi dal romanzo, complicatissimo, labirinto di personaggi e incontri e scomparse e apparizioni e gang e donnine e poliziotti e vascelli e dentisti e droghe che non si capisce mai se causino allucinazioni oppure no. Per necessità aggiunge una voce fuori campo, della cantante folk Joanna Newsom, «femminile» dice «perché dopo The Master non ne potevo più di soli uomini». Quello era ambientato negli anni Cinquanta, Il Petroliere andava indietro verso l'Ottocento, Boogie Nights spiegava l'industria del porno negli abbondanti Settanta, «non ho il distacco di raccontare quello che leggo sui giornali oggi; preferisco andare a scavare nel passato di questa nazione»; e così attinge ai ricordi dei genitori, che alla fine degli anni '60 e dell'era degli hippies erano consapevoli di loro stessi e della «gran musica» che si faceva (musica che viene ancora una volta data in mano a Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già arrivato al Kodak Theatre per Il Petroliere, che attinge al repertorio di Neil Young e dei Marketts e dei CAN riempendo gli spazi con brani originali potentissimi, come aveva già fatto in The Master), dato che lui alla fine degli anni '60 non c'era: fonti di ispirazione, i fumetti dei Freak Brothers e il duo comico demenzial-hippie Cheech & Chong. Ne deriva un film annebbiato in tutti i sensi, dalla fotografia fumosa e dal ritmo tanto incalzante quanto sedentario per due ore e venti minuti in cui mancano comunque parti della storia originaria. Joaquin Phoenix torna ad essere protagonista (togliendo il ruolo al troppo-anziano Robert Downey Jr) dal physique-du-rôle impeccabile, basette prorompenti e capelli indomabili in cui si cerca addirittura di innestare bigodini, allergia alle scarpe e alle giacche con cravatta e momenti impercettibili tra uno spinello e l'altro per cui i ricordi o sono manomessi o sono dispersi. Ci pensa un taccuino su cui segnare a matita parole chiave per procedere nel lavoro di investigatore privato di certa fama, tra l'altro, con tanto di segretaria Maya Rudolph e amico in caserma Josh Brolin. Il caso a cui assistiamo riguarda l'ex fidanzata Katherine Waterson preoccupata pel suo amante palazzinaro e miliardario e dalla di-lui moglie con altro amante che vorrebbero chiuderlo in una sorta di manicomio karmiko in cui parrebbe finito anche il presunto morto Owen Wilson marito dell'ex tossica Jena Malone rifattasi i denti (e le pere) grazie a una sorta di barca dal nome Gold Fang che è anche un'associazione cinese di smercio e rehab di droghe negli USA a capo della quale pare esserci un Martin Short proto-pedofilo ma amante dei musical classici di Broadway. Una trama irraccontabile e impossibile da seguire appieno, con fondo comedy ancora più potente del fondo noir – perché le commedie “normali” Anderson non è in grado di girarle, basti pensare a Ubriaco D'amore, solo che il tecnicismo registico che c'era lì qui manca, dato l'ampio ventaglio di personaggi da seguire come succedeva nel capolavoro Boogie Nights; di questo film, manca il glamour e il patinatismo (e il pattinatismo) perché tra gengive marce e piedi luridi e costumi (candidati all'Oscar) consunti si vive la paranoia post-peace&love, non la si ricrea. Se ne sta fuori dal giro Reese Witherspoon, pulita e benvestita, che reincontra Phoenix dopo avergli inspiegabilmente rubato la scena in Walk The Line, cedendo al fascino del pelo e dello spinello. I critici che amano fare i paragoni citano Il Grande Lebowski, Paura E Delirio A Las Vegas, Il Grande Sonno, Il Lungo Addio; di questi film c'è effettivamente l'assenza di trama, ma c'è anche un modo di gestirla annacquatamente che è solo – e sarà sempre – di Anderson.

lunedì 23 febbraio 2015

#VanityOscar.



Senza badare a spese né sprechi, Vanity Fair Italia ha fatto ciò che ogni cinefilo (under 30 diciamo, e la discriminazione è puramente narcolettico-lavorativa) sognerebbe: una diretta dal Kodak Theatre di Los Angeles mediata da quelli-di-Sky Cinema per la cerimonia di premiazione ultima e più importante dell'inverno: gli Academy Awards a.k.a. premi Oscar. Addio quindi ricerche spasmodiche di amici muniti di decoder pay, di connesioni a fibra ottica per streaming salterini, posticipati, non-sync, chiusi all'improvviso, ridoppiati in portoghese, a qualità bassa, con commenti invadenti di lato, con commenti pubblicitari intorno. Per l'edizione 87 della premiazione Vanity non si limita a portare lo show al cinema: ma costruisce intorno a questo un cineforum, diremmo, una marathon, hanno detto loro, in cui proiezione dopo proiezione si poteva assistere – gratuitamente – agli otto film candidati alla maggiore statuetta, in versione originale e con sottotitoli in italiano, al cinema Odeon di Milano da cui si vedrebbe il Duomo se non ci fosse il soffitto. Ultimo nell'elenco, guarda un po', è stato Birdman O (L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza) – proiettato profeticamente ieri sera intorno alle 22:00 tra le gioie generali. Ma prima del film, piccolo e composto siparietto orchestrato da un sorprendente Luca Dini, direttore della testata, che forse ispirato dal recente Ariston ha saputo magistralmente ospitare sul palco ospiti di livello sempre crescente: da Valentina Lodovini, che ha ripassato le nomine più importanti lasciandosi scappare i favoritismi, a cinque dei doppiatori delle pellicole più di cassetta (Valentina Favazza e Davide Perino per La Teoria Del Tutto, Christian Iansante per American Sniper, Myriam Catania e il-fu-Riccardo Niseem Onorato per The Imitation Game), tutti protagonisti di un bizzarro e interessante servizio fotografico a opera di Reed Young che ha ri-vestito i panni dei personaggi addosso alle voci e non agli interpreti; poi: Gabriele Salvatores, senza accennare mai al suo Ragazzo Invisibile né al precedente Italy In A Day, ha ricordato l'annuncio della sua candidatura al miglior film straniero per Mediterraneo, negli anni '90 del non-Web, e alla successiva vittoria, durante la quale ha invitato a evitare le guerre ed è stato invitato a evitare discorsi politici. Tappa d'obbligo sui look delle star con chi il red carpet l'ha vissuto (o l'ha fatto) sotto il nome di Max Mara e poi saluti dalla sempre più fortunata Paola Jacobbi in differita da L.A. pronta al Vanity Party e prima ancora al tappeto rosso. Dalle 18:00 di ieri alle 7:00 di questa mattina, come in Non Si Uccidono Così Anche I Cavalli, si giocava a chi restava per più tempo in piedi: siamo arrivati in una ventina a colazione, e tutti abbastanza giovani. Nonostante l'impossibilità che ci sentissero, battevamo le mani come se fossimo lì, sotto Neil Patrick Harris la cui pungenza è stata colta così poco da far sorgere dubbi sulla platea e non sulla conduzione. Orgoglio patriottico per Milena Canonero prima e per Virna Lisi poi mentre gli allievi di Gianni Canova presenti, intanto lui in diretta dagli studi di Sky che commentava à salotto le numerose intermittenze pubblicitarie, si disperavano per i pochi premi a Interstellar e American Sniper (di cui io gioivo) e l'assenza di Francesco Rosi nel memoriam. Quando si dice che le cose belle arrivano alla fine: corsi via i mondani giunti a ritirare il plaid griffato (vedi foto) o lo champagne Pommery, alle quattro del mattino chi esultava per il primo Oscar polacco della storia lo faceva con sincerità, e senza il visone addosso.

domenica 22 febbraio 2015

Oscar 2015 - vincitori.



Sono patriottico fino alle lacrime ma non m'importa: apro l'articolo con la nostra(na) Milena Canonero (nella foto), che porta avanti la tradizione di Piero Gherardi, ma anche di Dante Ferretti, ritirando la quarta statuetta della sua ormai decennale carriera per Grand Budapest Hotel (è stata la costumista di Kubrick ma anche della Coppola), agli 87esimi Academy Awards dove la pellicola indie-hypster di Wes Anderson ha raccattato i quattro premi che si erano pronosticati – scenografia, la colonna sonora del due-volte-candidato Alexandre Desplat, trucco e, appunto, costumi – pareggiando con l'invece imprevedibile (virtuoso) Birdman; Alejandro González Iñárritu, nominato nel miglior film straniero col capolavoro Amores Perros e poi con Biutiful e regista anche degli americani 21 Grammi e Babel, in lizza per tre categorie questa sera fa en plein (miglior film, regia e sceneggiatura originale) e fa fare doppietta al chico Emmanuel Lubezki (già Oscar l'anno scorso per Gravity), e poi si lamenta della condizione degli immigrati negli USA. Sono anni ormai che, apparte Argo, non vince la statuetta per il miglior film (ma nemmeno la regia) un americano – si sono susseguiti l'inglese Tom Hooper, il francese Michel Hazanavicious, il coreano Ang Lee e, appunto, Alfonso Cuarón. Sono stati discorsi molto politici, quelli dei vincitori: l'accettazione della propria diversità dall'omosessuale giovanissimo Graham Moore, immeritatamente miglior sceneggiatore per The Imitation Game, che ricalca lo stesso figuro che fu di Milk, che ha accennato al proprio tentato suicidio a sedici anni, ma soprattutto Patricia Arquette, capace di far saltare dalla sedia Lady Oscar Meryl Streep lamentandosi dell'ineguaglianza degli stipendi delle donne, sempre inferiori rispetto a quelli degli uomini. Lei e gli altri tre attori non nascondono sorprese – l'unica sorpresa è che Boyhood torna a casa con una statua. La malattia premia sempre e Julianne Moore reincontra Eddie Redmayne dopo il di-lui esordio in Savage Grace, dove lei interpretava la sua incestuosa madre, e ci offrono due ringraziamenti opposti: di donna matura, accasata, devota al proprio marito la prima; di giovane adulto, ancora bambino, incontenibilmente entusiasta il secondo. Entrambi salutano coloro che affrontano la malattia. Quarta certezza di quattro, J.K. Simmons è solo il primo premio che arriva a casa Whiplash: dopo il premio al mixaggio sonoro e con quello al montaggio abbiamo capito che il 12-years-a-movie di Richard Linklater non avrebbe incassato più niente – perché i Sindacati hanno sempre ragione. Fa una discutibile doppietta la Disney, col suo secondo Oscar di fila per il film animato, dopo Fronzen, cioè Big Hero 6, e col suo corto d'apertura Feist, mentre non fa doppietta Guardiani Della Galassia con le sue due candidature – una delle quali, gli effetti speciali, ancora una volta non va al Pianeta Delle Scimmie ma a Interstellar, premio contentino. È stata un'edizione musicale e musicata come al solito grazie anche a Edwig il presentatore, Neil Patrick Harris, che ha aperto lo show in maniera egregia (insieme ad Anna Kendrick, in Into The Woods, e Jack Black) e si è poi concesso qualche frecciatina (a Oprah su tutte, «because you're rich»). Oltre alle cinque canzoni candidate, tutte performate (due standig ovations per John Legend & Common), Jennifer Hudson ha cantato il tributo ai cineasti scomparsi, in cui mancava Francesco Rosi ma faceva capolino Virna Lisi, e Lady Gaga ha tributato Julie Andrews e Tutti Insieme Appassionatamente che cinquant'anni fa vinceva cinque Oscar. Sul sito ufficiale tutti i dettagli mentre di seguito, dopo il salto, ogni candidato e ogni vincitore.

film
American Sniper prodotto da Clint Eastwood, Robert Lorenz, Andrew Lazar, Bradley Cooper e Peter Morgan
Birdman o (Le Imprevedibili Virtù Dell'ignoranza) prodotto da Alejandro G. Iñárritu,
John Lesher e James W. Skotchdopole
Boyhood prodotto da Richard Linklater e Cathleen Sutherland
Grand Budapest Hotel prodotto da Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales e Jeremy Dawson
The Imitation Game prodotto da Nora Grossman, Ido Ostrowsky e Teddy Schwarzman
Selma prodotto da Christian Colson, Oprah Winfrey, Dede Gardner e Jeremy Kleiner
La Teoria Del Tutto prodotto da Tim Bevan, Eric Fellner, Lisa Bruce e Anthony McCarten
Whiplash prodotto da Jason Blum, Helen Estabrook e David Lancaster

sabato 21 febbraio 2015

Oscar 2015 - i film.



Le mie previsioni per gli Oscar, quest'anno, hanno visto la luce su un altro sito (QUESTO) – e io ho anche dimenticato di dichiarare il trasferimento di indirizzo; lo faccio adesso, ad articoli tutti usciti, il giorno prima della cerimonia finale della stagione di premi cinematografici, la notte degli Independent Spirits e dei Razzie, e lo faccio allegando una cosa che mi è sempre piaciuta: l'elenco di tutti i film candidati, dai documentari ai front-runner Grand Budapest Hotel e Birdman. Proprio quest'ultimo è il film dei dubbi: se Wes Anderson ha dalla sua scene, costumi, sicuramente la colonna sonora e il trucco, Alejandro G. Iñárritu potrebbe non vincere come sceneggiatore quando il suo fotografo Emmanuel Lubezki dovrebbe ritirare l'unica statuetta sicura. Ma può il film che ha preso il PGA, il DGA e l'Actor, vincere un solo Oscar, alla fotografia? Seconda possibilità sarebbe il mixaggio sonoro – ma io azzardo: se non vince la sceneggiatura, sorpresa delle sorprese, vince il film, mentre a Boyhood andranno la solita regia, l'attrice non protagonista e il montaggio. Azzardo ancora: la scatola di latta di Anderson non vince il trucco che se lo becca Guardiani Della Galassia, insieme agli effetti speciali. È stato troppo celebrato dalla critica e ha incassato troppo al botteghino: o li vince entrambi o non ne vince nessuno. Altri dubbi sugli effetti speciali, come ogni anno, si parte dicendo «ah no sicuro Le Scimmie» e ogni volta – e siamo al settimo film – le scimmie non vincono. Fa capolino Interstellar che, stroncato dalla critica, potrebbe effettivamente accaparrarsi questa categoria. Ricordiamo in silenzio Zero Dark Thirty, il miglior film degli ultimi dieci anni, che prese un solo Oscar, parimerito con Skyfall, al sonoro, che ci insegna che la meritocrazia non esiste e che tutto può succedere. L'altra coppietta che sgomita è nel film straniero: Ida da una parte e Leviathan dall'altra, premi da tutta Europa per il primo, critica e Golden Globe per il secondo. Seguono le coppie sgomitanti Eddie Redmayne/ Michael Keaton (attori), Alexandre Desplat/ Jóhann Jóhannsonn (compositori), Graham Moore/ Damien Chazelle (sceneggiatori). L'unica preghiera è proprio questa: che The Imitation Game rimanga senza niente, visto che per Song Of The Sea e Marion Cotillard è inutile tifare. E i film candidati agli 87esimi Academy Awards, con rispettive recensioni, sono:

la donna nella luna.



Il Segreto Del Suo Volto
Phoenix, 2014, Germania, 98 minuti
Regia: Christian Petzold
Sceneggiatura non originale: Christian Petzold & Harun Farocki
Basata sul romanzo Le Retour Des Cendres di Hubert Monteilhet
Cast: Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf,
Michael Maertens, Imogen Kogge, Kristen Block, Uwe Preuss,
Eva Bay, Jeff Burrell, Sofia Exss, Megan Gay
Voto: 8.7/ 10
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Miracolosamente sopravvissuta al campo di concentramento, la tedesca ed ebrea non convinta Nelly Lentz viene trasportata dalla sua amica Lene in automobile, verso Berlino; siamo nel 1945. Le condizioni di Nelly sono decenti, ma la faccia è completamente ricoperta di bende a causa delle ustioni causate dalle esplosioni delle bombe che hanno distrutto, tra le altre cose, la casa in cui viveva col marito Johnny, che sogna di rincontrare. Chiede di lui ai barboni musicanti per strada, alla devota compagna, ma non ottiene quasi nessuna notizia, solo un suggerimento: se è un musicista, e se ha avuto fortuna, potrebbe essere pianista in qualche night; se ha avuto sfortuna sarà dietro l'angolo a suonare la fisarmonica. Lene si rivela ancora più dura: non si lascia scappare nessun tipo di dettaglio. Intanto vivono entrambe in una grande casa con proprietaria, si concedono cibo e passeggiate in attesa che le condizioni di salute migliorino e Nelly possa riscuotere l'alta eredità che la morte di tutta la famiglia le farà avere, in modo da creare in Palestina un luogo dove gli ebrei potranno vivere in pace. E in attesa che le condizioni di salute migliorino i chirurghi domandano a chi vorrebbe assomigliare, adesso che ha la possibilità di scegliersi un volto nuovo – ma Nelly si dimostra intransigente: vuole tornare se stessa, come si ritrova nelle vecchie fotografie di gruppo piene di ormai defunti. Bazzicando locali notturni si imbatte in quello che dovrebbe essere il suo Johnny, ma a chiamata non risponde. Stessa cosa succederà a lui, vedendola senza riconoscerla. Inizierà allora un gioco a fingere di non essere se stessa per ritrovare il compagno non dove lo si aveva lasciato ma prima ancora, riconoscerlo di nuovo, farlo innamorare di nuovo. Ma Johnny sembra accecato dal denaro che presto riceveranno tanto da non cogliere le sfumature nelle somiglianze delle due donne, che in realtà sono una. Due anni dopo l'osannato La Scelta Di Barbara, Orso d'Argento a Berlino e rappresentate della Germania agli Oscar 2013, Nina Hoss re-incarna un ruolo da protagonista assoluta rendendolo suo fino al midollo, magistrale, di donna combattuta e combattente, fedele al proprio uomo e alla propria patria nonostante tutto, circondata da una situazione non facile, quella tedesca, colpevole e colpita. Comincia tentennando per i dolori della tortura e finisce col cantare, liberata di tutti i pesi che si è trascinata fino alla fine; comincia mascherata, coperta di bende, sopra ai toni latentemente horror (e latentemente lesbo) che riportano alla mente gli Occhi Senza Volto di Georges Franju e poi la doppia personalità in un unico corpo chirurgicamente modificato de La Pelle Che Abito. Ma appena si parla di thriller senza sangue, quel triller che fa solo rabbrividire la schiena (s)tirandoci fino alla fine, si parla subito di Hitchcock e, in questo caso, de La Donna Che Visse Due Volte. Ma Christian Petzold, due anni dopo La Scelta Di Barbara, è interessato ancora a raccontare le diatribe interne della sua Germania, le fazioni, i contrasti, i paradossi. In quel film, la cui protagonista sfiorava il mutismo e di cui dovevamo cogliere qualsiasi suggerimento, c'era la gente dell'Est e la gente dell'Ovest e l'impossibilità a vivere da una sola delle due parti; in questo film, la cui protagonista non esita a raccontarsi, c'è la Germania degli ebrei e quella dei tedeschi, la popolazione perita e quella salvatasi che adesso non può fare niente se non riaccogliere nel proprio giardino i sopravvissuti sentendosi in colpa, ma non troppo. Le riprese abbandonate a loro stesse, ferme, che tornano sempre nello stesso luogo, qui sono portate all'eccesso; i toni s'incupiscono e il silenzio si rompe: c'è la musica: quella dei club e delle soubrette da una parte e quella del classico jazz dall'altra con cui si conclude, magistralmente, sorprendentemente, tutta la storia.

giovedì 19 febbraio 2015

premi dei sindacati - vincitori/ 3.



Emmanuel Lubezki continua ad odorare di Oscar per il suo egregio lavoro in Birdman O (L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza); il cinquantenne messicano direttore della fotografia di Terrence Malick e Alfonso Cuarón si avvicina sempre di più alla seconda statuetta consecutiva (l'anno scorso vinse per Gravity) dopo le cinque nominations accumulate dal '96 al 2012 (inclusa quella, ignorata, per The Tree Of Life). L'American Society of Cinematographer lo onora quindi del premio alla migliore fotografia cinematografica del 2014, sotto votazione del sindacato. Ma la pellicola di Alejandro G. Iñárritu fa incetta, oltre che in generale, anche in altre due categorie. La prima è il sonoro, la cui associazione dei Motion Picture Sound Editors decreta che il suo è il miglior montaggio musicale. Nello stesso ambito vincono poi i dialoghi di Unbroken e gli effetti di American Sniper – vero favorito per la categoria agli Academy Awards di domenica; il biopic Get On Up ottiene il miglior montaggio sonoro per un musical, e fin qui niente sorprese, e Big Hero 6 arraffa un altro premio che toglie ai Lego e a Dragon Trainer. Assegnati anche i 17esimi Costume Design Guild Awards: vince ancora l'italiana Milena Canonero per Grand Budapest Hotel, tre volte premio Oscar e probabilmente prossima al quarto; vince ancora Colleen Atwood per il musical Disney Into The Woods, anch'ella tre premi Oscar ma meno favorita dall'Academy e a sorpresa Albert Wolsky, che di Oscar ne ha due e non è candidato quest'anno, per il Birdman di cui prime e che, come dicevo, ha la meglio anche in questa seconda categoria. Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i candidati.

mercoledì 18 febbraio 2015

Tess dei d'Ubervilles.



Cinquanta
Sfumature Di Grigio

Fifty Shades Of Grey, 2015, USA/ Canada, 125 minuti
Regia: Sam Taylor-Johnson
Sceneggiatura non originale: Kelly Marcel
Basata sul romanzo omonimo di E.L. James (Mondadori)
Cast: Dakota Johnson, Jamie Dornan, Jennifer Ehle, Eloise Mumford,
Marcia Gay Harden, Rita Ora, Max Martini, Callum Keith Rennie,
Andrew Airlie, Dylan Neal, Emily Fonda, Elliat Albrecht
Voto: 5.4/ 10
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Quanto segue è frutto della visione del film privata di due componenti forse invadenti: la prima, la lettura del libro (100 milioni di copie vendute nel mondo, tradotto in 51 lingue, tra i più venduti di sempre insieme a Harry Potter, Il Piccolo Principe e La Bibbia) da cui è tratto, primo capitolo di una serie di tre, ma lo sappiamo tutti – pare sia aumentato il record (de Il Codice Da Vinci) di 3 milioni versati per i diritti dalla Universal con Focus Features alla vittoria di una serratissima asta a cui hanno partecipato Warner Bros., Sony e Paramount; la seconda componente che a chi scrive manca è il desiderio fortissimo di vedere al cinema (ma anche a teatro), in sala comunque, sul maxischermo, gigantografie di dettagli anatomici maschili quanto femminili o atti non-procreativi ma di quella stessa fattura, perché per vedere del sesso abbiamo infiniti strumenti, oggigiorno, anche per vedere del sesso più o meno esplicito mascherato con svariate trame e svariati assoli di sax (i softcore di Playboy su tutti), il sesso al cinema – prima regola di un film – deve essere giustificato, la scena di nudo soprattutto, altrimenti si scivola subito nel gratuito di cui Riccardo Scamarcio si lamenta sempre. Ma forse la componente che a chi scrive manca di più è l'essere una di quelle porn mummy a cui la saga su cui non esprimo pareri è piaciuta moltissimo, scatenando desideri nascosti o repressi e divorando le due facciate di non-sesso prima di raggiungere quella del rapporto fra i protagonisti Anastasia e Christian – lei studentessa (prende un «diploma universitario») di letteratura inglese, lui amministratore delegato ventisettenne di un'azienda miliardaria; si incontrano perché lei sostituisce la sua coinquilina proto-giornalista e va a intervistarlo nel simpatico incipit fatto molto bene – la parte migliore di tutto il film. Riunione di lavoro disdetta, di quelle riunioni di lavoro che non si capisce mai, nei film, di che natura siano, ma le segretarie bionde le annunciano sempre – e i due si confrontano meno formalmente, si conoscono, e poi incontrano nel negozio di ferramenta dove lei lavora e lui compra corde e scotch. Le allusioni alle pratiche bondage all'inizio sono molte, simpatiche e ben seminate, tanto tutti sappiamo dove stiamo andando a parare, ma la componente che a chi scrive manca, dicevo, è il non essere una casalinga tutta scuola dei figli-casa del marito-chiesa di quartiere e quindi il non lasciarsi rabbrividire pelvicamente se in un libro si dice membro, sesso o peggio turgido: chi scrive sa benissimo che al mondo ci sono persone che ricavano godimento sessuale, magari, venendo trasportati in spalla su sentieri di montagna – e non scherzo, persone a cui la penetrazione non interessa e preferiscono starsene stesi con un paio di piedi a premere sul petto, persone che dominano i propri partner consenzienti facendoli pranzare a quattro zampe dalla ciotola del cane, per cui questo film, e la saga letteraria che gli sta dietro, non stuzzicano in me né stupore perverso né desiderio di nudità pubbliche, anzi: mentre il mondo si scatena per l'assenza dei restanti centimetri di pene oltre al primo inquadrati a Jamie Dornan, quello-di-Once Upon A Time, mancanza che era già stata annunciata al Guardian dopo la firma del di lui contratto (inizialmente proposto a Charlie Hunnam, da twink in Queer As Folk a Hulk vivente), io contesto proprio la presenza di performance sessuali (quattro, tre con penetrazione e due con canzoni di Beyoncé): se la figura di Dakota Johnson studentessa educata, vergine, impacciata romanticona e credibile solo al cinema è consapevole di ciò che vuole (un fidanzato «che la porti al cinema»), Christian invece pratica sadismo a intermittenza, e questo nella realtà di rado accade. Certi uomini hanno l'erezione soltanto se sculacciano, o se vengono sculacciati. Eppure lui propone contratti minuziosi e dettagliati a base di pinze vaginali e divaricatori anali che poi non usa, perché «cambia», ci dice la regista, «in realtà viene dominato da Anastasia». Sam Taylor-Johnson, britannica scelta appositamente da E.L. James, parla della «grande sfida» che ha voluto affrontare e dice una cosa saggia: che «l'erotismo finisce nel momento della penetrazione», e il gusto sta nei preliminari. Alla seconda regia dopo Nowhere Boy, dove ha incontrato il suo attuale marito di 23 anni più giovane, pare sia interessata solo alla psiche maschile per cui da John Lennon semi-abbandonato dalla madre e cresciuto senza contatto fisico passa a Christian Grey figlio di una drogata e adottato a quattro anni da una famiglia di ricchi – ma invece, precisa, le interessa l'erotismo, a lei e alla sua montatrice Anne V. Coates ultranovantenne (ha montato Lawrence D'Arabia). Il problema di queste scopatine fintamente hard sta nei discorsi che le presentano e le preparano, tipicamente cinematografici, a-effetto apposta per diventare slogan da locandina, eppure la sceneggiatrice è la stessa di Saving Mr. Banks. Impossibile non rifarsi a due pellicole recenti; la prima, Nymph()maniac, seppur discutibile, ci presentava un personaggio a cui non interessava altro: il sesso: di qualsiasi tipo – e si faceva frustare cristologicamente dai veri “pervertiti” sublimandone l'atto e giungendo all'orgasmo; la seconda, Shame, IL capolavoro, il cui protagonista aveva un altro tipo di necessità e un altro tipo di passato – ma niente ci veniva esplicitamente detto perché non siamo proprio cretini, e la macchina da presa si muoveva in modo particolarmente dignitoso dal momento che quel regista era un videoartista. Ah ma anche questa.

i lati positivi della routine.



Shaun, Vita Da Pecora
– Il Film
Shaun The Sheep Movie, 2015, UK/ Francia, 85 minuti
Regia: Mark Burton & Richard Starzak
Sceneggiatura originale: Mark Burton & Richard Starzak
Voci originali: Justin Fletcher, John Sparkes, Omid Djalili,
Richard Webber, Kate Harbour, Tim Hands, Andy Nyman
Voto: 7.9/ 10
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Dopo le Galline In Fuga (225 milioni di dollari incassati nei soli USA nel 2000) a voler scappare dalla fattoria sono le pecore, istigate dallo slogan pubblicitario sull'autobus verso la città: «prenditi una vacanza». Per le pecore e il cane-padrone e il pastore è una routine senza intoppi: ci si sveglia, ci si conta, ci si tosa. Un giorno nella Grande Città sarebbe ottimo svago e allora saltando ordinatamente la staccionata riescono a far addormentare il fattore, svestirlo, metterlo a dormire in una roulotte abbandonata e prendere l'autobus – ma la roulotte perde il suo freno e parte, per cui l'ultima parte del piano salta; prima Shaun, poi il cane Bitzer e in seguito tutti gli altri ovini approderanno nella civiltà industrializzata non più per godersi il meritato riposo ma per ritrovare il loro padrone che intanto, sballottato nel rude mezzo di trasporto, ha sbattuto la testa e perso la memoria e giace ricoverato in ospedale. A lui, la città porterà fama e gloria vedendolo diventare parrucchiere alla moda in un saloon stellato grazie alla sua abilità di tosatore e alla poca differenza, quando si parla di tendenza, fra pecore e umani; al gregge invece la città porterà un impiccio dopo l'altro, a partire dall'acchiappa-animali-randagi che si aggira per tutte le vie. Faranno sosta in un ristorantino francese travestiti da umani e con Timmy tenuto in spalla a mo' di zainetto, intelligentemente – dove la comicità toccherà vette altissime (i camerieri daranno loro i menu e loro li mangeranno). Dopo i corti e i lungometraggi di Wallace & Gromit e dopo i due Oscar che i film su quei due avevano vinto, la Aardman Animation (studio d'animazione fondato a Bristol nel 1972 da Peter Lord e David Sproxton) era diventata celebre nel mondo non solo per il minuzioso claymation – la tecnica paziente del passo uno e di quello stop-motion che necessita di modelli in plastilina da muovere fotogramma dopo fotogramma con estrema dedizione, a cui si aggiunge una estrema dedizione nel montare e ideare scenari di fondo a partire da materiali esistenti (la lana in primis) – ma anche perché con questa tecnica era approdata in TV attraverso la serie Shaun, Vita Da Pecora, da noi su Rai YoYo e adesso pubblicata in DVD per le serie 3, 4 e 4.5, a cui si era poi aggiunto lo spin-off Timmy Piccolo Grande Eroe che raccontava le peripezie all'asilo della più giovane delle pecorelle, la cui mamma è quella coi perenni bigodini in testa. Tutto, serie e film, è rigorosamente muto fatta eccezione di qualche verso e un paio di canzoni: in perfetto british humor i siparietti slapstick (di Charlie Chaplin, ma anche di Tom & Jerry) sono condotti dagli sguardi, dalle bocche laterali e dagli equivoci di questi ovini che, involontariamente, fanno anche dell'ottima satira (un personaggio famoso si vede disastrati i capelli e ha bisogno di tutta la sua troupe per capire come risolvere il problema restando à-la-mode; il suo selfie diventa fenomeno virale e rende l'acconciatura e il parrucchiere fenomeni pubblici), con una morale di fondo non troppo scontata: una vita monotona passata in campagna a far sempre le stesse cose potrebbe essere preferibile alle insidie della città dove la diversità non è benvista e i fuochi fatui sono pronti a spegnersi. Aprendosi e chiudendosi con scenette a noi inedite degli anni '80 in cui Shaun e il toro vicino di casa erano ancora bebè, il film non mette insieme una serie di episodi né cerca di allungarne uno ma si costruisce ad hoc come se fosse una duratura puntata di stagione; e siccome le puntate sono sempre deliziose, il lungometraggio non è da meno.

lunedì 16 febbraio 2015

premi dei sindacati - vincitori/ 2.



Se per i premi del sindacato dei migliori truccatori & acconciatori (2015 Make-up Artists & Hair Stylists Guild Awards) non ci sono grasse sorprese – cioè a sorpresa Birdman vince per le capigliature contemporanee ma Guardiani Della Galassia e Grand Budapest Hotel arraffano gli altri quattro premi, come previsto, spartendoseli equamente, fra genere contemporaneo e in costume – sorprendono i riconoscimenti del sindacato cinematografico del sonoro: il Cinema Audio Society Award 2015 infatti è andato al proto-pianosequenza di Alejandro G. Iñárritu e non al super-favorito American Sniper di Eastwood, candidato all'Oscar in entrambe le categorie del sonoro (montaggio e mixaggio); sul versante animato Big Hero 6 ha battuto Dragon Trainer 2, sarà per l'eclettismo delle sue scene (anche d'azione) e The Lego Movie, sempre meno considerato dalle giurie. Neanche quella finale è una sorpresa, semmai una conferma, che porta sempre più vicino all'Oscar Wes Anderson come sceneggiatore, ma in dubbio per la statuetta perché se qui non era contro le otto mani dietro Le Imprevedibili Virtù Dell'ignoranza (chiamiamolo così per non essere ripetitivi), con l'Academy sarà una lotta dura, in cui i quattro poliglotti di Birdman hanno dalla loro anche un Golden Globe. Il giovane Graham Moore (nella foto a sinistra, con Anderson) prosegue il nostro timore che The Imitation Game venga riconosciuto anche solo in una categoria – ma attenzione ché Whiplash gli sta alle calcagna, per quel premio, estromesso invece da questo. La ricostruzione della vita e soprattutto della morte di Aaron Schwartz in The Internet's Own Boy invece ha la meglio senza nemmeno la corsa contro il super-favorito CITIZENFOUR; insomma i Writers Guild Awards 2015 erano abbastanza prevedibili visto che non avevano concorrenza. Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i candidati in tutte le categorie dei tre circoli di premiazione.

giovedì 12 febbraio 2015

il film mauritano.



Timbuktu
id., 2014, Francia/ Mauritania, 97 minuti
Regia: Abderrahmane Sissako
Sceneggiatura originale: Abderrahmane Sissako & Kessen Tall
Cast: Ibrahim Ahmed, Abel Jafri, Toulou Kiki,
Layla Walet Mohamed, Mehdi A.G. Mohamed,
Hichem Yacoubi, Kettly Noël, Fatoumata Diawara
Voto: 9/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
film straniero
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«La nostra Palma d'Oro» scriveva Le Figaro prima che il Festival di Cannes finisse premiando Il Regno D'inverno (ironia della sorte: questo è in corsa per l'Oscar e l'altro no) e a Timbuktu spettasse solo il Premio della Giuria Ecumenica. Di co-produzione francese, all'uscita nelle sale d'oltralpe, il film ha incassato quasi un milione di euro in due giorni, segno che non è piaciuto soltanto al quotidiano; partendo da fatti di cronaca, il maestro africano Abderrahmane Sissako, nato in Mauritania ma cresciuto nel Mali, già a Cannes con Waiting For Happiness, era intenzionato a girare un documentario su una coppia vittima della furia dei jihadisti per il loro affronto alla decenza: convivevano con due figli senza essere sposati. Furono lapidati e il video della loro morte messo online dagli assassini. L'intreccio narrativo però nella produzione si rimpolpò e diventò finzione: un allevatore tuareg, Kidane, vive con la moglie e la figlia dodicenne in una tenda tra la periferia di Timbuktu e il deserto del Sahara nella più calma armonia, mentre i fatti della città lo raggiungono solo di striscio, fino a quando il suo giovanissimo pastore – a cui avevano pensato di regalare la mandria intera – si lascia scappare una vacca che dopo preventivi avvisi disturba le reti di un pescatore. Il quale la ucciderà d'impulso e lo screzio sarà risolto dai due adulti finendo in un semi-involontario omicidio. La sorte del colpevole è in mano al solo Signore ma a giudicare il suo reato ci pensano gli emissari sulla terra, i jihadisti provenienti da altre zone, la Libia ad esempio, che col loro pastiche linguistico ricreano una Babele dentro alla quale si sentono in dovere di portare ordine e rigore, attraverso un'interpretazione estrema del Corano: le donne devono indossare velo e guanti, i bambini non possono giocare a pallone, sono proibiti canti e balli – tranne alla pazza del villaggio, l'immensa Kettly Noël, perdonata perché incapace di realizzare quello che fa e dice, insultando gli uomini armati mentre è a passeggio con la sua gallina in spalla e il suo lunghissimo strascico. L'episodio di Kidane si circonda quindi di altri personaggi e altre situazioni che chiarificano l'intento ultimo del film: non fare una stirata denuncia del fondamentalismo islamico (eppure una venditrice di pesce, costretta a indossare i guanti, preferisce che le vengano tagliate le mani, che la si porti via dal suo bancone, perché come si può pulire e vendere il pesce coi guanti? Un uomo che chiede in sposa una ragazza che conosce appena quando il padre di lei non è in casa e si sente dire «non si fa così, non è tradizione», risponde: perché?) ma riportare i fatti nel modo in cui sono, e allora si incontra l'imam locale nella casa del Signore che disteso svela: «non mi oppongo alla jihad, io per primo ne farei parte se non fossi impegnato con la mia crescita spirituale, che è il mio jihad personale». Alle truppe è allora permesso di incarcerare e frustare liberamente e pubblicamente, quando non dedicano il loro tempo ai videofonini e alle (poche) automobili, mentre il villaggio accetta religiosamente il volere di Dio con paradosso e i più giovani sono costretti a giocare a calcio senza pallone oppure scappare, chissà verso dove. Dalla prima all'ultima scena il ritratto di questo microcosmo africano è fatto nel male e nel bene, a partire da quel bene che è paesaggistico, l'incontaminato deserto, le acque e gli alberi e gli animali, il modo accampato di vivere che non può essere altrimenti: la fotografia di Sofian El Fani (che nella carriera conta La Vita Di Adèle) sin dall'inizio immerge, sommerge lo spettatore occidentale in territori a lui estranei restituendoglieli non come questo se li aspetta ma come li sogna; ogni inquadratura è un quadro, una perla per gli occhi – valore aggiunto di un film adulto, maturo, stranamente osannato dalla critica quanto dal pubblico.

martedì 10 febbraio 2015

take my hand, precious Lord.



Selma
– La Strada Per La Libertà
Selma, 2014, UK/ USA, 128 minuti
Regia: Ava DuVernay
Sceneggiatura originale: Paul Webb
Cast: David Oyelowo, Carmen Ejogo, Tom Wilkinson, Tim Roth,
Giovanni Ribisi, Common, Tessa Thompson, Omar J. Dorsey,
Colman Domingo, Ruben Santiago-Hudson, André Holland,
Lorraine Toussaint, E. Roger Mitchell, Dylan Baker, Oprah Winfrey
Voto: 8.2/ 10
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Candidato a 2 Premi Oscar:
film, canzone originale
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Octavia Spencer correva spaventata e con la spesa al vento nella scena più comica di The Help, quando veniva trovata da un uomo bianco nel proprio giardino di casa; la scena nascondeva del vero: un nero se veniva trovato in una proprietà privata poteva essere anche incarcerato – e siamo a metà del secolo scorso, non nel Settecento. Ma quella, come s'è detto, era la scena più comica del film: perché il film in fondo era una commedia che, con qualche punta di triste ricordo del passato, infiocchettava la condizione delle donne di colore domestiche nelle case dei bianchi e impossibilitate all'uso dei bagni dei padroni, di certe sale comuni, di certe espressioni. Latentemente, ne aveva parlato The Paperboy, ma poi sfociato in risvolti eccessivamente grotteschi; ne aveva parlato l'anno scorso The Butler - Un Maggiordomo Alla Casa Bianca, sempre diretto da Lee Daniels, che questa volta sfociava nel mélo corale con interventi di infiniti attori partecipi della causa razziale. L'unica pellicola che si può paragonare a questa è il Lincoln di Spilberg – rigorosissimo – ma allora sì che andiamo troppo indietro nel tempo. Per troppo tempo si è parlato di storie vere, di problemi reali che l'America si è lasciata alle spalle, sempre con una punta di ironia, un tono da commedia, una dolcificazione della vicenda, come fanno adesso The Imitation Game o Unbroken, tutt'altre storie ma le cui scene scomode, di maltrattamenti, di insulti, di castrazioni chimiche, di suicidi, sono tutte omesse, celate, fuori campo. Ava DuVernay invece non ha paura di mostrarcele: le manganellate che la polizia regala ai manifestanti di Selma sono inquadrate, le botte agli anziani fuori dal Parlamento, gli insulti dei bianchi e i loro cartelloni razzisti per strada – ma Ava DuVernay (e qui sta il bello) non ci mostra solo quelle cose, schierandosi e costringendoci a schierarci dalla parte dei neri, di Martin Luther King, Jr. e del diritto di voto che meritano: perché questa figura carismatica, questo leader anche spirituale, all'alba del Premio Nobel ricevuto ci viene mostrato come un uomo comunque comune, normale, anzi forse peggiore in certi aspetti: è un marito di cui si presume l'infedeltà, la fine dell'amore romantico, è un padre perennemente lontano dai propri figli che crescono mentre lui lotta per altro, per altri – perché la sua missione è più grande, lo supera, ma a volte è talmente grande che lo spaventa, ed è un uomo comune perché davanti a uno schieramento di polizia si preoccupa e torna indietro e rinuncia alla lotta e costringe alla rinuncia anche la sua comunità, che lo segue fedele. Siamo nel 1965: la lotta non violenta di Luther King è ormai famosa in tutto il mondo quasi quanto il latitante Malcolm X e persiste nel suo avanzare verso il pieno riconoscimento dei diritti dei neri, mirando ad una più giusta ed estesa possibilità di voto. Dal 1963 il Comitato Non Violento degli Studenti e la Contea di Dallas hanno iniziato la registrazione dei votanti ma, come viene spiegato, il seggio è quasi inaccessibile e la resistenza dei bianchi asprissima: non ultima quella dei leader politici. Il governatore George Wallace di Tim Roth viene dipinto come un uomo privo di scrupoli, profondamente contrario all'integrazione negra, cieco davanti al più mite presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) che sarà costretto ad approvare il Voting Rights Act dopo quella che passerà alla storia come la bloody sunday, la giornata del soffocamento violento della marcia sull'Edmund Pettus Bridge. Proprio la relazione tra il leader pacifista e i vertici politici è stato frutto di polemiche oltreoceano, dove la figura di Johnson viene immaginata molto più vicina al movimento non violento. Ma anche qui la DuVernay prende le distanze: quello che mostra è tutto frutto delle documentazioni, che segnala con didascalie, registrazioni e atti messi insieme dal suo sceneggiatore esordiente Paul Webb. Prima afro-americana ad essere candidata al Golden Globe per la regia, avrebbe potuto essere la prima per la stessa categoria agli Oscar, e la quinta regista donna nella storia, ma l'Academy fortemente patriarcale ha tagliato fuori lei e il suo film (solo Kathryn Bigelow ha ricevuto una statuetta, ma è stata ignorata col lavoro successivo). Avrebbe dovuto dirigere questa pellicola il Lee Daniels di cui prima, che grazie a Dio si ritirò; fu il protagonista David Oyelowo a proporre il nome di Ava, con cui aveva già lavorato nel film vincitore al Sundance Middle Of Nowhere; snobbato dagli Oscar anche lui, la cui performance ricalca magistralmente Luther King soprattutto nei discorsi pubblici e nel loro evolversi, nel loro esplodere: uno per tutti, l'ultimo, trampolino di lancio per l'epica canzone di chiusura Glory sulle scene di repertorio da brivido: unica nomination di consolazione. Sarà che la casa di produzione di Brad Pitt Plan B e quella di Oprah Winfrey (che si ritaglia una minuscola parte – attenzione a non confonderla con la tremenda Vee, Lorraine Toussaint) è già stata abbastanza premiata l'anno scorso per un altro capolavoro di cui l'America dovrebbe vergognarsi, 12 Anni Schiavo.

lost stars.



Tutto Può Cambiare
Begin Again, 2013, USA, 104 minuti
Regia: John Carney
Sceneggiatura originale: John Carney
Cast: Keira Knightley, Mark Ruffalo, Adam Levine, James Corden,
Hailee Steinfeld, Catherine Keener, CeeLo Green
Voto: 7.4/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
canzone originale
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Mark Ruffalo è stato un produttore discografico dai modi un po' avventati ma dal fiuto sopraffino: due Grammy che ha rivenduto a 125 dollari per pagarsi le sbronze di una sera, ha messo in piedi quasi da solo un'etichetta che ha prodotto, tra gli altri, CeeLo Green, si è sposato una giornalista musicale, Catherine Keener, che le ha dato una figlia, Hailee Steinfeld che, dismessi i panni country de Il Grinta si veste di pochi straccetti microscopici e provocatori per farsi notare dal figo della scuola, s'imbarazza se c'è il padre fuori ad aspettarla, dopo la campanella, e si vergogna di assistere alle sue liti, di farsi comprare il gelato, di farsi portare al luna-park. Ruffalo aka Dan Mulligan (e attenzione al cognome: un mulligan, nei giochi, succede quando a un partecipante è data una seconda chance di muoversi o fare una certa azione; il parallelismo col titolo originale Begin Again che significa quasi la stessa cosa viene perso in italiano a discapito di un'ipotesi meno drastica) perde il lavoro proprio quando alla casa discografica s'è portato dietro la figlia, privo dei soldi per pagarsi la topaia in cui dorme decide di non tornare a casa e si ritrova, ubriaco, in un locale con musica live su un palchetto: ha l'illuminazione: Keira Knightley voce e chitarra viene chiamata a cantare un brano da lei scritto e nell'immaginario di Dan parte tutta l'orchestra, parte l'arrangiamento, il brano è già in sala di registrazione. Si torna indietro. La Knightley aka Gretta si sposta da UK a USA per accompagnare il baldo fidanzato Adam Levine (pronuncia: le•vi•ne e non le•va•in) che sta racimolando un po' di celebrità grazie all'inserimento di qualche suo brano in un film – brano scritto sempre da lei, o insieme a lei – ma la manager di una casa discografica ha la meglio e le stars della canzone originale pure per cui, cresciuta la barba, finito l'amore, Gretta si ritrova ospite in casa dell'amico James Corden a chiedersi cosa farà in territorio straniero, guardando di tanto in tanto video su iPhone o su laptop che ci fanno tornare indietro, di nuovo. Keira Knightley ha dovuto imparare a suonare la chitarra prima di girare il film, e suo insegnante è stato il marito e musicista James Righton; le lezioni sono state atroci, a detta dell'attrice, e hanno portato la relazione «al divorzio e forse anche all'omicidio». Il suo ruolo era stato dato a Scarlett Johansson che pure, abbiamo imparato, è un'abile canterina acustica – ma ha poi rifiutato. La parte che è di Adam Levine, invece, era stata data al boyzone Ronan Keating (sarebbe stato irlandese insieme a un'inglese e si sarebbe perso l'accento oceanico). Tutti questi cambi di programma avrebbero potuto infierire in una sceneggiatura originale, e invece gran parte del film è improvvisata per cui la genuinità della storia resta. L'autore, John Carney, era già passato dagli Oscar con un suo film, più piccolo di questo, microscopico, ma forse addirittura più genuino perché vissuto dai protagonisti senza nome, l'irlandese Glen Hansard e la ceca Markéta Irglová, entrambi attivi adesso come compositori, il primo più della seconda e autore anche di uno dei brani di questo film – ma la canzone originale candidata dall'Academy, tra le tante, è Lost Stars, brano di punta, interpretato ora dalla Knightley ora da Levine, con diversi arrangiamenti per piacere al pubblico. «Ma non è del pubblico che ci interessa» lo ammonisce lei, priva totalmente del sogno americano di sfondare e anzi, nemmeno interessata a pubblicare un disco che comunque registra per divertimento, in un modo bislacco, sotto idea di Mulligan: non on the road ma in the city, New York, la città che tanto (si) ama. Ne scaturiranno spensieratezze, belle performance e un finale finalmente non prevedibilmente melenso. Nel DVD e nel blu-ray, in uscita questo mese, oltre al solito trailer i contenuti speciali contano interviste al regista e al cast. Chi ha amato o dovesse amare questo film adesso deve andare a recuperare un altro titolo musicato, già in DVD perché del 2008, Nick & Norah - Tutto Accadde In Una Notte e trovare i due punti di contatto con questa storia.

bio mitzvah.



Non Sposate le Mie Figlie!
Qu'est-ce Qu'on A Fait Au Bon Dieu?, 2014, 97 minuti
Regia: Philippe de Chauveron
Sceneggiatura originale: Philippe de Chauveron & Guy Laurent
Cast: Christian Clavier, Chantal Lauby, Ary Abittan,
Medi Sadoun, Frédéric Chau, Noom Diawar, Frédérique Bel,
Julia Piaton, Emile Caen, Eddie Fontan, Pascal N'Zonzi,
Salimata Kamate, Tatiana Rojo, Loïc Legendre
Voto: 3.2/ 10
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Abbiamo imparato che dei grandi successi al botteghino francese, dei fenomeni popolari, dei campioni d'incassi non ci dobbiamo mai fidare: Quasi Amici era la storia preventivamente interpretata da Topolino de Il Ricco E Il Povero ma tratta da biografismo vero, e con aggiunta di malattia degenerativa, per cui giù di fazzoletti per la commozione e di risate figlie della commedia degli equivoci e delle parti e anche i nostri quotidiani nazionali abboccarono, applaudendo alla pellicola – per una volta non fece lo stesso l'Academy che non candidò il film all'Oscar nonostante all'Academy piacciano molto le file fuori dalla multisala. Ci sono stati poi casi come quello di Cena Tra Amici da cui la Archibugi ha sapientemente saputo attingere senza esagerare troppo, Giù Al Nord per noi incomprensibile e trasformato in una gioia di popolarismi tra il nostro Settentrione che incontra il Meridione nel remake Benvenuti Al Sud – praticamente c'è sempre, alla base della commedia di successo, campione di incassi, al botteghino francese, lo scontro di generi che possono essere politici, territoriali, sociali, religiosi, linguistici. Philippe de Chauveron si fa furbo e mescola insieme tutto: idea una famiglia di matrice gaullista (diremmo noi di destra, e saremmo politicamente troppo corretti) i cui spermatozoi paterni patriottici e patriarcali hanno saputo dare alla luce solo geni XX, quattro figlie femmine su quattro, sposate una a un ebreo, una a un musulmano e una a un cinese. La madre di famiglia, Marie, il cui rapporto con la progenie sua simile si consuma in un solo abbraccio alla fine di una cena, entra ed esce dalla chiesa cattolica tradizionale di famiglia chiedendosi quando vedrà almeno l'ultima bambina all'altare, in abito bianco, che ringrazia il Signore a lei comune, in francese. Preghiera ascoltata: il fidanzato di Laure è cattolico, è francese e le chiede la mano – ma lo fa in aereoporto, prima di andare a trovare i genitori per le vacanze di Natale, in Africa. Anche questi ultimi, conservatori (ma solamente il padre: la madre, in quanto donna, deve tacere e annuire), tradizionalisti, non vedono di buon occhio l'unione con una bianca, europea, francese: parte il gioco a manomettere la cerimonia, dopo aver scoperto l'inghippo alla melanina. Cliché sulla durata dei pranzi, sulla quantità di cibo, sulla musica della cerimonia, il periodo per le nozze; si lamenteranno perfino delle compagnie aeree. Tutto questo dopo i cliché sulla circoncisione, sulla carne kosher, i licis alla fine dei pasti cinesi, l'economia in mano a questo genere di commercianti, i ghetti parigini – battute a sfondo razziale stemperate dal tono della pellicola, battute tra i generi maschi e tra il suocero senza mai che le donne intervengano: a una viene addirittura diagnosticata la depressione, ha sempre sonno, mai fame, e con leggerezza dirà che «è una malattia seria», quando per prima fa ridere. Scoprirà la gioia di vivere con la zumba e col divorzio, che ovviamente non firmerà, perché il buonismo del film ruota attorno a questo: il matrimonio, unione di persone e di etnie e di famiglie nel bene e nel male. La Francia ha appena avuto dimostrazione che all'integrazione razziale non c'è mai arrivata, nonostante l'altissima percentuale di stranieri che contiene; certo non è stata utile in questo senso la presidenza di Nicolas Sarkozy che ha detto sì all'immigrato soltanto se è un bene per l'economia – e infatti nel ruffiano Non Sposate Le Mie Figlie! David, Chao, Charles e Rachid sono un banchiere, un avvocato, un imprenditore, un attore: si permettono belle case, viaggi, numerosi figli; non hanno preoccupazioni, nemmeno quella di dimostrare la giustezza della propria posizione. Nella parte iniziale del film una lite porta la «famiglia Benetton» a non vedersi né parlare per diciotto mesi, parrebbe. Eppure lo screzio è tutto tra i maschi, e le donne sarebbero tutte sorelle, una delle quali non ancora fidanzata, e con una madre viva. Le femmine in questa storia praticamente non esistono: per fare della facile ironia sul genere, il regista (maschio) schiaccia quello per antonomasia, il maschio/ femmina su cui perfino le commediole italiane hanno già battuto il martello. Sarà la madre nera a vivere un risveglio di ruolo e una microscopica emancipazione. Quando si dice non saper gestire i propri personaggi…

lunedì 9 febbraio 2015

BAFTA 2015 - vincitori.



Un potente, lungo, serio, ironico discorso di Mike Leigh ha chiuso la cerimonia dei 68esima BAFTA, i British Academy Film And Television Awards che sono serviti, a due settimane dagli Oscar, a indirizzare meglio le nostre previsioni. Il Turner di Leigh è chiaramente fuori dalla competizione (nonostante una fotografia splendida e una cura maniacale per i costumi), e proprio su questo il regista inglese ha ironizzato, ringraziando comunque i BAFTAs per il premio “dei membri” potremmo dire, presentato da due emozionatissime delle sue attrici: «non ero mai salito su questo palco, è carino». Boyhood rimane il miglior film anche se il sindacato dei produttori ha premiato Birdman, e Richard Linklater il miglior regista – ma non c'è, e ritira il premio Ethan Hawke. Non c'è nemmeno Wes Anderson, miglior sceneggiatore originale per Grand Budapest Hotel, che vince anche la miglior scenografia, i costumi di Milena Canonero (che manco c'è), trucco & acconciature e colonna sonora: Alexandre Desplat la stessa sera ha vinto anche il Grammy per la stessa categoria per cui il Jóhann Jóhannsson de La Teoria Del Tutto scende al secondo posto nella scala dei favoriti insieme a – rullo di tamburi – Michael Keaton sconfitto anche questa volta, come Birdman tutto: unico premio, la sacrosanta fotografia di Emmanuel Lubezki, il genio, tra gli altri film, dietro The Tree Of Life. A La Teoria Del Tutto invece tre awards: la sceneggiatura non originale, strappata all'altro inglese dell'anno infinitamente meno meritevole, The Imitation Game, il miglior attore Eddie Redmayne (nella foto, con Felicity Jones e David Beckham) e il miglior film inglese. Degli inglesi, il miglior debutto è stato quello del produttore e dello sceneggiatore di Pride, cult anche nelle nostre affollate sale – e per il resto tutto come previsto, Julianne Moore, i Lego miracolati almeno in Inghilterra, Citizenfour tra i documentari e poi Ida che si riprende ciò che era suo fino a prima dell'incursione di Leviathan. Gioia infinita per Whiplash, ben tre premi: oltre al prevedibile J.K. Simmons anche miglior montaggio e miglior sound – ma l'Oscar andrà ad American Sniper. A sorpresa si accaparra un premio anche Interstellar, gli effetti visivi che avrebbero dovuto essere del Pianeta Delle Scimmie, e sempre a sorpresa Jack O'Connell, guardacaso inglese, protagonista di Unbroken, batte i ben più celebri Shailene Woodley e Miles Teller (furono insieme in The Spectacular Now) e Gugu Mbatha-Raw, che ha quattro film usciti solo quest'anno. Questo il sito ufficiale della cerimonia mentre di seguito e dopo l'interruzione tutti i candidati e i rispettivi vincitori.

miglior film
Birdman
Boyhood
Grand Budapest Hotel
The Imitation Game
La Teoria Del Tutto


miglior film inglese
'71
The Imitation Game
Paddington
Pride
La Teoria Del Tutto
Under The Skin


Grammy 2015 - visual media vincitori.



Con la performance di Take My Hand Precious Lord, sempre dal film Selma, Beyoncé (che giunge oggi a quota 20 premi in casa da spolverare) ha introdotto l'esibizione live di Common & John Legend per Glory, epica la canzone originale candidata all'Oscar epica la messa in scena dal vivo – ma non era in lizza ai 57esimi Grammy Awards, i numerosi premi della musica americana: il film di Ava DuVernay da cui è tratta è uscito troppo tardi (le nominations sono di dicembre). Motivo per cui c'erano ancora, tra le migliori canzoni originali candidate, I See Fire di Ed Sheeran, rimasto ancora a bocca asciutta, e The Moon Song di Spike Jonze e la leader degli Yeah Yeah Yeahs. Ma Frozen ha, prevedibilmente, avuto la meglio: oltre ai grammofoni per i due compositori di Let It Go Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez (nella foto) già Premi Oscar, il musical invernale Disney ha vinto anche il premio per la migliore soundtrack, il disco con brani cantati anche non originali ma ri-arrangiati; I'm Not Gonna Miss You di Glen Campbell non trionfa in questa categoria ma vince la miglior traccia country mentre Everything Is AWESOME!!! procede nel suo declino insieme ai suoi Lego dopo una partenza a febbraio piena di aspettative. Miglior colonna sonora quella di Alexandre Desplat (era ancora candidato Frozen, insieme a Saving Mr. Banks e l'Oscar Gravity relitti dell'anno scorso) per il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson ma non è a L.A. perché per lo stesso lavoro, a Londra, vince il BAFTA. Desplat aveva già ricevuto un Grammy nel 2012 per Il Discorso Del Re, l'Oscar mai: giunto all'ottava nomination (ne ha raccolte otto in otto anni, e quest'anno fa doppietta grazie anche a The Imitation Game) è ormai certo che riceverà il premio dell'Academy. La lista completa dei vincitori dei Grammys è sul sito ufficiale mentre di seguito, dopo l'interruzione, le categorie cinematografiche e televisive.

giovedì 5 febbraio 2015

il tempo.



Jupiter
– Il Destino Dell'universo
Jupiter Ascending, 2015, USA, 127 minuti
Regia: Andy Wachowski & Lana Wachowski
Sceneggiatura originale: Andy Wachowski & Lana Wachowski
Cast: Mila Kunis, Channing Tatum, Sean Bean, Eddie Redmayne,
Douglas Booth, Tuppence Middleton, Nikki-Amuka Bird,
Christina Cole, Nicholas A. Newman, Ramon Tikaram, David Ajala
Voto: 4.8/ 10
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Un racconto fuori campo della prematura morte del padre, della fissazione per Stalin della russa madre, del desiderio di ricomprare un telescopio che fu rubato – ma di seconda mano, su eBay, perché Jupiter fa le pulizie in tre case al giorno per campare e tutte le mattine si sveglia alle quattro e mezzo dicendo: «odio la mia vita». Si lascia convincere dal cugino a donare ovuli con un nome falso e tu guarda il caso, il nome che dà è quello dell'umana tanto desiderata da un millenario alieno, che fa in modo che questa venga rapita; poi si scopre il tranello e tu guarda il caso, Jupiter si scopre ereditiera di un pianeta, goccia d'acqua della defunta madre degli Abraxas, antico casato intergalattico i cui tre discendenti adesso si fanno la guerra per avere più spazio nel cielo, e soprattutto più tempo – e il tempo è dato dalla longevità fornita dal corpo umano, ogni cento persone una fiala di lunga vita, ne consegue una coltivazione e mietitura di corpi che abbiamo già trovato in tutto il cinema dei fratelli Wachowschi, quelli-di-Matrix, come dice la locandina, perché dopo Matrix (dopo il primo Matrix, chiedete in giro a quanti è piaciuto il seguito) hanno subito un colpo basso dopo l'altro; eppure quello è stato uno spartiacque nel cinema sci-fi e nella modernità: primo esperimento di narrazione crossmediale (la storia proseguiva in videogiochi, corti animati, fumetti) è stato il trampolino di lancio per qualsiasi progetto futuro, e il futuro è stato Speed Racer, remake psichedelico di un anime buttato nel dimenticatoio il giorno dopo l'uscita; V Per Vendetta l'hanno consegnato nelle mani di John McTeigue, Invasion a Oliver Hirschbiegel e sono dovuti andare in Germania a reclutare un co-regista, Tom Tykwer (quello-di-Profumo), per dirigere l'atlante della filosofia del tempo Cloud Atlas: che tra alti e bassi si faceva comunque apprezzare, la cui unica pecca era stata presentarsi come un complicatissimo gioco a incastri narrativi decodificabili solo da schemi e alberi genealogici – quando a metà pellicola era tutto cristallino e quasi già detto. Consegnando le scene retrò a quell'altro, nella più grossa produzione indipendente della storia, i Wachowschi avevano diretto i tre episodi futuristici e con un perfetto filo conduttore si collegano da quelli a questo, che spazia tra lo skyline di Chicago ai varchi temporali dall'aspetto quasi desertico (chiaro riferimento a Dune, insieme ai reali interstellari) puntellandosi qui e là di scene d'azione. La prima, è talmente lunga che si finisce col domandarsi cosa preparare per pranzo domani, cosa faranno in televisione alla sera; le successive si concluderanno sempre con la venuta di Channing Tatum perennemente al momento giusto, quattro volte su quattro, pronto per salvare sua maestà Jupiter da capitomboli o pistole spaziali, tempismo che scatena in lei l'ormone al punto da renderla sfacciata (politicamente correttamente diremmo così) in modo da dare almeno un risvolto un po' saporito a questo personaggio insipido, sciapo, stretto nel corpo di Mila Kunis poco credibile come stura-cessi e che poveretta non azzecca un film da Il Cigno Nero. L'amato però si ritrae: perché è un ibrido mezzo lupo, perché è stato privato delle ali; il suo pizzetto biondo (chiaro omaggio alle boyband degli anni '90) catalizza tutta l'attenzione anche se mezzo film se lo fa senza maglia – ché Magic Mike 2 esce solo a settembre e in Foxcatcher ha una striminzita tutina da cui escono solo i capezzoli – e con stivali antigravitazionali e scudi trasparenti laser ci regala tutto ciò che abbiamo visto in tutti gli Spider-Man: la gente però al cinema chiede questo, altrimenti il film se lo guarda in streaming, e il duo di registi non si risparmia. Era stato chiesto loro uno script originale, che non fosse basato su libri o fumetti: attingono così alla propria adolescenza, quegli anni '80 di film nello-spazio dal kitsch estremo e dalle musiche epiche, e con un incipit frettoloso paro paro a Guardiani Della Galassia e con uno sviluppo blando supportato da dialoghi surreali sviluppano la solita storiella della terrestre che si scopre regina dell'universo ma deve scampare ai pericoli del cielo e poi torna a casa a vivere la sua vita rivalutandola. L'aver messo una donna come protagonista invece del solito uomo non eleva la cosa; soprattutto perché si fa una fatica madornale a carpire dettagli sul suo ruolo e sull'effettiva storia del mondo che il film finge di raccontarci. Terry Gilliam si riserva un cameo per ringraziare la citazione a Brazil nella più riuscita sequenza, le musiche di Michael Giacchino salutano da lontano quelle di John Williams per Lucas e Spielberg ma soprattutto alla fine sentiremo dire: «non sono tua madre» a Eddie Redmayne (unica decente prova d'attore visto anche che c'è un Oscar dietro l'angolo), per ribadirci forse che: non siamo davanti a Star Wars.