sabato 30 maggio 2015

Nastri d'Argento 2015 - candidati.



Annunciate le candidature ai 69esimi Nastri d'Argento, premi del cinema e dei cineasti italiani assegnati ogni anno dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici. Come ormai succede da qualche tempo, niente cinquina per il Miglior Film: il titolo è già annunciato ed è Il Giovane Favoloso di Mario Martone, biopic sulla vita di Leopardi passato in concorso allo scorso Festival di Venezia e inspiegabilmente campione di incassi in sala: più di sei milioni di euro al botteghino battendo quasi tutte le commedie nostrane della stagione. Per l'intento artistico e il risultato economico dunque il SNGCI lo premia escludendolo dalla competizione, e lascia spazio ai suoi contender del festival italiano aggiungendoci quelli del festival francese: sono Anime Nere e Youth, infatti, a fare da capofila alle candidature per i tecnici e gli artisti nostrani (7 a testa); ai Nastri non possono essere candidati nomi stranieri per cui anche de Il Racconto Dei Racconti e Hungry Hearts bisogna andare a pescare solo la troupe italiana (6 nominations ciascuno). Non ha questo problema Nanni Moretti con Mia Madre, furbamente uscito in anticipo rispetto agli altri e quindi anche in gara per i David di Donatello – e con una vincitrice già annunciata, Giulia Lazzarini, premio speciale insieme a Ninetto Davoli ritrovato in Pasolini di Abel Ferrara e Adriana Asti. 6 nominations anche per Il Nome Del Figlio di Francesca Archibugi, commedia dell'anno insieme a Fino Qui Tutto Bene e Latin Lover (5 nomine). Vengono riesumati, per i premi alle interpretazioni, I Nostri Ragazzi, Perez., Senza Nessuna Pietà, addirittura Un Ragazzo D'oro e La Prima Volta Di Mia Figlia – anche miglior soggetto. Niente da fare, di nuovo, per Kim Rossi Stuart, attore non protagonista dell'anno in Maraviglioso Boccaccio (2 candidature: costumi, colonna sonora – non tocchiamo l'argomento musica, con cinque canzoni originali imbarazzanti); spunta però, finalmente, Short Skin tra i migliori esordi (pure lui candidato al soggetto), contro Senza Nessuna Pietà che ruba il posto che Banana occupa ai David. Se la vedranno, sicuramente, Vergine Giurata e Se Dio Vuole. Elio Germano, indiscutibilmente il miglior attore dell'anno, era già stato segnalato dal Sindacato in chiusura della Mostra di Venezia con il Premio Pasinetti; ci saranno lui e il suo regista, già Nastro dell'Anno con Noi Credevamo nel 2011, alla serata di premiazione fra Roma e Taormina, che andrà in onda in differita il 3 luglio in seconda serata su Rai 1. Di seguito e dopo l'interruzione, i candidati in tutte le categorie.

nastro dell'anno
Il Giovane Favoloso di Mario Martone

regista del miglior film
Saverio Costanzo per Hungry Hearts
Matteo Garrone per Il Racconto Dei Racconti
Nanni Moretti per Mia Madre
Francesco Munzi per Anime Nere
Paolo Sorrentino per Youth - La Giovinezza

venerdì 29 maggio 2015

la muerte.



Il Libro Della Vita
The Book Of Life, 2014, USA, 95 minuti
Regia: Jorge R. Gutiérrez
Sceneggiatura originale: Jorge R. Gutiérrez & Douglas Langdale
Voci originali: Diego Luna, Zoë Saldana, Channing Tatum,
Ron Perlman, Christina Applegate, Ice Cube, Kate del Castillo,
Hector Elizondo, Danny Trejo, Carlos Alazraqui, Ana de la Reguera
Voto: 7.2/ 10
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Tre amigos: Manolo, Joaquín e Maria, amici d'infanzia con un genitore a testa e la corrida nella dinastia – solo che mentre Joaquín impara subito l'arte e la mette in pratica accaparrandosi medaglie e fama di protettore della città, Manolo – torero con una chitarra e due spade – preferisce all'animale lo strumentino. Entrambi, comunque, si proiettano nel futuro con lei, sposati e con figli, e lei, gattina (attenzione a dire «morta» in questo film), ora balla con uno ora canta con l'altro, fino al giorno in cui, costretta a lasciare la città per studiare (è divertente scoprire cosa) altrove, romperà il triangolo. A raccontarci la storia è la guida di un museo in cui uno scuolabus di bambini chiassosi e poco interessati cade stregato dal carisma di una narratrice di cui infine scopriremo il particolare dono: questa li fa entrare da una porta invisibile e li conduce subito al libro della vita: il volume che raccoglie le storie di tutte le persone esistenti o esistite – nella sala dei messicani, affrescata con La Muerte e Xibalba e il Creatore di Candele, quell'uomo, dalle fattezze di Dio ma dalla voce di rapper, che detiene i ricordi delle persone vive su quelle morte. L'al-di-là si divide infatti in due luoghi: la terra dei ricordati e quella dei dimenticati. E non appena finisce, sulla terra, la memoria del defunto, il suo scheletro si sposta dal territorio felice e colorato a quello triste di nulla. I due regni sono capitanati da due rispettive creature: che, omericamente, scommettono i troni sullo sposalizio che Maria alla fine si deciderà a coronare: se col buon Manolo o col fiero Joaquín. Ma Xibalba gioca sporco, e ne fa morire due su tre, morsi da serprente. Originariamente opzionato dalla DreamWorks, poi abbandonato in fase di produzione per «divergenze creative», finito in mano a Guillermo Del Toro nel 2012 con il titolo Il Giorno Dei Morti, Il Libro Della Vita è finalmente uscito nelle sale statunitensi a ottobre 2014 (con picchi in Messico e Brasile) e arriva da noi adesso. Una nomination al Golden Globe e cinque agli Annie Awards, dove ha meritatamente vinto il miglior disegno dei personaggi: una goduria per gli occhi. I protagonisti della storia narrata ci vengono infatti mostrati a metà tra la plastilina e il legno, marionette in mano alla narratrice, ogni tanto disegnati in 2D con una finta tecnica del collage, e sempre decorati meticolosamente, maniacalmente quasi, con fiori e puntini e paillettes e risvolti e bordini e intagli. Identici d'aspetto, Manolo e Joaquín si distinguono perché il secondo ha i baffi, segno di virilità e di fierezza; come in un moderno Gobbo Di Nôtre Dame lo spettatore sceglie se schierarsi verso un pretendente o l'altro, mentre la ragazza contesa rimbalza come una pallina fingendosi ingenua ma solo indecisa. Hanno le voci originali di Zoë Saldana, Channing Tatum e Diego Luna – il quale nelle parti cantate viene sostituito da Joe Matthews, canzoni che sono state in lizza per la nomination all'Oscar e che brillano nell'Apology Song, la canzone di scuse al toro, costantemente umiliato nell'arena. Il regista Jorge R. Gutiérrez ha dichiarato di immaginare Il Libro Della Vita come una trilogia: il primo volume su Manolo, il secondo su Joaquín e il terzo su Maria. Viene da chiedersi se questo fosse l'episodio di Manolo, insomma.

mercoledì 27 maggio 2015

gli incredibili.



Tomorrowland
– Il Mondo Di Domani
Tomorrowland, 2015, USA, 130 minuti
Regia: Brad Bird
Sceneggiatura originale: Damon Lindelof & Brad Bird e Jeff Jensen
Cast: George Clooney, Hugh Laurie, Britt Robertson,
Raffey Cassidy, Tim McGraw, Kathryn Hahn, Chris Bauer,
Keegan-Michael Key, Thomas Robinson, Pierce Gagnon,
Matthew MacCaull, Judy Greer, Michael Giacchino
Voto: 5/ 10
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New York World's Fair, la straordinaria esposizione universale del 1964, «talmente eccessiva che fu spesso apostrofata come un luna park», in cui i visitatori potevano pregustare (o prevedere) quello che sarebbe stato il futuro della tecnologia – spirito e ingredienti di Tomorrowland, uno dei parchi di divertimento più noti della Disney. Da qui, e da una scatola prima scomparsa e poi riapparsa negli Studios, con dentro modellini, bozze e fotografie di entrambe le installazioni – prende il via Tomorrowland film, il cui working title sarebbe stato 1952, anno in cui George Clooney si proietta agli albori della narrazione prima in- e poi fuori-campo. Bambino prodigio, presentò al dottor House Hugh Laurie un marchingegno che permetteva all'umano di volare – non proprio di volare dritto e in alto. Respinto dal severo esaminatore che non crede nella bontà del progresso, viene però adocchiato dalla di lui figlia Athena, bambina che si definisce «il futuro» stesso. Fornisce a Frank (il baby Clooney) gli strumenti per essere catapultato in una dimensione parallela dove il futuro è presente, e la gente ha perso la speranza in esso per cui vive trascinandosi senza sforzarsi di migliorare. Comincerà del tenero tra i due pischelli, prima che lui scopra che lei… Interviene quindi Brittany Robertson (venticinquenne e bionda – vi dice qualcosa? Intravista in Cake e l'11 giugno ne La Risposta È Nelle Stelle insieme al figlio di Clint Eastwood – ha vinto, paradossalmente, il premio Star of Tomorrow al CinemaCon), un padre che reagisce alla vedovanza e un fratellino impiccione (vi dice qualcos'altro?) e una spilla, che compare un giorno in una sala d'attesa che, se toccata, la proietta in un campo di grano, e uno skyline che si vede nella locandina, che a causa degli impedimenti terreni non può raggiungere: al movimento nella dimensione parallela corrisponde il movimento sulla terra. Anche lei s'imbatterà la piccola Athena, nonostante siano passati circa quarant'anni dal flashback che ce l'ha fatta conoscere – appunto perché lei… E da qui, Clooney la Robertson e Raffey Cassidy (Biancaneve da piccola in Biancaneve E Il Cacciatore e la giovane Eva Green in Dark Shadows) partono per un'avventura tutta botte, effetti speciali, robot, tempo che si accinge a scadere e futuro da regalare alle prossime generazioni. Una confezione per adolescenti con una sceneggiatura da primo semestre del primo anno di scuola per principianti, giocata a incastri e visibilmente scritta a quattro mani – le due più audaci di Damon Lindelof, co-scrittore di Lost, e le due di Brad Bird, che lo tiene a bada nei dettami Disney. Quest'ultimo (ha lavorato alle prime otto stagioni de I Simpson, ha diretto Il Gigante Di Ferro per la Warner senza che questa se ne accorgesse, ha vinto due Oscar: per Ratatouille e Gli Incredibili – altre due nominations alla sceneggiatura; ha diretto Mission: Impossible – Protocollo Fantasma, dall'incasso maggiore dei tre precedenti episodi, durante il quale ha dichiarato che Tom Cruise è l'attore perfetto perché fa quello che farebbero i personaggi animati) aveva già fatto il salto dall'animazione al live action ma non era stato così celebrato; sarà che per girare Tomorrowland ha dovuto (voluto!) rinunciare a Star Wars: Episodio VII – Il Risveglio Della Forza, stanco dei sequel e delle derivazioni fumettistiche. Si dice già a lavoro sulla multipellicola Filmtasia (un western, un musical, un film storico e un fantasy) ma si vede chiaramente, su schermo, che la sua formazione è tutta animata: gli effetti speciali, soprattutto sugli umani (i vestiti di Frank in primis) ondeggiano controvento come quelli di Syndrome, suo alter-ego ne Gli Incredibili (di cui dirigerà pure un 2). Per cui tirando le somme: dialoghi inaccettabili anche se a pronunciarli è Mr. Decaffeinato, storia a singhiozzi tenuta insieme da lunghe e posticce scene di azione – il tutto per arrivare a un bel finale da cartolina.

il brasiliano.



Banana
id., 2015, Italia, 86 minuti
Regia: Andrea Jublin
Sceneggiatura originale: Andrea Jublin
Cast: Marco Todisco, Anna Bonaiuto, Giorgio Colangeli,
Giselda Volodi, Camilla Filippi, Gianfelice Imparato,
Beatrice Modica, Andrea Jublin, Marco Todisco, Ascanio Balbo
Voto: 6.8/ 10
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Candidato a un David di Donatello:
miglior regista esordiente
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Sono una commedia campioncina d'incassi e un'opera autoriale intensa e matura (distribuita dall'Istituto Luce) a contendersi il David di Donatello 2015 per il miglior esordio: gli altri tre nominati non hanno grandi speranze; certo ci sarebbe piaciuto vedere i microscopici Short Skin (prodotto dalla Biennale) e l'ormai antico The Repairman, e invece insieme al non-film di Eleonora Danco hanno la meglio Cloro, pure festivaliero ma arrivato in una manciata di sale, e Banana: che di sale ne ha viste ancora meno nonostante il suo regista, esordiente al lungometraggio, sia stato candidato all'Oscar per il corto Il Supplente. Accomunati dalla presenza di Giorgio Colangeli, sono un altro dramma e un'altra commedia: ma una commedia «dolorosissima», scrive Paola Casella, dalla cattiveria di Mario Monicelli. «Bella la maglia, Banana: che me la presti, ché devo fare una figura di merda?» domanda una delle ragazzine della gang della classe a Giovanni – che tutti chiamano Banana per il piede incapace di calciare in rete, motivo per cui è costretto alla porta, in un ruolo che gli sta stretto e che spesso ottiene attraverso mazzette, acquisto di posizione per trenta euro scarsi che un compagno raccoglie da ogni dove per comprarsi la city car («venti euro per spremermi il limone negli occhi – tu hai pagato?, vuoi vedermi soffrire gratis?»). E ogni volta che la palla gli si avvicina eccolo immaginarsi in un campo sudamericano, la folla in tripudio, «cosa succede amici sportivi?», si toglie i guanti e davanti ai colleghi, dentro e fuori alla squadra, parte spedito verso la porta avversaria, raccontandosi la radiocronaca, sfiorando il goal e, poi, lanciando il pallone oltre il muretto, di filo spinato, per riceverla indietro inutilizzabile. Tutti lo detestano, per questo, e ogni tanto torna a casa insanguinato: a casa, la madre Giselda Volodi si domanda se mettere il peperoncino nel sugo oppure no e il padre, che non l'ascolta, risponde «sì tesoro», ormai stanco di essere marito, di essere uomo, di essere vivo. Hanno un'altra figlia: con due lauree e un lavoro da tesista che consiste nel scrivere le tesi altrui senza quasi esser pagata, con un amore eterno a cui deve rinunciare e uno nuovo che le fa rinunciare a tutto. A scuola: Anna Bonaiuto è stanca di essere insegnante, di essere donna, di essere viva e le lusinghe del preside non serviranno a non farle desiderare che qualcuno muoia ogni giorno, magari se stessa. Dalla sua penna e dal suo registro dipenderà la bocciatura di Jessica: tanti colori nei capelli, tanti uomini nel letto e nessuna capacità di memorizzare tutto il (o parte del) programma: Banana si offre volontario, desideroso d'altro, di aiutarla meticolosamente nello studio del Piccolo Principe, del Romanticismo in Italia, comprando il banco più vicino alla cattedra e rischiando l'espulsione per suggerire. Andrea Jublin, che si ritaglia il ruolo del primo fidanzato di Emma, conosce come le sue tasche sicuramente due cose: la scuola italiana (a cui in un'insegna profeticamente sono cadute la C e la U) e i suoi studenti, che già avevano costruito Il Supplente. Sotto questo punto di vista non trova spiraglio: il sistema è fatiscente, i ragazzi sono disinteressati, totalmente incapaci, ebeti, eppure si prendono gioco degli insegnanti e questi risultano impotenti, incapaci perché presi da altro, anche loro, persa la vocazione – persa la vocazione in tutto, in tutti i ruoli: in quello di genitori ma anche in quello di figli. E chi la scuola l'ha già fatta, si sente schiacciato da un altro sistema: quello sociale, lavorativo, e si riduce a rinunciare all'Amleto per mettere in scena il teatrino degli animaletti coi bambini. L'impianto e la regia apparentemente semplici, e la sceneggiatura serrata di frasi a effetto e qualche strafalcione, nascondono una disillusione debilitante, un'amarezza nel guardarsi intorno, un'incapacità di trovare redenzione, speranza in quello che ci circonda. Eppure tutto questo pessimismo è nascosto sotto la patina del film per la TV che fagocita l'attenzione dei meno trascendentali, sotto le battute (che non sono poche) e quell'alone di apparente già visto. Dal 23 giugno in DVD a € 14,90.

sabato 23 maggio 2015

#CANNES68: vincitori.



I francesi si premiano tre film su quattro, di quelli in concorso – in realtà sono Joel & Ethan Coen a premiarli, presidenti di una giuria che conta gli attori Jake Gyllenhaal, Rossy De Palma e Sienna Miller, gli attori e registi Xavier Dolan e Sophie Marceau, il regista Guillermo Del Toro e la musicista Rokia Traoré; il 68esimo Festival di Cannes si chiude lontano dalle aspettative, a partire da una Palma d'Oro mai annunciata durante le due settimane di proiezioni (si sospettava l'esordio dell'ungherese László Nemes, che ritorna sul tema dell'olocausto, in odore anche di Camera d'Or e invece premiato “solo” del Grand Prix, come fu per le nostre Meraviglie l'anno scorso) e assegnata a Dheepan di Jacques Audiard, film poco entusiasmante, forse per riscattare quei premi minori che gli erano stati assegnati nel '96 (miglior sceneggiatura per Un Héros Très Discret) e nel 2009 (Gran Premio della Giuria per Il Profeta) e il silenzio con cui era stato accolto Un Sapore Di Ruggine E Ossa nel 2012. Silenzio che ci teniamo anche noi italiani, in gara con tre film internazionali – si mormorava di Palme agli attori Michael Caine per La Giovinezza e Margherita Buy per Mia Madre, magari un premio speciale ai contributi artistici del film di Garrone, e invece niente: l'attore scelto era abbastanza prevedibile, Vincent Landon per il dramma etico La Loi Du Marché – mentre l'attrice risulta una sorpresa: sorpresa è il pareggio e sorpresa è Rooney Mara preferita alla celebrata (e due volte Oscar) Cate Blanchett in Carol, che vince anche la Queer Palm; miglior attrice insieme a Emmanuelle Bercot, altra francese, nell'altro non-entusiasmante Mon Roi di Maïwenn – una delle due registe donne in gara. The Lobster e The Assassin ricevono due riconoscimenti già annunciati dalla stampa (il secondo, pure Cannes Soundtrack Award) mentre Chronic di Michel Franco, considerato solo per l'interpretazione di Tim Roth, ottiene la migliore sceneggiatura nonostante le parole non proprio d'elogio dei giornalisti. La Camera d'Or strappata all'assistente di Béla Tarr (che comunque fa incetta: Vulcan Award all'arte tecnica, Premio FIPRESCI) va quindi a La Tierra Y La Sombra, anche Premio SACD e France 4 Visionary. Nanni Moretti, il più applaudito forse dei nostri senza aver diviso critica e pubblico, si accontenta del Premio della Giuria Ecumenica. Un altro italiano vincitore: Fulvio Risuleo per il corto Varicella. Sul versante Un Certain Regard l'Islanda di Grímur Hákonarson batte la Louisiana di Roberto Minervini, da questo giovedì in sala, che racconta la periferia anche sociale di un'America di cui nessuno parla: tossica, abbandonata, esibizionista, fatiscente. Di seguito e dopo l'interruzione tutti i premiati: incluso il cane de Le Mille E Una Notte.

Palma d'Oro 
Dheepan di Jacques Audiard (Francia)

Gran Premio
Saul Fia (Son Of Saul) di László Nemes (Ungheria)

Premio della Giuria
The Lobster di Yorgos Lanthimos (Grecia & UK)


mercoledì 20 maggio 2015

#CANNES68: l'apatia.



Youth
– La Giovinezza
Youth, 2015, Italia/ Svizzera/ UK/ Francia, 118 minuti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura originale: Paolo Sorrentino
Cast: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano,
Jane Fonda, Poppy Corby-Tuech, Veronika Dash, Paloma Faith,
Ed Stoppard, Neve Gachev, Madalina Diana Ghenea
Voto: 8.8/ 10
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Critiche e contestazioni – ma intanto dopo essere stato ignorato a Cannes aveva vinto l'Oscar: la colpa dovrebbe andare, stando a sentire, a quest'uso isterico del dolly e dei carrelli, agli incipit manieristi, manierati, alle sequenze senza sosta (de La Grande Bellezza ma soprattutto de L'amico Di Famiglia) – ignorato a Cannes eternamente, perché passato di là con tutti i film – solamente Il Divo ebbe un Premio della Giuria. Ma nonostante il pubblico spaccato in due l'attesa era molta, quasi eccessiva: e il trailer aveva giocato in furbizia a chi voleva trovare La Grande Bellezza 2.0, in versione international perché il cast già annunciato era tutto straniero. E invece. Nonostante si apra con un'inquadratura fissa, ma che gira su se stessa, su una cantante (You Got The Love) durante un party serale, La Grande Bellezza è lontana anni luce: ai finti giovani di quel film si sostituiscono dei finti vecchi, rinchiusi quasi claustrofobicamente a vedere sempre le stesse facce, gli stessi intrattenimenti ogni giorno, un albergo di lusso fra le Alpi Svizzere. Sono Fred e Mick, amici da un'eternità, ex direttore d'orchestra il primo, compositore, col vizio di accartocciare a tempo un involucro di caramella e con la decisione ferrea di non dirigere più, neanche di fronte alla regina d'Inghilterra, una moglie persa, una figlia (Rachel Weisz) forse mai avuta veramente (perché «nessuno si sente pronto a fare il padre») e una carriera schiacciata dalle Canzoni Semplici, motivetti dalla complessità inesistente di fronte alle opere precedentemente firmate; Mick invece è un regista cinematografico, sceneggiatore, legato al suo mestiere quanto ai suoi ricordi, che svaniscono galoppando: si circonda di ragazzi con cui scrivere la prossima pellicola, probabilmente l'ultima, il testamento spirituale dopo tante attrici fatte sbocciare, una cinquantina, ma una preferita tra tutte: Brenda – piedi piantati per terra e i soldi immediati della televisione preferiti a quelli evanescenti del grande schermo. Tra i due si inserirà con naturalezza Paul Dano, attore diviso tra la profondità del proprio mestiere e la leggerezza che il pubblico chiede – e che poi ricorda; giovane fuori ma vecchio dentro, schiacciato, lui, dai pregiudizi, per esempio davanti alla Miss Universo Madalina Ghenea bella-quindi-stupida. E poi c'è una coppia che in pubblico non parla ma nei boschi fa sesso urlato, un non-Maradona lievitato fisicamente che fa peripezie con una pallina da tennis, un santone che tutti vorrebbero veder levitare, uno scalatore di montagne dal dubbio spirito di iniziativa e Paloma Faith, che ci si poteva risparmiare. Costretti alla convivenza, Fred e Mick amano raccontare di dirsi solo le cose belle quando le cose, tutte, in realtà, stanno sfuggendo loro di mano: e per non ferirsi, spesso, proprio sulle cose belle tacciono, o si mentono. Il primo, accusato di apatia, e quindi nullafacente tutto il giorno, ha perso le speranze nelle emozioni; il secondo, invece, ne ha bisogno per andare avanti. Michael Caine e Harvey Keitel reggono il palleggio di una serrata sceneggiatura di dialoghi (e qualche monologo) brillanti dal punto di vista intellettuale che si sostituiscono alle peripezie della macchina da presa; Paolo Sorrentino si riscopre sceneggiatore e sorprende tutti con un film che non ci si aspettava e non ci si aspettava fatto così. A chi gli domanda come mai una riflessione sull'anzianità, risponde che è il tempo, «l'unica cosa che ci interessa davvero: quanto ne rimane, quanto ne è passato; il futuro è una grande occasione di libertà e la libertà è un sentimento naturale dell'esser giovane – è un film molto ottimista e forse è stato fatto per esorcizzare certe paure». Sarebbe facile infatti trovare parallelismi e somiglianze con la proto-casa di riposo in cui Marcello Mastroianni (regista pure lui) giocava a non fare il proprio mestiere, nel pieno della sua carriera poi!, in , già scimmiottato quasi nello stesso senso da Pappi Corsicato; o con l'albergo in cui Toni Servillo viveva e scopriva le conseguenze dell'amore per una semplice cameriera, dove pure una coppia di vecchietti giocava alla crisi di coppia piegata dalla povertà; ma questo è un film più elevato perché non solo racconta l'eternità dell'arte e della sua eterna giovinezza ma anche, dannatamente, del tempo in generale, della sua non accettazione e del dover scendere a compromessi se non si vuole perire: e infatti uno lo fa, e l'altro no. Girato nell'albergo dove Thomas Mann ha scritto La Montagna Incantata (ma il regista non lo sapeva), il film si divide tra gli interni artificiali dalle trame incomprensibili agli universali paesaggi dei quadri di Segantini; a intermittenza le immagini si sovrappongono, sempre isteriche, e Caine passeggia con accompagnatori diversi, capofila di un gruppo di attori in stato di grazia – finanche Jane Fonda, a cui basta un cameo per essere ricordata in eterno. Lui, mancava a Cannes da quarantanove anni, «cinquant'anni fa venni con un film che si chiamava Alfie; Alfie vinse un premio e io no: per questo non sono mai più tornato» ha detto in conferenza stampa, sottolineando che se qui un premio dovesse arrivare, sarebbe all'intero cast; «le dà fastidio interpretare il ruolo di un vecchio?» gli chiedono, «no» dice ancora, «perché altrimenti dovrei fare quello di un morto». Ma tutti applaudono al lavoro del regista: considerato un Fellini senza troppa leggerezza (Francesco Gallo, ANSA), che inspiegabilmente riesce a incuriosire pubblico e critica senza mettere nessuno d'accordo, se non musicalmente (questa volta è di David Lang), Sorrentino genera ancora qualche dissenso fra i «bravo» alla proiezione francese (ma la pellicola è stata acquistata in più di 70 Paesi). Motivo dei fischi, parrebbe essere, il finale a puntate – a singhiozzi: segnale che la maniera, al pubblico, proprio non piace; poi compare scritto a Francesco Rosi: e tutti tacciono.

interceptor.



Mad Max: Fury Road
id., 2015, Australia/ USA, 120 minuti
Regia: George Miller
Sceneggiatura non originale: George Miller,
Brendan McCarthy e Nick Lathouris
Cast: Tom Hardy, Charlize Theron, Nicholas Hoult,
Hugh Keays-Byrne, Josh Helman, Nathan Jones, Zoë Kravitz,
Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Abbey Lee,
Courtney Eaton, John Howard, Richard Carter, Megan Gale
Voto: 8/ 10
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Mel Gibson era nessuno quando fu messo alla guida dell'Interceptor, poliziotto sposato e con un figlio, innamorato della prole tanto quanto della moglie, in un fantascientifico scenario semi-apocalittico, semi-contemporaneo fatto di strade steppose nella periferia americana bazzicate dalle gang di motociclisti, centauri, briganti al volante desiderosi di adrenalina su ruote o con manganelli: il film si chiamava Mad Max, girato con pochi spiccioli tutti messi dalle tasche del regista, un pugno di macchine utilizzate, poi riverniciate e utilizzate per altre scene: a sorpresa, incassi stellari – il maggior incasso di un film così indipendente prima di The Blair Witch Project. Volume secondo: budget triplicato e stuntmen a rischio di morte vera, molti silenzi e infinite scene di corse, rincorse, violenze gratuite. Ma lo scenario cambia, l'apocalisse è più sentita: siamo in un non-luogo dove l'oro primo è la benzina e i popoli tornati a uno stato primitivo, almeno esteticamente, sono tribù in guerra. Un bambino ci racconta la storia fuori e dentro il campo, un bambino col meccanismo di un carillon (attenzione al dettaglio perché ritorna). In Italia si chiamarono, entrambi i film, col nome dell'automobile – ma ce n'è un terzo, rinominato Mad Max, girato a quattro mani; George Miller però, decretato «genio» nel trailer di questa nuova pellicola, parte da questa seconda storia, dalla post-apocalisse bramosa di petrolio (e acqua), e nel momento più fiacco del cinema americano fa ciò che ci si aspetta: un reboot. Ci pensava già nel 2001, quando ormai sembrava chiaro che aveva dato una svolta alla sua carriera (Babe, Happy Feet), e quando credeva di poter tornare a dirigere Gibson in quello stesso ruolo. Lo deve rimpiazzare, anagraficamente parlando, con Tom Hardy – un inedito vocione rauco, per quelle poche battute che biascica: non facciamoci illudere dall'incipit, dalla voce fuori campo che poi scompare, dall'ellisse narrativa che ci racconta il rapimento e la prigionia di questo nuovo Max in questa tribù maschilista e misogina, capeggiata da un energumeno con pochi muscoli e tutta protesi, quasi incapace di respirare, di muoversi – come molti altri dei leader delle gang: impossibilitati alla lotta e, quindi, strateghi. Lavaggio del cervello ai sudditi maschi, che si dividono in piloti di auto da deserto o giovani sacrifici in attesa di morte gloriosa, tutti fedeli innamorati del sovrano – il sovrano ha vari figli e soprattutto varie mogli, che insieme all'unica donna del rango che ci viene presentata, Charlize Theron aka Imperatrice Furiosa, senza un braccio e con un make-up alla Blade Runner, alla guida di una cisterna stanno cercando di fuggire dal luogo di podestà verticale verso un giardino eterno di acqua e vita pura da ri-abitare, da ri-piantare. Ma la fuga non è semplice perché è pedissequamente controllata. È da qui che il film comincia: e non perde mai il nodo che intreccia il tempo della storia a quello del racconto. Non c'è spazio per la retorica, per dirci chi siano queste genti, queste e le altre che incontriamo (i ricci, i corvi), non abbiamo tempo per imparare i nomi delle tribù o dei personaggi, i loro saluti, le abitudini di fronte alla morte violenta o a quella auto-imposta. Si corre sulla strada secca e assolata, rocciosa, impervia, si scansano i nemici dalle più disparate trovate belliche e ci si chiede in quanti effettivamente arriveranno alla meta, perché i morti non sono pochi – se si arriverà alla meta. Senza concedersi totalmente al digitale e senza perdere quell'impasto kitch tra Fast & Furious e certe protesi di Dune – ma anche di Star Wars – il film non-fantascientifico che contaminò Terminator e Ken Il Guerriero torna ai suoi fasti iniziali quintuplicato in potenza: è cinema puro, cinema d'intrattenimento puro, di genere diremmo, che rinuncia a tutti quei momenti di silenzio verso una colonna sonora (diegetica!) che affonda le radici nel mix di generi: davanti al quale in molti potranno storcere il naso: io no.

domenica 17 maggio 2015

di pubblica crocifissione.



Calvario
Calvary, 2014, Irlanda/ UK, 102 minuti
Regia: John Michael McDonagh
Sceneggiatura originale: John Michael McDonagh
Cast: Brendan Gleeson, Chris O'Dowd, Kelly Reilly,
Aidan Gillen, Dylan Moran, Isaach De Bankolé,
M. Emmet Walsh, Marie-Josée Croze, Domhnall Gleeson
Voto: 7.6/ 10
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Un teatrino di marionette: e per prima vediamo quella di padre James, uno dei due preti della parrocchia, intesa nell'accezione geografica del termine, del quartiere ecco, del villaggio, del teatro appunto in cui si muovono le altre marionette; la seconda non la vediamo: si cela nel confessionale insieme al segreto che le compete, e racconta al sacerdote che da piccolo un altro prete lo violentava costantemente, lui e gli altri suoi compagni, senza motivo: per questo adesso si sarebbe vendicato colpendo un innocente – lui stesso – innocente ma altrettanto meritevole del trattamento per chiudere un cerchio karmico che alla Chiesa non spetta. E da qui parte il calvario: alla ricerca di quella voce minacciante del confessorio, alla ricerca della domenica, giorno di messa, per essere ammazzati, immolati per un peccato altrui – questo sì che alla Chiesa invece spetta. Nel villaggio, nel teatro le marionette che si muovono non sono tante: tutte possibili colpevoli e tutte marce, marcite all'interno, becere, disgustose, marionette/personaggi che amano il felching, che pisciano sui quadri di valore, che picchiano le proprie compagne o amano farsi picchiare, che intessono relazioni con gigolò fieri del proprio mestiere, del proprio ano consumato, della propria consumata bocca – marionette animate da valori beceri, marci altrettanto nell'interno del proprio intento, disilluse, spente, che quindi vedono il marcio in tutto, lo prevedono. Queste marionette, a turno, in questa messa in scena tutta teatrale scandita dai giorni della settimana e da una musica nostalgica de Il Gladiatore, troppo epica per una storia del genere in fondo così intima, così ristretta, ristretta a un palco e una manciata di interpreti, queste marionette a turno incontrano il fedele Brendan Gleeson, sopraffino nella sua fiera interpretazione, e gli vomitano addosso tutto il peggio di loro, tutti i succhi gastrici che hanno da vomitare; fa eccezione la figlia avuta prima di incontrare la fede, da una donna morta che ha segnato la perdita del terreno per entrambi. «Ho perso la mamma e poi ho perso te» dice la ragazza, dopo aver tentato il suicidio commettendo l'errore che commettono tutti. Fiore candido e fuori luogo, è tenuta all'oscuro della morte imminente, della morte del cane – ma l'incendio della parrocchia non glielo si può mascherare. Affiorano, a questo punto della sporcizia strabordante, le vecchie dipendenze alcoliche di James, la violenza ingiustificata, gli scatti irrazionali. La provenienza irlandese e la fotografia magistrale di Larry Smith ricorderebbero un altro esordio-capolavoro, Hunger di Steve McQueen: ma quello era fatto di silenzi e di luridume vero, spalmato sulle celle dei prigionieri politici; qui la voce è prepotente, i dialoghi sono lo scheletro della trama scarna e inesistente, e l'odore di bruciato esce dai corpi, è nascosto sotto spoglie di apparenza algida tipica di chi esce dalla chiesa con la coscienza lavata. Tutti sono peccatori, sembra dirci John Michael McDonagh, abbandonando il tema della pedofilia fino all'ultimo sospettata ne Il Dubbio, capovolgendo Dieci Piccoli Indiani e lavorando in sottrazione (non vediamo mai il prete in casa propria, mangiare, dormire, dire messa). Tutti sono peccatori ma esserlo non è una condanna eterna perché, anche tardi, ci si può convertire – pare dirci. Eppure non è facile: essere peccatori o essere puri, né essere confessori e dover combattere costantemente contro i mulini, a due passi dal mare purificatore e, forse, primordiale. Abbandona anche, McDonagh, le preferenze comedy del fratello, autore di In Bruges e 7 Psicopatici, colpito nel profondo dall'impianto teatrale che era di Shakespeare e poi di Beckett, dall'etica ecclesiastica, dalla furia iconoclasta non di facile decifrazione e, soprattutto, da una furia di cinismo non alla portata di chiunque.

David di Donatello - candidati.



Annunciate dall'Accademia del Cinema Italiano le candidature ai più importanti premi cinematografici nostrani giunti oggi alla 59esima edizione, i premi David di Donatello. Una vergogna: di una lunghissima lista sono stati presi una manciata di titoli e replicati in ogni cinquina senza cognizione di causa, a partire dal capofila Anime Nere, 16 candidature per il terzo lungometraggio di Francesco Munzi, già nominato al David all'esordio Saimir, che conta anche un posto per Barbara Bobulova come attrice non protagonista, unica a parlare in italiano – seguito subito dopo da Il Giovane Favoloso di Mario Martone, vincitore con Noi Credevamo quattro anni fa, 14 nominations che ci aspettavamo (scene, costumi, che se la devono vedere con Maraviglioso Boccaccio; la magnifica musica di Apparat) a cominciare dalla sacrosanta performance di Elio Germano, attore senza rivali nonostante in gara contro i previsti Marco Giallini, Riccardo Scamarcio e Alessandro Gassmann. Quest'ultimo ritrova tutto il cast de Il Nome Del Figlio fra i nominati, Scamarcio soltanto la compare Jasmine Trinca per Nessuno Si Salva Da Solo. Sul versante femminile il disastro: causa morte, nomination d'obbligo per Virna Lisi come protagonista in un film senza protagonisti e di cui ogni attrice meritava la considerazione; Paola Cortellesi ci piace sempre tanto ma all'Accademia ancora di più, seconda nomination di fila dopo Sotto Una Buona Stella scorso (vinse nel 2011, per Nessuno Mi Può Giudicare), Margherita Buy era ovvia ma dovrebbe essere Alba Rohrwacher a trionfare, con Hungry Hearts del compagno Saverio Costanzo – 7 nomine –  anche se quella di Vergine Giurata è la sua performance più riuscita; una sola candidatura per Laura Bispuri: regista esordiente contro il comedy Se Dio Vuole e il non-film N-Capace. Niente Short Skin, niente The Repairman: c'è Cloro, l'intenso dramma di una nuotatrice schiacciata dai problemi familiari, e a sorpresa il minuscolo Banana. Accanto alle 10 nominations di Mia Madre, appena proiettato a Cannes, tra cui quella giustissima per Giulia Lazzarini e quella un po' regalata a Nanni Moretti, Torneranno I Prati chiude il ciclo degli eterni candidati – ultimo film di Ermanno Olmi che promette sempre di essere giunto all'ultimo film (8 candidature); 7 invece per la commedia dell'anno Noi E La Giulia che addirittura fa doppietta di attori non protagonisti rubando ciò che spetterebbe a Kim Rossi Stuart e concorre al David Giovani che però, in quanto tale, potrebbe preferire Il Ragazzo Invisibile di Salvatores (10). Più vergognosa di ogni altra cosa è l'assenza de Le Meraviglie, colpevole di essere uscito ormai un anno fa, candidato solo alla produzione: Gran Premio a Cannes scorso, è in assoluto il miglior film italiano dell'anno. Invece i candidati secondo l'Accademia sono:

miglior film
Anime Nere di Francesco Munzi
Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Il Giovane Favoloso di Mario Martone
Mia Madre di Nanni Moretti
Torneranno I Prati di Ermanno Olmi

migliore regista
Francesco Munzi per Anime Nere
Saverio Costanzo per Hungry Hearts
Mario Martone per Il Giovane Favoloso
Nanni Moretti per Mia Madre
Ermanno Olmi per Torneranno I Prati


giovedì 14 maggio 2015

#CANNES68: il circo.



Il Racconto Dei Racconti
id., 2015, Italia/ Francia/ UK, 125 minuti
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura non originale: Edoardo Albinati, Ugo Chiti,
Matteo Garrone e Massimo Gaudioso
Basata sul romanzo Lo Cunto De Li Cunti Ovvero
Lo Trattenemiento De Peccerille di Giambattista Basile
Cast: Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly,
Shirley Henderson, Hayley Carmichael, Bebe Cave,
Stacy Martin, Christian Lees, Jonah Lees, Alba Rohrwacher,
Giselda Volodi, Massimo Ceccherini, Jessie Cave, Franco Pistoni
Voto: 8.5/ 10
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Tre regni, e tre monarchi: il primo, John C. Reilly, perde la vita realizzando il sogno della moglie regina Salma Hayek: «sentire la vita crescerle dentro», ma per farlo, dice il negromante cui la coppia si rivolge, serve che una vita venga strappata: e il consorte finirà col perire strappando il cuore a un drago marino che una vergine dovrà cucinare e che la Hayek dovrà mangiare. La quale vergine, si scoprirà altrettanto incinta: e i due bambini nasceranno pressoché identici, giocheranno a scambiarsi, ma saranno divisi dal solito ceto sociale: principe e servo, incatenato e liberi. Il secondo monarca, Vincent Cassel: si lascia stregare dalla voce di una donna, che crede una fanciulla – lui che per le fanciulle ha un debole noto, al punto da ammucchiarcisi ai funerali; la invita a dormire nel castello e la scopre vecchia, la lancia dalla finestra: questa vivrà il miracolo della giovinezza, dopo aver tentato un casereccio ringiovanimento, accompagnata dalla sorella: ed è proprio questa sorella a pagare per la fortuna familiare – che come ogni cosa non è eterna. Terzo monarca, Toby Jones morbosamente legato alla figlia, la bravissima Bebe Cave, concederà la di lei mano solo all'uomo che risolverà un enigma quasi impossibile: anche se dovesse essere un orco. La poverina, figlia di tanto amore, si ritroverà a concedersi carnalmente tra le ossa degli animali, a scuoiarli, vivere tra le rocce. Miracoloso ma evanescente sarà l'intervento dei circensi Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini, azzeccatissimi per il ruolo che sottolinea l'aspetto boccaccesco dell'opera, buffoni di corte già al cospetto della regina sterile: miracoloso e cruento, crudissimo, a evocare il curriculum del regista. Tre monarchi ma in realtà un film sulle donne: sulle femmine e sui loro legami di sangue – a un figlio, a un padre, a una sorella. E non è un caso che siano indimenticabili la Maria di Gomorra e quella del manifesto del nostro secolo, Reality. Pareva una mossa azzardata, dopo la celebrità dei film precedenti, che Matteo Garrone girasse un film fantasy con cast internazionale e in lingua inglese – anche perché gli italiani all'estero sono pericolosi – ma la furbizia, l'intelligenza è stata nel lasciare le cose così come sono: le storie così come sono. De Lo Cunto De Li Cunti Ovvero Lo Trattenemiento De Peccerille (la cui migliore edizione italiana parrebbe essere Garzanti) cancella la cornice e sceglie tre delle cinquanta novelle, cunti perché a narrarle sono fattucchiere. A differenza dei Taviani le incastra, seppur minimamente, e a differenza dei Taviani porta le maestranze a livelli impressionanti: i costumi sono da Oscar così come le scenografie, spesso pugliesi, certe trovate della fotografia che limita l'eccessiva presenza del digitale tra il buio e l'esplorazione marina (immense le scene in acqua, quasi quanto la sequenza del labirinto), e la musica di Alexandre Desplat che esplode già in principio, come nel film precedente. Gli si perdona dunque l'essere andato altrove per raccontare un trittico napoletano; perché invece di giocare agli archetipi della fiaba, si riappropria della fiaba come archetipo e la consegna nella sua interezza, nella sua complessità, nel suo galoppare di eventi (alla fine ci si dimentica quasi l'inizio), e soprattutto nella sua spietatezza, senza edulcorarla come siamo stati abituati a leggere e vedere – senza strafare posticciamente (Alice, Maleficent) e soprattutto senza aver paura del silenzio, ammutolendo l'incessante musica quando ci si spaventa, ammutolendo gli attori quando non c'è bisogno che parlino, senza la necessità di un ritmo continuo, terrorizzato dalla noia, dato già dalla trama: Il Racconto Dei Racconti si potrebbe affiancare soltanto al Labirinto Del Fauno nel suo essere storia gotica ma coi piedi ben piantati in terra, nel suo avere mostri-umani esistenti fisicamente, a raccontare ciò che tutti cercano di raccontare (l'eterna giovinezza, la paura della vecchiaia, della bruttezza, la lussuria, l'amore figliale e quello paterno) partendo dalla favola ma senza mai toccarla veramente: e non è un caso che Basile sia stato avvio di storie come La Bella Addormentata o Cenerentola.

il film russo.



Leviathan
Leviafan, 2014, Russia, 140 minuti
Regia: Andrey Zvyagintsev
Sceneggiatura originale: Oleg Negin & Andrey Zvyagintsev
Cast: Aleksey Serebryakov, Elena Lyadova, Roman Madyanov,
Vladimir Vdovichenkov, Anna Ukolova, Sergey Pokhodaev,
Aleksey Rozin, Igor Sergeev, Igor Savochkin
Voto: 8/ 10
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Libro di Giobbe, Sacre Scritture. Kolia, meccanico, vive con il figlio e la compagna (la madre del ragazzo è morta) in una cittadina nel nord della Russia dimenticata da Dio, diremmo – e invece pare che Dio se la ricordi benissimo: al suo essere impulsivo, violento, rozzo, dispotico Egli risponde con le avances che il sindaco locale fa ai terreni dove sorge la palafitta dell'uomo: diviso tra le ingenti donazioni alla Chiesa e la foto di Putin sulla scrivania, questo non vuole sentire scuse nella transizione verso l'acquisto; ma Kolia non può farsi sbattere fuori casa: consulta un vecchio amico, un fratello, avvocato di Mosca e compagno al fronte, il quale scopre corrotte manovre nel passato del politico della cittadina. A questo punto non è più Dio ma il sindaco a intervenire nella tranquilla vita di Kolia: per vie traverse, una delle quali vede un (perdonato) tradimento ma due spaventose strade per tutti quelli che gli stanno accanto. Una dopo l'altra, come al Giobbe biblico, gliene succederanno di ogni – e solo la vodka pura, calata a bicchieri interi, affievolirà l'effetto. Dissacrante sotto tutti i fronti, il film è «il ritratto di una nazione umiliata», hanno scritto alcuni; umiliata: dai poteri dei primi cittadini che per assurdo manovrano con più facilità delle alte cariche il popolo sottostante; dai poteri delle parrocchie di paese che per assurdo fanno colazione coi primi cittadini. Andrey Zvyagintsev ci avvisa però già da subito, nell'intro del film: non sarà un percorso facile e non sarà un viaggio popoloso: siamo in una cittadina nel nord della Russia dove pare che niente sia vivo, le case sono crollate a pezzi, delle barche restano i ruderi incastrati tra la sabbia e l'acqua che nessuno va a togliere e infine dei presunti leviatani si hanno gli scheletri imponenti davanti ai quali piangere le proprie sventure. Ma anatomicamente forse siamo davanti a una balena: il leviatano del titolo è quello di Hobbes, perché il film è anche filosofico: è politico, è religioso, e allora bisogna donarsi a lui, lasciargli dire quello che ha da dire anche quando a parlare sono le alte cariche giuridiche che a malapena prendono fiato leggendo gli atti, in un pianosequenza estenuante, o gli uomini d'affari in macchina o le compagnie di amici ritrovatesi a bivaccare sugli scogli: si parla tanto, tutti parlano tanto ma non è facile stargli dietro, bisogna avere fede e pazienza: e se ne esce ripagati. Perché Zvyagintsev (ispirato da un fatto di vera cronaca in cui un singolo lotta contro torti e ingiustizie, ricalcando Il Ritorno Leone d'Oro a Venezia 2003) fa satira anche sul cittadino, dopo averla fatta sull'alto rango: anzi fin dal principio la fa su di esso. Motivo per cui è stato premiato con la Palma alla Sceneggiatura a Cannes 2014, ha vinto un Golden Globe come Miglior Film Straniero battendo Ida ed è stato candidato all'Oscar 2015 – quell'Oscar da cui il compare d'uscita nelle sale italiane, Forza Maggiore, è stato escluso. Alla fine della spirale narrativa però, quando Kolia è di fronte alla Religione, non c'è più speranza verso il Signore, non c'è più illusione di vivere, sottomissione alle istituzioni – né ribellione alla punizione divina. Non c'è, neanche, la ricompensa per la sofferenza, come la Bibbia vorrebbe. Non c'è altro, solo uomini, che si gestiscono tra di loro, in qualche modo: e ci sono sempre quei ruderi di barche, quelle case fatiscenti, gli scogli e gli scheletri – che nessuno va a togliere.

mercoledì 13 maggio 2015

#CANNES68: official selection.



Tutti ormai sanno che sì: dopo vent'anni ci sono tre italiani in concorso al 68esimo Festival di Cannes (ventuno per la precisione: era il 1994 ed erano Mario Brenta, Aurelio Grimaldi, Una Pura Formalità di Tornatore e Caro Diario di Nanni Moretti), e i tre italiani sono il Moretti (ancora) che abbiamo visto tutti e gli attesissimi (ma recitati in inglese) Matteo Garrone e Paolo Sorrentino – due abitué: insieme, furono premiati nel 2008, per Gomorra il primo (Gran Premio), per Il Divo il secondo (Premio della Giuria); due anni prima, insieme a Il Caimano di Moretti, Sorrentino presentava L'amico Di Famiglia; quando Reality vinse il secondo Gran Premio di Garrone, era Nanni a presiedere la giuria (e rispondere alle accuse di patriottismo). Insomma: gira e rigira sono sempre gli stessi: e infatti ci sono: due Palme d'Oro (ancora Moretti!, con La Stanza Del Figlio, e Gus Van Sant con Elephant); due Palme alla Regia (ancora Moretti!, con Caro Diario e ancora Van Sant, ancora con Elephant); tre Gran Premi, i due di Garrone e Il Profeta di Jacques Audiard; quattro Premi della Giuria: The Puppetmaster di Hou Hsiao-Hsien del 1993, Polisse di Maïwenn del 2008 (tutto questo parlare delle donne in questa edizione: di una donna è il film d'apertura, «per la prima volta di una donna!» dice il comunicato stampa, ma il Web ha prontamente smentito: era di donna Un Uomo Innamorato che aprì Cannes '87; e ben due donne nel concorso – l'altra è Valérie Donzelli), Il Divo di cui prima e Like Father, Like Son di Kore-eda Hirokazu del 2013; due Migliori Sceneggiature: l'Audiard di Un Héros Très Discret e Jia Zhang-ke de Il Tocco Del Peccato; Todd Haynes vinse il Premio al Contributo Artistico per Velvet Goldmine (1998), Denis Villeneuve ebbe il Grand Prix alla Semaine de la Critique con il cortometraggio Next Floor del 2008 e infine sia Yorgos Lanthimos che Michel Franco hanno vinto l'Un Certain Regard il primo con Dogtooth (2009), il secondo con Después De Lucía (2012). A poter ricevere la Camera d'Or, il premio al miglior esordio che va a pescare in tutte le sezioni competitive (vedere il fondo dell'elenco), con una giuria tutta francese, sarebbe solo l'ungherese László Nemes con Saul Fia: l'unico debuttante in mezzo a tanti ancient mariner; ma potrebbe vincere la Camera anche Natalie Portman (il cui marito ricordiamo è direttore del balletto dell'Opera di Parigi), con A Tale Of Love And Darkness tra le proiezioni speciali (mamma quante donne!) anche se sono i film fuori concorso a catalizzare le attenzioni: dal certo campione d'incassi Mad Max: Fury Road a quello che si prospetta essere il capolavoro assoluto mai sfornato dalla Pixar, Inside Out, passando per l'ennesima pellicola di Woody Allen, Irrational Man, con la neo-musa Emma Stone e Joaquin Phoenix. Gli italiani però sono quattro: e va a finire che l'attesa si sposta tutta su Roberto Minervini, di cui il Corriere parlò settimane fa, italiano emigrato negli USA pre-11 settembre (cui ha latentemente assistito) con il documentario Louisiana - The Other Side; «è lui il cineasta italiano da battere» scrive Mauro Gervasini nell'editoriale di Film TV. Ingrid Bergman sul manifesto perché questa è l'edizione delle donne (!) ma Cannes Classics guarda al centenario dalla nascita di Orson Welles, alla morte di Manoel De Oliveira e al film depositato da vedersi postumo; una versione restaurata di Rocco E I Suoi Fratelli, fra le altre cose, e poi gli esperimenti dei Lumière, tributo alla nascita del cinema, per la cui occorrenza i presidenti di giuria sono due, fratelli: Joel & Ethan Coen, cui si aggiungono Guillermo Del Toro e Rossy De Palma, Sophie MarceauJake Gyllenhaal, e Xavier Dolan che alla fine della kermesse andrà a dirigere Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel e Gaspard Ulliel in Juste La Fin Du Monde. Ma questa è un'altra storia: di seguito, dopo l'interruzione, tutti, tutti, ma proprio tutti i film del festival “più grande del mondo”.

venerdì 8 maggio 2015

by the pound.



Cake
id., 2014, USA, 102 minuti
Regia: Daniel Barnz
Sceneggiatura originale: Patrick Tobin
Cast: Jennifer Aniston, Adriana Barraza, Anna Kendrick,
Sam Worthington, Mamie Gummer, Felicity Huffman,
William H. Macy, Chris Messina, Lucy Punch, Britt Robertson
Voto: 5.9/ 10
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Ah!, gli americani: hanno tra le mani una buona storia, non originalissima, buona, un bel personaggio femminile, e pensano subito che l'attrice potrebbe vincere un sacco di premi, ma per vincere i premi il film deve incassare un sacco (vedi The Imitation Game), per incassare un sacco la gente deve preferire il cinema alla TV, e si sa quanto le serie abbiano battuto il grande schermo in trame, originalità, a qualità ormai paritaria; per cui: la storia buona, non originalissima, bisogna che galoppi, che scorra veloce veloce senza annoiare il pubblico – anche perché è un dramma materno con un personaggio femminile antipatico, per carità! – e il pubblico deve trovarci quello che s'aspetta: la redenzione alla fine, qualche patimento nel mezzo, magari un rapporto (diventerà sentimentale?) con l'uomo sbagliato, o almeno sbagliato su carta. Eppure Cake (ma le torte sono due) è una storia interessante già dal titolo: non originalissima, ma buona anche nel modo in cui si sviluppa: Claire Bennett ci viene presentata nel cerchio di sedie del gruppo di supporto per dolori cronici, moderato da Felicity Huffman non più Lynette Scavo (attenzione farà capolino poi anche suo marito William H. Macy, suo marito nella vita, evidentemente entrambi amici del regista Daniel Barnz visto che hanno parte della filmografia in comune), dove si distingue per arroganza, dipendenza dalla rabbia, mancanza di filtri nell'esprimere giudizi: vomita nel cerchio gli scheletri nell'armadio di Anna Kendrick, buttatasi da un ponte con consapevolezza, con a casa un marito e un figlio: sarà la sua ossessione: la moglie e madre perfetta all'apparenza, la figlia dell'America, che schiacciata da chissà quale demone più grande decide lontana da ogni pronostico altrui di suicidarsi. Niente di originale, certo: niente di originale nemmeno nella protagonista arrogante, arrabbiata e senza filtri. Ma Claire è, oltre a tutte queste cose, handicappata fisicamente: con ferri nelle gambe, una fisioterapia dolorosissima, l'incapacità di dormire senza drogarsi e poi ancora un marito che c'è e non c'è – sicuramente c'era, adesso ci sono una sequela di uomini senza nome dall'amplesso veloce… C'era anche un figlio… Prima del più pretenzioso progetto La Scomparsa Di Eleonor Rigby, sono stati tanti, sterminati i film che hanno parlato della perdita di un figlio e dell'elaborazione del lutto da parte dei genitori: come quello, questo vede la coppia dividersi e perdere la comunicazione, come in questo, la causa della morte fa capolino ma senza ricevere ampia accettazione alla pari di Rabbit Hole. Tutto ruota solo attorno a Claire: benestante, con una domestica che le fa anche da balia, unica a nutrire un barlume di sentimento (Affetti & Dispetti – ma sono tanti altri i film sulla padrona di casa dispotica e l'inserviente magnanima), finge di voler ricominciare a vivere ma sa perfettamente di non fare niente per farlo. L'incursione del vedovo da cui diventa dipendente, ossessionata già com'è dalla defunta moglie di lui, è ciò che di più americano la sceneggiatura potesse partorire: ma grazie a Dio non si spinge troppo oltre: o purtroppo, se consideriamo la fretta con cui i due si conoscono, il nulla con cui si perdono, la velocità fra i giorni che non passano insieme. Se invece di 102 i minuti fossero 201, senza la paura di annoiare il pubblico con i silenzi che tutti i personaggi cercano qui di evitare (a meno che non facciano pathos) sicuramente il personaggio protagonista sarebbe talmente approfondito da apparire meno banale di quello che sembra – perché in fondo banale non lo è, a differenza dalle facili metafore dell'acqua della piscina, o delle oniriche scene-visioni. Benedetta dai Razzie Awards dove, dopo quattro nominations, ha ottenuto quest'anno quella di redenzione grazie alla candidatura ai SAG – ma il premio è andato a Ben Affleck – Jennifer Aniston si riscopre attrice drammatica e ci convince nella migliore delle sue performance, snobbata dagli Oscar, dove invece la co-star Adriana Barraza fu candidata per Babel: indimenticabile in quel ruolo di colf della coppia Pitt-Blanchett, trascurabile qui nella macchietta alla Devious Maids.

il film svedese.




Forza Maggiore

Force Majeure, 2014, Svezia/ Francia/ Norvegia, 118 minuti
Regia: Ruben Östlund
Sceneggiatura originale: Ruben Östlund
Cast: Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren,
Vincent Wettergren, Kristofer Hivju, Fanni Metelius, Brady Corbet
Voto: 8.8/ 10
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La famiglia Mulino Bianco è in vacanza sulle Alpi Francesi dedicando le giornate intere allo sci e le sere agli intrattenimenti alberghieri, in questo albergo di lusso che intravediamo fra corridoio e stanze tutte di legno, addobbi monocromatici a tinta unita come anche le tute da sci, i pigiami, i vestiti. Questo accorgimento fotografico (palese nelle scritte della locandina) si affianca a quello ambientale: le Alpi, i monti in generale, le nevi e le nevicate, vengono inquadrati come fenomeni mistici quali in effetti sono, con il piglio della curiosità per le carrucole, le impalcature, gli strumenti del mestiere quando sono guardati da un profano. Ad esse si aggiunge la musica: un'irruenta musica classica che fa da sfondo alle tensioni incipienti o agli eventi atmosferici, messa lì al punto giusto quando dobbiamo essere confusi. Questo è il contorno del film dal doppio titolo, Turist e Forza Maggiore, entrambi azzeccatissimi ma sicuramente di più il secondo. La forza maggiore è quella naturale, cataclismatica, delle valanghe di neve incontrollate a cui non si può far altro che assistere. La famiglia Mulino Bianco targata Ikea vi ci assiste una mattina a pranzo sulla terrazza del ristorante dell'albergo insieme a una folla prima incuriosita, poi videoreporter dell'accaduto attraverso smartphone e telecamerine (torneremo dopo sul dettaglio), poi terrorizzata nel constatare che la nube di vapore si fa sempre più grande e sempre più vicina (vedere nuovamente locandina). Tomas, il padre di famiglia, afferra guanti e iPhone e scappa dal locale, lasciando la moglie e i due bambini under 15 a urlare in mezzo a questa nebulosa bianca e in mezzo a queste urla generali. La telecamera è ferma: ci dimostra come il fenomeno sia di passaggio, tanto la valanga quanto la paura, perché poi tutto torna come prima, e i commensali si risiedono alle proprie sedie e ritornano a mangiare. Ma non è tornata come prima la situazione familiare: Ebba Mulino Bianco la sera a cena aprirà l'argomento raccontando a un'amica (e alla presenza di tutti) le vicende dell'accaduto, sottolineando la posizione codarda e vigliacca del marito, che ha preso guanti e iPhone ed è scappato lasciando i figli. Lui cercherà di giustificarsi. Ma la sera dopo, ancora a cena, con altri ospiti, Ebba tornerà sulla questione, dimostrando con video il comportamento, al quale Tomas non può più controbattere; il germe della diatriba si sposterà da una coppia all'altra, riflettendo su come ci si comporta d'impulso quando si ha paura, quando si esprime davvero la propria natura. Tomas adesso dovrà riappropriarsi del ruolo di maschio e patriarca della famiglia, i bambini dovranno mettere a tacere i pianti e le ansie del divorzio imminente, Ebba preferirà sciare da sola per trovare risposte alle proprie domande. La crisi si consumerà ancora meglio nel corridoio dell'albergo, dove il grottesco toccherà vette altissime: i pianti, le urla, le risposte fuori luogo – questo film brilla per una comicità inaspettata e infilata in ogni anfratto, magistralmente bilanciata dall'aspetto serio e psicologico dei suoi attori, calibrata con immagini ferme, mature, musiche giuste, interpretazioni asciutte, una trama evanescente e dialoghi realistici, specchio dell'incomunicabilità umana e dell'impossibilità di apparire prima di essere, delle relazioni in bilico su poche parole, del fare prima del dire. Si ride tantissimo, spesso ci si sbellica senza sapere il perché, eppure si esce dalla sala (complice anche un'indecifrabile scena finale) spaesati, messi in disparte mentre la storia si sviluppava, privi degli strumenti per cogliere appieno ogni immagine, ogni scena. Il film sembra costantemente volerci dire altro, ma magari non ha questo intento: certamente si celano riferimenti che immediatamente non cogliamo: Ruben Östlund, fan sfegatato della viralità di YouTube, è partito proprio dal filmato di una valanga per ricostruire il suo climax cinematografico – ma anche la conclusione deriva da un video virale. Da qui la costante presenza, l'ossessione della telefonia, e l'iPhone come primo reperto da salvare in caso di necessità: tutta è una finzione, tutto un video, tutto è costruito e montato – a cominciare dalla foto di famiglia dell'incipit, e dalla felicità che dovrebbe racchiudere. Passato da Cannes, da Toronto, da Torino, è arrivato agli Oscar 2015 dove ha visto una speranza nella shortlist di gennaio, e poi: nessuna assurda candidatura.

tremate, tremate.



Le Streghe Son Tornate
Las Brujas De Zugarramurdi, 2013, Spagna/ Francia, 112 minuti
Regia: Álex de la Iglesia
Sceneggiatura originale: Jorge Guerricaechevarría & Álex de la Iglesia
Cast: Hugo Silva, Mario Casas, Pepón Nieto, Carolina Bang,
Terele Pávez, Jaime Ordóñez, Gabriel Ángel Delgado,
Santiago Segura, Macarena Gómez, Javier Botet,
Carmen Maura, Secun de la Rosa, Enrique Villén, Julián Valcárcel
Voto: 8/ 10
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C'è una ragazza in motocicletta e due donne in un antro: un calderone, un ventaglio di carte: ci sono un orso appoggiato a un albero, Gesù crocifisso, un verde soldatino di piombo, una spugna marcia (si capirà poi di che natura), Minnie e il bambino, l'eletto. Questi, mimi artistoidi in piazza, sono in realtà minuziosamente d'accordo per saccheggiare un Compro Oro, rubare una cesta di fedi nuziali fonte di promesse infrante, sofferenze, rimpianti, rancori – ma anche fonte di denaro; la polizia interviene, inizia una corsa contro il tempo e la frontiera. Il Cristo e suo figlio e il soldato verde salgono su un taxi prendendo involontariamente in ostaggio un lamentoso innocente e il conducente: tutti accomunati dalla perdita di identità, forse anche di virilità, a causa delle donne: che chiedono l'affidamento del bambino dopo il divorzio, che hanno vantaggi lavorativi, legali, sociali – è questo il tema di fondo di tutto il film: gli uomini e le donne, spaccato sociale in cui i primi soccombono e reagiscono come possono, le seconde in realtà hanno natura diversa e antica e autonoma. Dopo la prima sequenza, che passerà alla storia per ritmo, ironia, composizione, brillantezza dei dialoghi, cambiamo genere: una trattoria fetida prima dei Paesi Baschi, in questa fuga verso Disneyland per spartirsi il bottino, con alle calcagna gli sbirri e una moglie; un occhio che spunta dal buco del cesso, un piede nel calderone per fare il brodo – e poi magicamente la vecchia locandiera è nel mezzo della strada dopo che i nostri eroi se ne sono andati, in macchina: e poi un'altra donna, che si farà accompagnare a casa, un castello di quelli che ci aspettiamo nelle fiabe o nei racconti del terrore. E cambiamo ancora genere, sfociando nel grottesco più splatter, senza mai lasciare i toni della commedia, ma neanche quelli del thriller, mentre per tutta la pellicola il tempo della storia coincide con quello del racconto: affannato, pieno di intoppi a cui rimediare, domandandosi se si arriverà effettivamente a destinazione o no. Le streghe del titolo sono interessate agli anelli: ma anche alle anime degli uomini, e alla loro carne, perché la mangiano. Degli uomini non vedono utilità diversa dal sesso estremo, dalle pratiche più divertenti (il fisting, il bondage) perché il vero sballo è drogarsi e inneggiare alla Grande Madre: invocazioni che odorano del più serio esoterismo, delle leggende al riguardo, dei sabba non satanici, ancora una volta: le donne che vanno per la loro strada e gli uomini che cercano di costruirsene una propria, senza riuscirci. Dopo la parentesi americana di Oxford Murders e il capolavoro La Comunidad, che pure era un pastiche di trovate, ma quasi totalmente priva di esagerazioni splatter, e in cui pure figurava Carmen Maura tutto il tempo con un unico vestito, il genio di Álex de la Iglesia torna ai toni dell'on-the-road Perdita Durango, ricalcando anche alcuni di quei riti religiosi e/o mistici di coprofagia, senza però strafare in disgusto visivo, o eccessivo erotismo. Ma con il giusto gusto estetico, delle scenografie e del trucco, e qualche effetto speciale (forse) volutamente posticcio. Apparentemente demenziale, troppo grottesco, ridicolo, immeritevole della nostra attenzione, le streghe di Zugarramurdi (teatro di persecuzioni e sacrifici durante l'Inquisizione) nascondono in realtà un feroce, o disincantato, attacco al nostro presente: alla religione, soprattutto iberica, a partire dal Cristo armato di fucile con un figlio immischiato nella rapina; la rapina stessa, in un locale metafora della crisi economica che noi (e loro) stiamo vivendo; l'identità della coppia, ormai privata di vincoli effettivi se non esterni alla propria persona. Inconsapevoli di ciò, però: ci sganasciamo.

mercoledì 6 maggio 2015

Otello senz'acca.



Un solo Oscar: nel 1942 per la sceneggiatura di Quarto Potere – ma fu il primo caso di attore, regista, sceneggiatore e produttore dello stesso film candidato in tutte le categorie: e aveva venticinque anni! Dopodiché, ignorato dall'Academy fino alla morte (1985) ma una decina di anni prima di essa un premio speciale: «per la superlativa arte e la versatilità nella creazione di film»; non era presente alla cerimonia e il discorso di accettazione fu registrato. Eppure, scansato solo qualche stagione fa da La Donna Che Visse Due Volte di Hitchcock, Quarto Potere è stato considerato a lungo il miglior film della storia del cinema: e Orson Welles uno dei migliori registi. Ironico: quella pellicola d'esordio cominciava con l'avviso su un cartello, no trespassing, e l'autore (spesso e regista e sceneggiatore e interprete) dal secondo film in poi, da L'orgoglio Degli Amberson in poi, ha sempre avuto difficoltà enormi a trovare finanziamenti per i suoi progetti – al punto da dover aprire mutui, o domandare denaro agli strozzini. Ma di film ne ha fatti: L'infernale Quinlan si apre con il più commentato, imitato, celebrato pianosequenza della Storia: da poco ripulito dei titoli di testa posticci. L'ossessione (magnifica) che aleggiava su ogni cosa era però per Shakespeare: ne ha interpretato quasi tutti i ruoli, prediligendo sicuramente Falstaff, e lasciandosi contaminare dal dialoghista inglese pure per i ruoli non suoi, Kane, Arkadin… L'ossessione era anche per il miliardario Howard Hughes, figura davanti alla quale si erge il protagonista di Quarto Potere e dietro al quale Welles ha girato un celeberrimo documentario, F For Fake, Verità E Menzogne in italiano: quelle menzogne che hanno caratterizzato una carriera intera, che adesso lo vedrebbe compiere cent'anni (6 maggio 1915), che sono cominciate con l'avviso radiofonico dello sbarco degli alieni («sarei dovuto finire in prigione e invece sono finito a Hollywood») e sono proseguite, tra le tante cose, nelle scuse al telefono per non presentarsi sul set de Il Terzo Uomo: Carol Reed aveva già cominciato le riprese e Wells si faceva la vacanza a Parigi, costringendo la troupe a utilizzare controfigure per le rinomate silhouette e per le riprese dei dettagli. Insieme a Shakespeare considerava “migliore” in assoluto solo Mozart – nel cinema solo D.W. Griffith, «il padre fondatore». Ebbe la femme fatale che dopo il '46, anno di Gilda, desiderava ogni uomo, Rita Hayworth: le tagliò i capelli (biondi!) e le regalò il ruolo da protagonista nel criptico La Signora Di Shanghai – e una figlia, Rebecca; una prima moglie, Virginia Nicholson, e una relazione successiva con Dolores del Río, co-protagonista in Terrore Sul Mar Nero, per poi approdare fra le braccia della sceneggiatrice Paola Mori. Adesso lo si rimpiange, e si cerca di rimediare agli errori di montaggio per mano altrui: «hanno tagliato venti secondi [de L'orgoglio Degli Amberson, ndr] spaccando il pianosequenza della scena del ballo che durava tutto un rullo»; «nella mia versione [di Rapporto Confidenziale, ndr] Arkadin è visto come un ubriacone russo quasi piagnucoloso»; lo rimpiange l'America che apparte Quinlan non l'ha praticamente mai accettato, dopo gli esordi, facendolo emigrare in europa. Tre volte a Cannes: Palma d'Oro (all'epoca Gran Premio del Festival) per Otello nel 1952, miglior attore per Frenesia Del Delitto di Richard Fleischer (1959), con Falstaff Premio del 20esimo Anniversario e Gran Premio Tecnico; tre volte a Venezia, ma in gara solo con Il Processo, e poi premiato alla Carriera nel 1970; una a Berlino, con Storia Immortale (1968); due stelle sulla Walk Of Fame, entrambe targate 8 febbraio 1960, la prima per il cinema e la seconda per la radio. Sesto classificato nella lista delle più grandi star del cinema di tutti i tempi secondo l'American Film Institute, primo regista in maestria secondo il British Film Institute nel sondaggio del 2002 – eppure oggi, a cent'anni dalla sua nascita, Google non gli dedica un doodle. Lo vogliamo ricordare nel cameo inaspettato di Ecco Il Film Dei Muppet (1979), da poco riproposto in DVD col titolo Tutti A Hollywood Coi Muppet: gridava alla segretaria: «porta a Kermit il contratto per diventare stella del cinema».


lunedì 4 maggio 2015

il mestiere delle armi.



Child 44
– Il Bambino Numero 44
Child 44, 2015, USA/ UK/ Repubblica Ceca/ Romania, 137 minuti
Regia: Daniel Espinosa
Sceneggiatura non originale: Richard Price
Basata sul romanzo Bambino 44 di Tom Rob Smith (Sperling & Kupfer)
Cast: Tom Hardy, Gary Oldman, Noomi Rapace,
Paddy Considine, Vincent Cassel, Xavier Atkins, Joel Kinnaman,
Mark Lewis Jones, Fares Fares, Agnieszka Grochowska
Voto: 5/ 10
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Inspiegabilmente promosso dai maggiori portali web italiani, a indagare meglio si trova, di Child 44, solo chiacchierare negativo: dal 23% di recensioni positive su Rotten Tomatoes alle bocciature senza troppe riserve dei nostri quotidiani: «il film dimostra che non sempre da un signor romanzo (…) si ricava un adattamento all’altezza. Colpa, qui, del regista Espinosa, incapace di dare un vero centro ad una pellicola poco emozionante che finisce per dipanarsi su due trame sviluppate in maniera quasi indipendente tra di loro, almeno fino all’inevitabile incrocio finale dal sapore farsesco» (Maurizio Acerbi, Il Giornale). Le due trame, effettivamente separate a lungo luna dall'altra, hanno da una parte la frettolosa crescita in orfanotrofio di Leo, il suo arruolamento nell'esercito e la foto con patriottica bandiera scattata per la gloria – il matrimonio con Noomi Rapace, le lontananze sentimentali (di lei, che non condivide i metodi poco ortodossi del marito), il mestiere delle armi e lo strato di menzogne, sotterfugi, raccomandazioni che lo sovrasta. Siamo nella Russia sovietica angosciata dal timore di ogni cosa, gestita dalla polizia segreta e impulsiva nel riportare all'ordine. Dall'altra parte, la seconda trama, parte dal ritrovamento del corpo di un bambino, nudo, privato di stomaco, figlio di un collega, un fratello di Leo: per ordinanza viene scritto nel rapporto che si tratta di incidente, causa treno, e a fatica tutti annuiscono, padre incluso; ma un secondo corpo, un terzo, una sequela di bambini ammazzati innestano in Leo il morbo del dubbio prima, quello della disubbidienza poi: la moglie riscoprirà il sentimento, la coppia sarà in fuga. A questo punto «alla caccia a un serial killer russo piegato dall'atroce “educazione nazista” e diventato torturatore di bambini, aggiunge più azione (confusionaria al limite dell'incomprensibile) e un impianto da melodramma storico, calligrafico e ricattatorio, dove i temi della coscienza e delle brutture dello stalinismo sono strillati con maldestra enfasi» (Adriano Aiello, FilmTV). L'unica cosa chiara è che a muovere tutti i personaggi-marionette sia il terrore, la paura verso il sistema: Leo e la moglie Raïssa scoprono, insieme ai sentimenti, una carica violenta ingiustificata che rotolando su se stessa porterà al sottofinale tirato dai capelli nel fango e al finale dalla più farsesca banalità: in un treno, una lotta due-contro-tutti ricorda l'eccesso in tutti i sensi di Snowpiercer, a partire dalle dita nei bulbi oculari. Peccato che dietro ci sia una minuziosa ambientazione, memore, ad esempio, di Cold Mountain e tutti quei film bellici dei grandi spazi, della fotografia scura – e una musica, di Jon Ekstrand, da mini-kolossal nostalgico – e dentro ci siano attori del calibro di Gary Oldman (la cui presenza non deve far pensare al criptico La Talpa: qui non c'è minuzia narrativa ma confusione pura); Tom Hardy apre la bocca a malapena quando parla e Vincent Cassel fa da capofila per una serie di attori non anglofoni che parlano un inglese sporco, wannabe russo – ma il doppiaggio unifica come sempre il tutto verso un perfettamente a-spaziale italiano. Thriller «artificioso», «debole», «quasi totalmente privo di emozioni» che ha più il sapore «storico ed enfatico» del «melò – il complotto spionistico è vecchio come la convergenza parallela delle dittature, mentre il complotto manca di qualche passaggio – in cui tutti fanno brutta figura nei confronti della Storia, anche se il finale, dopo 137 interminabili minuti, finge di lasciarci una speranza» (Maurizio Porro, Il Corriere Della Sera). Accusato di stravolgere l'effettivo corso storico (ma manca la morte di Stalin il 5 marzo, l'esecuzione per tradimento del successore Beria il 26 giugno) il film, programmato anche per l'uscita nella Mosca di Putin, è sparito dalla circolazione.