lunedì 30 marzo 2015

obama.



La Famiglia Bélier
La Famille Bélier, 2014, Francia/ Belgio, 100 minuti
Regia: Eric Lartigau
Soggetto: Victoria Bedos
Sceneggiatura: Victoria Bedos & Stanislas Carré de Malberg
Ispirata al romanzo Les Mots Qu'on Me Dit Pas di Véronique Poulain
Adattamento: Thomas Bidegain & Eric Lartigau
Cast: Louane Emera, Karin Viard, François Damiens,
Eric Elmosnino, Roxane Duran, Luca Gelberg, Ilian Bergala
Voto: 7.4/ 10
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«I film francesi di successo in Italia arrivano tutti» dice Virna Lisi, con una punta di veleno, in un altro film presente in sala; e questo è l'ennesimo, che arriva da noi, ennesima commedia campione d'incassi in patria – per una volta che vola (soffermarsi sull'uso del verbo) basso, che vede Parigi come meta lontana e si consuma nelle campagne, spostandosi dal pane di Gemma Bovery alle mucche di una famiglia di sordomuti che per vivere produce formaggio. Paula Bélier, bélier come montone, figlia maggiore del nucleo di quattro, è l'unica in grado di sentire e parlare per cui tramite verso i fornitori, i commercianti, i clienti del mercato, i giornalisti che vengono a filmare una giornata tipo nella fattoria. Sveglia presto alla mattina, fieno alle mucche, concerto di stoviglie e tegami in cucina che lei soltanto si sorbisce e poi a scuola, come tutte le ragazzine delle medie: un misterioso taciturno belloccio che si vergogna di guardare, un'amica più lasciva che se li è fatti praticamente tutti, lo spagnolo che non s'impara e un corso a scelta: e sceglie il coro, dove – dopo peripezie silenziose – esploderà una voce «pepita d'oro» da affinare ma che potrebbe andare lontano. Ex concorrente di The Voice francese e con un disco, Chambre 12, uscito questo marzo, Louane Emera è la punta di diamante di un cast azzeccatissimo; è un'adolescente alle sue prime mestruazioni, che combatte la cattiveria scolastica verso i suoi genitori disabili, che si carica più del peso che dovrebbe, in casa, che vive il sentirci come una condanna, a detta della madre, che «quelli che ci sentono» non li ha mai potuti sopportare. Ma affronta tutto con la forza che gli adolescenti non sanno di avere, perdendosi nelle minuzie in classe, «rompendosi» di fare un provino, come le nostre Meraviglie ma al contrario: perché sarà il padre a voler gareggiare, scendendo in politica per il bene della comunità (e non dei singoli cittadini), dimenticandosi dell'età della figlia femmina, mettendole il broncio, dicendo infine «avremmo dovuto prendere un aiuto tanto tempo fa». Con un insegnante di musica un pelo frustrato, memore forse de Les Choristes (la separazione dei tenori dai contralti sarà una citazione?), un insegnante diciamo in versione più moderna, Paula spiccherà il volo e non la fuga attraverso il classicissimo repertorio di Michel Sardou abbandonando – anche solo col pensiero – il nido di cui si è presa così tanta cura. Non è, questo, certo, un terreno inesplorato: di film adolescenziali sulla ricerca (e il ritrovamento) di sé e dei propri doni, lo svezzamento sessuale, Le Meraviglie in primis, con canzoni alla Disney Channel, poi, ne è pieno il mondo. Ma in questo caso, all'originalità del linguaggio dei segni, causa e soluzione di tanti divertissements, di tante scenette comiche, padroneggiato in maniera egregia (l'accendersi e spegnersi della lampada per attirare l'attenzione, la mano sulla gola per carpire i tempi di una canzone), fotografata nel suo essere e non nel suo essere un problema, un disagio sociale, una condizione di compatimento o scherno, seppure i ragazzini ci scherzano sopra – all'originalità dei personaggi sordomuti, dicevo (immensi Karin Viard e François Damiens, lei svampita spontaneamente, lui orso intransigente), si aggiunge un'audacia nei dialoghi, una libertà soprattutto nell'affrontare i veri temi cardine dello sviluppo: il sesso innanzitutto, fondo di quasi ogni discorso, il sesso dei genitori che non sentono il chiasso che fanno, il sesso dei ragazzi che non sanno dove finisca e credono di consumarlo negli spogliatoi a scuola, il sesso dei più piccoli che per la prima volta mettono un preservativo. Su una sceneggiatura a plurime mani tanto ruffiana quanto solida, il regista dell'episodio Lolita de Gli Infedeli e del più celebre Prestami La Tua Mano fa centro colpendo piccoli e meno piccoli, nostalgici della periferia e allergici ai cellulari, genitori e figli, confezionando una pellicola composta, educata, sobria, divertente, commovente, non troppo seria e grezza come una pepita d'oro.

soldi e bambini sporchi.



Trash
id., 2014, UK/ Brasile, 114 minuti
Regia: Stephen Daldry
Sceneggiatura non originale: Richard Curtis
Con la collaborazione di Felipe Braga
Basata sul romanzo Trash di Andy Mulligan (Rizzoli)
Cast: Rickson Tevez, André Ramiro, Gabriel Weinstein,
Eduardo Luis, Selton Mello, Wagner Moura, Rooney Mara,
Martin Sheen, Jesuíta Barbosa, Maria Eduarda
Voto: 6/ 10
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C'era una mattina un uomo, che si svegliò e diventò regista di capolavori, nell'ordine: Billy Elliot (che valse la nomination all'Oscar a lui e alla sua attrice non protagonista), The Hours (Oscar all'attrice protagonista), The Reader (Oscar all'attrice protagonista), Molto Forte, Incredibilmente Vicino che la critica americana guardò col naso arricciato e adesso Trash, che la critica americana non ha proprio visto – perché Stephen Daldry è regista inglese e ha sempre mantenuto forte il suo approccio british alle storie – per cui sorprende che si sia spostato nelle favelas latine per ambientare (in tutti i sensi) la sua ultima fatica, faticosa e ambientata anche a livello di cast, a livello linguistico – è servito Felipe Braga ad adattare i dialoghi di Richard Curtis, quello-di-Quattro Matrimoni E Un Funerale – e sorprende che il film sia stato candidato ai BAFTA, che sono british, come film straniero: perché da noi il portoghese è doppiato in italiano e l'inglese resta tale pasticciando l'accento della proto-volontaria insegnante dipartita Rooney Mara, il cui nome capeggia sulla cover insieme a quello di Martin Sheen ma effettivamente personaggi (lei come lui) marginali, di supporto a una trama con altri tre baby-attori. I quali, ex sconosciuti, realmente originari delle favelas, seriamente immischiati nello sporco lavoro della discarica e della spazzatura, parlano portoghese tutto il tempo, che nella versione originale non crea disagi con le battute in inglese – tutto questo per dire che il film: non va visto doppiato. Esce mercoledì 25 marzo in DVD (€ 14,90) e Blu-ray (€ 18,90) e porta sullo schermo la storia di soldi e bambini sporchi del romanzo per ragazzi omonimo di Andy Mulligan: altro problema; i romanzi per ragazzi, così alla Dickens, così poveracci come Oliver Twist o, mi si lasci il termine, maratoneti come Hucklebarry Finn, bambini-adulti cresciuti in miseria e baracca, con un linguaggio grezzo e l'educazione rozza, ma soprattutto i romanzi d'avventura portati all'eccesso, che portano i ragazzini alla scoperta di tesori, di denari rubati, di tombe profanate, addirittura, come in questo caso, di corruzione dentro le forze dell'ordine brasiliane (ma già ce ne aveva parlato il campione d'incassi Tropa De Elite – Il Nemico È All'interno), funzionano forse su carta, in quanto libri d'avventura per ragazzi, e lasciano alienati gli spettatori di un “film d'autore”, come si dice. Filmicamente eccelso: che mescola sapientemente passato e futuro col presente, che usa escamotage di luogo o di tecnica narrativa per farci vedere eventi successi o che decifreremo dopo, eccelso anche nell'utilizzo dei suoi attorini e nell'inseguirli con la telecamera attraverso fognature e discariche, di corsa lontano dai poliziotti. Sono Raphael, Gardo, Rato: uno di questi trova un portafogli tra la spazzatura in cui passano tutto il giorno, a smistare: nel portafogli ci sono dei soldi, un santino di Francesco (il frate, non il papa), una foto, dei numeri sul retro, una chiave: strumenti da videogioco per districarsi nel livello e accedere al successivo. La polizia compare e offre una ricompensa in cambio di quell'enigmatico bottino, ma i bambini non scendono a compromessi. Facendosi aiutare dai preti e dagli idealisti e dai carcerati o facendo per conto loro, ricostruiscono il puzzle di eventi e personaggi e morti per finta che porta a una quantità smaniosa di denaro. La locandina anticipa cosa ne faranno. La reale condizione dei poveracci, in Brasile, si scontra con le classi superiori e il cinema ha cercato di raccontare questo divario apertissimo; in questo caso non solo non ci riesce: neanche ci prova. Manca qualsiasi spinta etica, sentimentale, nel condannare la corruzione o nel dipingere la forza di chi arranca o chi aiuta: i missionari sono marionette patetiche che compaiono e scompaiono, i ragazzini sono illuminati da un'arguzia divina. La tensione c'è, nonostante la sceneggiatura sia scritta da un esperto di commedie romantiche, ma pare non esploda mai; pare un film abbozzo: a cui manca una riscrittura.

domenica 29 marzo 2015

lo zittone.



Home – A Casa
Home, 2015, USA, 94 minuti
Regia: Tim Johnson
Sceneggiatura non originale: Tom J. Astle & Matt Ember
Basata sul romanzo Quando Gli Alieni Trovarono Casa
di Adam Rex (Il Castoro)
Voci originali: Jim Parson, Rihanna, Steve Martin, Jennifer Lopez,
Matt Jones, Brian Stepanek, April Lawrence, Stephen Kearin
Voci italiane: Nanni Baldini, Maria Letizia Scifoni, Marco Mete,
Monica Ward, Simone Crisari
Voto: 6.7/ 10
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L'aliena specie-stampino dei Boov, tutti rigorosamente uguali con un sovrano leggermente più riconoscibile degli altri, pastore fiero di un gregge fiero della sua pastorizia, è in fuga, perennemente in fuga, specializzata nella fuga da una specie aliena che si chiama Gorg, per cui puntano a colonizzare la Terra spostando tutti gli esseri (umani) viventi nella sola ristrutturata Australia – sì, anche io noto certe somiglianze con Mamma, Jamie Ha I Tentacoli! Abitué del trasloco, nel debolissimo e frettoloso incipit (al quale credono i bambini ma gli adulti no, per i quali ci sarà una riproposizione più matura dopo) i Boov s'impossessano delle case terrestri venendo a contatto con tutta una serie di oggetti che decreteranno inutili, dalle biciclette (visto che hanno multiple piccole gambette) ai water/ contenitori di limonata, in una serie di scenette sul riuso creativo degli elettrodomestici per far ridere chi ci casca. Diverso a partire dalla password non omologata della sua plurima tecnologia, Oh organizza una festa nella casa nuova alla quale non partecipa nessuno: manda l'invito al suo (non) migliore amico ma per «cattivo design» il bottone “invia a uno” è di fianco a “invia a tutti”: inclusi i perfidi Gorg che quindi, se ricevessero la mail animata, scoprirebbero la nuova posizione degli alienotti. Oh diventa un fiuggitivo maldestro, e nella sua fuga si imbatte in Tip, un'adolescente trasferitasi dalle Barbados e con difficoltà inseritasi nelle classi medie, unica umana superstite in città, strappata a sua madre di cui non ha notizie – ma che è stata trasferita come tutti in Australia. L'odio di Tip per gli alieni e la necessità di Oh di nascondersi e il bisogno di entrambi di scappare li porteranno in un tour (de force) attraverso Parigi e le più note capitali, ribaltate dei loro monumenti, su un'utilitaria caricata a succo e nachos. Già pronto l'anno scorso ma rimandato per lasciare il campo libero a Dragon Trainer 2 (vedi alla voce: chi non ha vinto l'Oscar), uscito in patria con un incasso di 15.6 milioni di dollari il primo giorno, a sorpresa, il più alto dai tempi di Madagascar 3 (2012), manna dal cielo per le difficoltà economiche in casa DreamWorks, Home non è un film sulla casa come direbbe il sempliciotto titolo, ma sulla famiglia, sulla specie di appartenenza: al solito, sono due diversi a incontrarsi: una pecora nera del gregge e una bambina mulatta tra i bianchi; le diversità, l'agire fuori dagli schemi, al solito, fruttano positivamente se si è spinti da buone intenzioni. Ce lo conferma la metafora sul «sentire le stelle» e non «vederle», slogan della canzone originale di Jennifer Lopez, voce della mamma di Tip, la quale è invece interpretata in originale da Rihanna: delle due popstar, durante tutta la pellicola, canzoni a go-go. Furbissima la trovata del sottofinale: alla coraggiosa telecamera a spalla (per finta!) che sobbalza e si muove bruscamente e fa zoom come nei proto-film catastrofici amatoriali, si aggiunge quella musichetta da pianoforte, ammutolendo i rumori sotto, portando a braccetto verso le lacrime. S'era sentita, prima, la musica elettronica, quasi techno, già usata in Ralph con audacia – ecco, l'audacia è forse quello che manca a questo film di cui un po' abbiamo visto già tutto: non tanto ricordando E.T. palesemente, ma WALL•E dopo, col suo avvento della tecnologia bianca e liscia e senza spigoli, con gli umani segregati altrove, dove ci si sforza di stare al passo coi tempi puntellando le battute di riferimenti al contemporaneo, all'internet «che non mente mai», al blocco-maiuscolo nelle password, infarinando una storia universale e che non passa mai di moda, quella dell'accettazione del diverso, «non integrato» e quindi «disintegrato», scoprendo che anche i cattivi sono in realtà buoni che non conosciamo e di cui quindi abbiamo paura. Però: nella fiera delle ovvietà animate non basta la buffa parlata di un personaggio da merchandising per uscire fuori dal coro degli ormai molti cartoon da cinema.

giovedì 26 marzo 2015

il Sofficino surgelato.



Ho Ucciso Napoleone
id., 2015, Italia, 90 minuti
Regia: Giorgia Farina
Sceneggiatura originale: Giorgia Farina & Federica Pontremoli
Cast: Micaela Ramazzotti, Libero De Rienzo, Adriano Giannini,
Iaia Forte, Monica Nappo, Bebo Storti, Chiara Conti, Tobia Hoesl,
Thony, Tommaso Ragno, Pamela Villoresi, Elena Sofia Ricci
Voto: 5.4/ 10
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«Dovete fare il Sofficino surgelato: se volete conservarvi, dovete rimanere fredde». Micaela Ramazzotti ammonisce due bambine nell'androne di casa, figlie dell'uomo con cui ha una relazione, il suo superiore Adriano Giannini, il giorno prima che venga licenziata. La Ramazzotti è un'ex bambina wannabe principessa, che sognava il matrimonio e la cura dei figli, imparentata con una scultrice una pittrice un musicista, «nessuno serio», congelatasi nella crescita, totalmente priva di sentimenti, di trasporti, di emozioni; o almeno, che si sforza di privarsene. La solitudine è lo strumento per l'autorealizzazione, per il successo: niente marito, niente prole, niente freni. Però un giorno si scopre incinta, di quel suo boss sposato a un'altra (che a lei non interessa che lui lasci): «una non si può distrarre un attimo che resta fregata per tutta la vita», dice al medico che le impedisce di “apportare rimedio”, dato che è al quarto mese – così architetta tutto ciò che è sconsigliato a una donna incinta: andare a cavallo, per esempio. Senza lavoro, ingiustamente toltole, si ritrova a perder tempo nel parco di fronte alla casa farmaceutica dove prima aveva uno studio, a guardare le scale d'ingresso e squadrare i suoi ex colleghi e superiori. Qui scoprirà un commercio illecito di un'ex impiegata di studio medico, Elena Sofia Ricci, che, ritrovandosi a casa blocchetti di ricettari ora che è vedova e pensionata, compra e rivende pillole non autorizzate di sottobosco, su un'altalena. Clienti fisse: Iaia Forte, con problemi di peso (effettivamente più evidenti del solito), cui è dedicata una scena in palestra che vale tutta la sua presenza nel film, e Thony, a due gradi di separazione dalla Ramazzotti perché era protagonista sicilianissima di Tutti I Santi Giorni – qui con accento lievemente smorzato, pure single, che cena con un uomo e poi si domanda: «è questo il padre che i miei figli devono vedere due weekend al mese?». L'impianto femminista/ico del film è figlio di due sceneggiatrici donne e cugino della pellicola precedente di questa «giovanissima» Giorgia Farina: se però Amiche Da Morire usava i cliché della Sicilia, delle feste di paese, delle malelingue, delle feste del Santo, del contrabbando di armi e tonni, della jella di certe femmine, delle corna di certe altre, e usava tutti questi elementi sui generis, esasperandoli, soprattutto nell'incipit, in modo da rendere credibile poi i tre morti ammazzati e il quasi milione di euro dopo – se quel film, tutto meridionale, caldo, avvolgente, uno spasso da vedere e soprattutto da sentire, aveva dei risvolti comunque forti di femminismo, di riappropriazione di quell'emancipazione che Mario Monicelli raccontava nel '70 con La Ragazza Con La Pistola, in Ho Ucciso Napoleone la regista ribalta tutto, ribalta ambientazione che diventa settentrionale, ribalta la fotografia, fredda e dalle luci sintetiche e surreali, ribalta lo status dei personaggi (case bianche e vuote) e ribalta la condizione delle sue ragazze: già emancipate, già sole per scelta, già ricche, ma che lentamente riscoprono i sentimenti. Perché è chiaro già da subito che il film parlerà di questo: del Sofficino surgelato che lentamente si cuoce, complice la faccia da scemo di Libero De Rienzo, placatosi post rifiuto-del-sistema e Sangue, su cui non si può dire niente per spoiler alert. La debolezza rispetto al film precedente deriva anche da una presa di posizione evitata per tutto il tempo: il film si inserisce a metà fra la commedia esasperata e quella romantica, qualche risvolto sociale, qualche drammatico, mentre sempre il film precedente restava nel suo binario dall'inizio alla fine, costruendo una sequela di scenette tutte comiche, tutte con la stessa impronta grottesca. Qui poi, l'unica protagonista, è stretta in un personaggio che ogni tanto sbava, di cui intuiamo il disagio sociale e che si lascia andare troppo spesso, contraddicendosi, che finge senza motivo un matrimonio che poi vuole annullare, che grazie a Dio alla fine torna ad essere se stessa – se se stessa è ciò che abbiamo visto per tutto il tempo. Peccato: sarebbe stato un ottimo metodo per parlare dei licenziamenti femminili, delle gravidanze extraconiugali (l'uomo infedele ritorna sempre), soprattutto dell'emancipazione sentimentale e della serenità di un gruppo di persone che nella vita non aspirano alle foto del viaggio di nozze in casa, ma solo alla casa – per una volta.

mercoledì 25 marzo 2015

patate riso e cozze.



Latin Lover
id., 2015, Italia, 114 minuti
Regia: Cristina Comencini
Sceneggiatura originale: Giulia Calenda & Cristina Comencini
Cast: Francesco Scianna, Virna Lisi, Marisa Paredes,
Candela Peña, Valeria Bruni Tedeschi, Angela Finocchiaro,
Pihla Vitala, Nadeah Miranda, Neri Marcorè, Claudio Gioé,
Lluís Homar, Toni Bertorelli, Jordi Mollà
Voto: 7/ 10
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Saverio Crispo è stato un attore benedetto su due fronti: quello del cinema dopo il teatro, che l'ha preso e fatto diventare divo – e quello del tempo, che l'ha preso prima della commedia all'italiana degli anni Sessanta e gli ha fatto attraversare tutte le fasi tipiche dell'attore italiano divo (i polizieschi anche politicamente impegnati dei Settanta, i film hollywoodiani dal dubbio gusto, i western, perfino una parentesi nordica bergmaniana). La benedizione è stata anche femminile: latin lover dalla provenienza meridionale, in ogni Paese, in ogni continente ha seminato film ma anche figlie: tutte femmine: tutte da madri diverse. Queste (due ex mogli e cinque figlie) si riuniscono a San Vito dei Normanni, nella mia terrosa Puglia sempre generosa coi fondi cinematografici e coi terreni per gli uliveti, per il decennale dalla morte: una targa commemorativa sulla casa in cui si è spento, giornalisti dalle domande un po' scontatelle, catering, conferenze, un omaggio visivo montato da Neri Marcorè, compagno di una delle figlie, Angela Finocchiaro, figlia di Virna Lisi, prima moglie molto amica della terza, Marisa Paredes, madre di Candela Peña (la più spontanea e incisiva del gruppo), che si chiama Segunda ma è la terzagenita dopo Valeria Bruni Tedeschi (che ricicla l'impacciatezza dei suoi film da regista, il Cammello in primis), anche attrice ereditiera del mestiere paterno ma con molta più ansia di vivere e con molta meno fortuna, al contrario dell'altra attrice sorellastra astro nascente giovane Pihla Vitala, la più piccola finché non arriva la figlia della «puttana americana» Nadeah Miranda, dall'aspetto e dall'accento persiano ma spacciata per una Shelley che fa musica elettronica. Le donne sono tutte qua: tutte riunite in stanze da letto, salotti, vie di paese a confrontarsi su quell'uomo ricordando le estati passate insieme nascondendo un segreto che Lluís Homar (prestato dal cinema di Almodóvar insieme alla Paredes e Jordi Mollà) è venuto a cercare di svelare. Il latin lover Francesco Scianna (ancora una volta costretto in un ruolo antico, «sarà per i capelli cotonati» dice lui, dalla faccia però inevitabilmente siciliana di Baarìa) lo vediamo solo attraverso fotografie, attraverso video e spezzoni di film: ricalca soprattutto la figura di Marcello Mastroianni di cui interpreta Divorzio All'italiana e l'episodio Mara in Ieri Oggi Domani, tra i tanti, che si concede scherzi cinematografici, fantasie, riflessioni e frecciatine: è, tutto il film, un'allegoria della settima arte, della divinità nel Bel Paese antico, del tempo che scorre e del lascito generazionale, della sovrapposizione di ere; è, tutto il film, la riscrittura dell'esperienza di Cristina Comencini, che si vede bene ha impostazione soprattutto teatrale, che assume la figlia per scrivere un film sull'essere figlia d'arte (lei, figlia di quel Luigi) e sorella fra le sorelle (ne ha altre tre). Con la tensione verso un pretesto, un segretuccio da svelare e un colpetto di scena che ribalta “l'importanza” di due personaggi, i dialoghi si susseguono in scenette compartecipate (non esistono figure più protagoniste) sempre a base di sarcasmo, ironia, divertimento anche dei personaggi, ben orchestrate pure musicalmente. Raggiungimento di una maturità (dopo il “campione di incassi” e inspiegabilmente candidato all'Oscar La Bestia Nel Cuore, sofferente quasi quanto il sofferto Quando La Notte, fischiatissimo a Venezia) che era stata accennata, in questa coralità di donne, di donne mamme e di donne figlie chiuse in casa, nello script prima per il palco e poi per lo schermo di Due Partite, svincolato però dall'unità di luogo (non tanto di tempo) e più arioso, bisognoso di spazi aperti dove mostrarsi e anfratti dove confabulare, dove buttare frecciatine sul cinema contemporaneo quali «eppure i film francesi di successo in Italia arrivano tutti», dette da chi il cinema lo fa e lo vede, detto da quella Virna Lisi che fa commuovere, cui è dedicata la pellicola. Poi, la sorpresa non stonata, la conclusione onirica musicale à la Mine Vaganti, forse ispirata dal nord del Salento, forse capriccio per coprire l'unico genere rimasto fuori.

sabato 21 marzo 2015

neve casomai.



Vergine Giurata
id., 2015, Italia/ Albania/ Svizzera/ Germania, 90 minuti
Regia: Laura Bispuri
Sceneggiatura non originale: Laura Bispuri & Francesca Manieri
Basata sul romanzo omonimo di Elvira Dones (Feltrinelli)
Cast: Alba Rohrwacher, Emily Ferratello, Lars Eidinger,
Flonja Kodheli, Luan Jaha, Bruno Shllaku, Ilire Vinca Celaj
Voto: 8/ 10
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Esiste un luogo, sui monti albanesi del nord, intorno al confine col Kosovo, dove essere donna significa essere «un'otre che deve sopportare», dove se sei femmina non puoi sparare col fucile (eppure è pratica comune), non puoi cavalcare, non puoi addirittura uscire da casa e parlare. Se sei nato maschio, un colpo di pistola tirato all'aria ha avvisato le case del villaggio; se sei nata femmina non c'è stato niente da festeggiare. E se ti sposerai, un giorno, promessa a qualcuno che certamente non hai scelto, dovrai fare la strada sull'asino completamente velata, quasi bendata, per non conoscere la via del ritorno. Così, sotto le dure leggi del Kanun, Hana viene ritrovata, orfana, da una famiglia che se ne prende il carico, già genitori di Lila, una ragazzina a lei coetanea. Ma il codice arcaico sta stretto a entrambe: Lila si rifiuta di sposare l'uomo che le viene promesso, e scapperà verso l'Italia del nord col suo vero amore, mentre Hana devota al padre che le ha ridato vita, metabolizzerà la sua non accettazione del codice diventando una vergine giurata, una casta e pura femmina che rinuncia alla sua identità per reincarnarsi nelle fattezze (sociali) di maschio: col nome di Mark può adesso sparare col fucile, cavalcare, uscire da casa e parlare. Le due non-sorelle si ritroveranno, anni dopo, lontane da quella terra, in un miscuglio di lingue e di identità di genere; Lila, sposata, ha una figlia adolescente, che come tutte le adolescenti non ha filtri verso la madre – né ne avrà verso Mark, in cui subito scopre una donna, domandandosene il passato. Anche se la complicità fra le due, fra Hana/ Mark e Jonida, è appena accennata, è la chiave essenziale di tutto il film: spetta a loro due, nel sottofinale, il piccolo dialogo sull'accettazione di se stessi – la prima in apnea da tutta la vita perché incapace di respirare per polmoni propri, la seconda sott'acqua, nel nuoto sincronizzato della piscina in cui ai corpi nudi si somma quello vestito di Hana, fasciato dal seno – Jonida che vede esplodere la sua pubertà a partire da modelli ostentati, fatti di make-up e lingerie. Della piscina è anche figlio il personaggio di Bernard, cui spetta un'iniziazione sessuale: nel romanzo di partenza Vergine Giurata di Elvira Dones è invece un intellettuale, lettore di poesie, corda stonata secondo la regista Laura Bispuri perché Hana ha bisogno di un ragazzo di bassa lega, per confrontarsi. Al primo lungometraggio di finzione, scritto in italiano poi tradotto in albanese poi adattato sul set, la Bispuri ha la mano ferma e la professionalità organizzativa di chi ha già lavorato tanto, autrice di tre cortometraggi (Passing Time vincitore del David e Biondina del Nastro d'Argento) in cui il percorso di liberazione passa sempre attraverso il corpo, la fisicità dei personaggi, mentre la telecamera si muove documentaristicamente seguendo anche a lungo gli interpreti, à la Dardenne. Ha dovuto bazzicare per due anni i set albanesi, impossibili da raggiungere con automobili, complicati da gestire nelle messe in scene soprattutto per rispettare le tradizioni dei villeggianti, al fine di instaurare una relazione – soprattutto di fiducia – con gli abitanti del luogo. Le sequenze italiane, girate a Bolzano, dovevano però nascondere, celare le montagne da cui si scappava, rendere la città «una qualunque provincia del Nord», e da qui la piscina, elemento ormai comune della sua cinematografia. In questi spazi si cala il camaleonte Alba Rohrwacher, spaventatissima dall'essere italiana, unica italiana del cast, italiana a interpretare un'albanese, con una settimana per imparare il dialetto gheg, suoni indecifrabili per noi (ma pronunciati perfettamente, a detta degli albanesi presenti alla prima milanese: «ho lavorato due ore al giorno per un po' e poi una mattina mi sono svegliata ed è stato un miracolo»), donna a interpretare una donna che interpreta un uomo, il bacino in avanti, le spalle piegate: passata quest'anno da Cannes con un film (Premio della Giuria) recitato in italiano, tedesco e francese, poi da Venezia con una pellicola girata in americano (Coppa Volpi) adesso da Berlino dove si presenta in albanese e, annuncio, al Tribeca con lo stesso: Alba è finalmente l'attrice che scardina il physique della Bellucci verso una dote interpretativa che ci rende orgogliosi di essere rappresentati all'estero, come rende orgogliosi un film, unico italiano alla Berlinale, dal linguaggio universale e dalla costruzione matura, seppure esordiente.

venerdì 20 marzo 2015

ecce bombo.



Fino A Qui Tutto Bene
id., 2014, Italia, 80 minuti
Regia: Roan Johnson
Sceneggiatura originale: Roan Johnson & Ottavia Madeddu
Cast: Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D'Amico,
Guglielmo Favilla, Melissa Anna Bartolini, Isabella Ragonese,
Marco Teti, Milvia Marigliano, Paolo Giommarelli
Voto: 7.5/ 10
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Se il lavandino della cucina si ottura ché l'idraulico costa caro e poi è sempre irrintracciabile: si lavano i piatti nel lavandino del bagno; se si ottura anche quello: c'è la doccia. Poi succede che uno torna a casa, la sera, sbronzo, si va a lavare, e mette il piede nella pentola della carbonara. Cinque ragazzi, tre maschi e due femmine, sgomberano l'appartamento in cui hanno vissuto per qualche anno – cercando di vendere uno specchio antico per duecento euro, di dedicare qualche minuto al sesto coinquilino, morto in un incidente stradale, avvisare i genitori su Skype che insieme ai consueti bagagli arriveranno a Frosinone con il pancione e magari anche rigare la macchina al padre del nascituro, che s'è trovato una terza amante oltre alla moglie. Svuotano le stanze per lasciare Pisa: chi sogna la recitazione proverà a Milano, chi ha studiato i vulcani ha già un posto in Islanda per tremila euro al mese – Pisa la cui università si intravede dal balconcino dove si svolgerà la loro ultima festa, la cui università è stato luogo d'insegnamento per Roan Johnson (I Primi Della Lista, dove pure c'era il caratteristico Paolo Cioni) a cui era stato affidato un documentario per raccontare quel luogo: testimonianze rubate e riprese tra gli studenti e poi tanto materiale troppo vivo, troppo pulsante per non farlo diventare storia di finzione; e così, cinque attori sconosciuti reclutati, meccanismo produttivo The Co-Producers (cast & crew non hanno ricevuto un soldo ma avranno una percentuale sugli incassi, a film uscito), quattro settimane di riprese con un po' d'improvvisazione – ma nemmeno tanta – e poi Isabella Ragonese che amichevolmente fa una capatina a interpretare (tu guarda!) l'attrice che, di quel gruppo (sono quasi tutti aspiranti teatranti anche nel film), di quell'università, ce l'ha fatta, approdando alla fiction e al fidanzato famoso. Risultato: Premio del Pubblico “Cinema Italia” e Premio Signis all'ultima Festa del Cinema di Roma, recensioni scalpitanti e infinita attesa per (ri)vivere quello che beneomale passano tutti: l'affitto da pagare, il lavoro da cercare, qualche intrallazzo con un coinquilino e le spese alcoliche per la sangrìa dentro ai tupperware, con la vodka meno cara del supermercato, poi la pasta al nulla per asciugare. La freschezza, la spontaneità delle micro-situazioni che ci vengono raccontate, che si susseguono in questi ultimi tre giorni di convivenza, episodi sequenziali anche separati narrativamente ad inquadrare solo le scene goliardiche, di spensieratezza insieme – sono potenziate dall'effettiva vita comunale del cast in quella casa; a questo, e ai dialoghi fluidi, si aggiungono interpretazioni a pennello, a partire dalla straordinaria Silvia D'Amico – e il regista lo sa bene su chi si deve soffermare e su chi no (Melissa Anna Bartolini), e gioca i dialoghi, le liti frequenti ma mai decisive, le rivelazioni, le rotture, sempre coi primi piani giusti. E pensare che il titolo viene dall'ultima frase de L'odio di Kassovitz: forse perché la pellicola è l'istantanea di una generazione che, «mentre sta precipitando, si ripete: fino a qui tutto bene». Ma i nostri cinque eroi, se escludiamo il sesto, ci lasciano su una barca decisi a non affondare, a rimanere a galla, spesso consapevoli di dover tornare dai propri genitori sperando nel lavoro alla ditta del padre, dovendo lasciare il dottorato – ma senza abbattimenti, desiderosi di non sprecare l'attimo che sta svanendo. Scrive bene Federico Pontiggia: «fosse girato in inglese si venderebbe come il pane», perché quante pellicole generazionali, teen, siamo stati costretti a guardare su schermo, quanti film di feste-sfacelo, di baldorie liceali – tutte sempre incastonate nel loro genere, previste, scritte ricalcandosi, dialoghi identici messi in bocca ad altri. Questa volta invece, per una volta, è la realtà che va su schermo: la accompagna l'ironica, azzeccatissima colonna sonora dei Gatti Mezzi, ovviamente pisani anch'essi, matti nell'osare musica anti-narrativa, valore aggiunto alla regia (indie) di molte scene, alla faccia dei botteghini.

il cavolfiore.



Una Nuova Amica
Une Nouvelle Amie, 2014, Francia, 105 minuti
Regia: François Ozon
Sceneggiatura non originale: François Ozon
Basata sul romanzo The New Girlfriend di Ruth Rendell
Cast: Anaïs Demoustier, Romain Duris, Raphaël Personnaz,
Isild Le Besco, Aurore Clément, Jean-Claude Bolle-Reddat
Voto: 5.8/ 10
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Laura muore e viene sepolta in abito da sposa, uccisa da una ingiusta quanto precoce malattia, davanti agli occhi del marito, della figlia di pochi mesi, della famiglia, della migliore amica – che in chiesa promette pubblicamente di prendersi cura di ciò che lei sta lasciando, lei che è stata fraterna compagna dal giorno in cui si sono conosciute, patto di sangue, primi fidanzati, e olè: l'ellisse narrativa sull'adolescenza post-Tempo Delle Mele (con una canzone di sottofondo cronologicamente scorretta che a Ozon piace così tanto che la rimette poi, ma extradiegetica), che ci mostra quanto Laura sia sempre stata più avanti di Claire, nello sposarsi, nel partorire, nel morire addirittura. Per quanto ci venga presentato come accadimento devastante e disastroso, il lutto non è poi così dipinto aspramente. Claire prende qualche giorno di ferie (da chissà quale lavoro) mentre il marito Mulino Bianco amorevolmente la sveglia (per andare a chissà quale lavoro) (ma ottiene una promozione), e per paura di rincontrare nel volto della piccola orfana gli occhi della morta, non tiene fede alla promessa e non va a trovare il vedovo David; quando lo fa – e non mi pare di fare grosso spoiler perché chi guarda al trailer, alla locandina e alla citazione almodovariana con un filo di logica – trova un travestito che allatta: all'incomprensione e l'inaccettazione iniziale seguono chiarimenti e poi una nuova amicizia, appunto, con qualche bugia al marito e il nome di Virginia. Ma David/ Virginia non è omosessuale, non va con gli uomini, non desidera essere completamente femmina: semplicemente si traveste. E la tensione erotica fra i bizzarri nuovi compari di shopping, fra Claire e il marito, fra i vivi e i morti, crea un turbine di confusione di genere che è (era?) l'obiettivo del regista: ma in questo perdersi al di fuori delle etichette che si sono assegnati, i personaggi invece di essere psicologicamente approfonditi e fungere da pretesto per raccontare le vere perversioni, anche mentali, degli umani, sono schiacciati in una trama comunque cinematografica, facendo ciò che si deve fare in un film: sesso adulterino e non, travestismo con dettagli tessili e anatomici, la vestizione di un cadavere (e mezzo), una canzone piena di significati reconditi da cantare a mezza voce, commossi. «Hitchcock incontra Almodóvar» compare scritto qua e là: perché ogni volta che c'è di mezzo un trans Almodóvar va sempre bene e Hitchcock lo si nomina ormai a prescindere, pure se la trama è un semplice pettegolezzo di quartiere da non svelare e non, chessò, una tensione crescente verso una svolta narrativa che potrebbe stravolgere tutto. La versione femminile di David, che vorrebbe uscire dalla casa, che a volte prepondera sulla maschile, non è quella tensione: né lo è l'accettazione pubblica che certo non nascerebbe da questo film. Pure le relazioni fra i tre, anzi, fra Anaïs Demoustier giovane moglie annoiata che a sbalzi gioisce della nuova amica e a sbalzi se ne vergogna, che a volte tende verso il lesbismo e poi si pente (e la sua è l'interpretazione migliore ma il problema è alla radice, al personaggio troppo insipido) e Romain Duris elogiato in patria per questa prova d'attore sui tacchi – pure la relazione fra loro non tende verso niente: tutto è un fare e pentirsene, gioire e vergognarsene. Dopo aver forse addirittura osato un pelo in più con Giovane E Bella parlando della prostituzione adolescenziale, dopo aver accantonato l'ossessione per i corpi (nudi) pretesto per le vere tensioni, di altre nature (Swimming Pool) con il letterario Nella Casa, François Ozon torna al cinema puntuale come un orologio, come ogni anno, con l'ennesimo film fatto in fretta alla Allen: non passa per nessun festival, forse perché consapevole della qualità dell'opera, politicamente correttissima e con tanto di lieto fine surrealista fantascientifico che spero almeno si auspichi possibile fra cinquant'anni – lui per primo, che si riprende proto-maniaco a fare piedino alla sua protagonista maschio dentro a un cinema, fallendo nel tentativo di fare un film sui generi(s), che si rivela un film su un travestito.

giovedì 19 marzo 2015

la goccia.




Chi È Senza Colpa

The Drop, 2014, USA, 106 minuti
Regia: Michaël R. Roskam
Sceneggiatura non originale: Dennis Lehane
Basata sul racconto Animal Rescue di Dennis Lehane
Cast: Tom Hardy, Noomi Rapace, James Gandolfini,
Matthias Schoenaerts, John Ortiz, Elizabeth Rodriguez
Voto: 7.2/ 10
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Per una volta meritatamente, e a sorpresa, nel 2012 Bullhead fu candidato all'Oscar come Miglior Film Straniero in rappresentanza del Belgio per poi uscire silenziosamente nei cinema italiani e dare fama soprattutto al suo attore protagonista, Matthias Schoenaerts, che poi avrebbe condiviso disgrazie e sentimenti con Marion Cotillard in Un Sapore Di Ruggine E Ossa, che pure uscì silenziosamente nei cinema italiani, dopo la fama del suo regista ottenuta con Il Profeta. Anche qui siamo a un'opera post-successo, e a un'opera non in lingua natìa dato il successo: Michaël R. Roskam regista si sposta in quel di Hollywood e si accaparra gli attori in voga (Noomi Rapace in primis, trasformista tutta in ascesa, camaleontica piercing-tattooed nei Millenium di Fincher e ripulita nel futurista Lei di Jonze – qui con accento fake che va tanto di moda in questo periodo) e per la sceneggiatura scritta e recitata in inglese abbandona il suo quaderno e si affida allo scrittore Dennis Lehane, giallista, noto autore di thriller americano dai cui romanzi sono stati tratti Mystic RiverGone Baby Gone e Shutter Island, che trasporta dialoghi e scene dal suo racconto originale (nella raccolta Boston Noir sul quartiere in cui è cresciuto) che in realtà non si discosta praticamente di nulla dal Bullhead di cui prima. Lì avevamo un protagonista solo e pseudo-problematico che trafficava ormoni illegali per mucche che in realtà si iniettava lui, e perdeva teneramente la testa, in un modo non consono, per una donnetta appena conosciuta. Qui abbiamo Tom Hardy, senza amici né famiglia ma non come in Locke, che gestisce il – e lavora al – bar dell'unico parente e confidente, il cugino James Gandolfini, irrimediabilmente Soprano e irrimediabilmente compianto, nella sua ultimissima interpretazione – bar luogo d'accumulo di denaro sporco dove malfattori e strozzini e soprattutto la mafia cecena passano e depositano e riscuotono mazzette nascoste nella cassa, e riforniscono talvolta il sostentamento perché la locanda stia in piedi. Hardy e Gandolfini non sono (apparentemente) invischiati nei traffici, il primo soprattutto, dall'animo candido e dall'aspetto buonista. Ad esempio, tornando a casa un giorno, sente i lamenti di un cane picchiato e buttato in un cassonetto e se lo porta a casa, cucciolo da curare e crescere – ma la spazzatura è della Rapace di cui sopra, che rivendica almeno un lavoro da dog-sitter per poi farci scoprire che il cane non è suo ma era lì perché il suo ex moroso ce l'ha buttato. Lui è Schoenaerts, che parla un inglese trascinato e pretende l'amore indietro. Lei è bravissima a fare l'immigrata ma come tutte quelle che ne hanno viste tante e prese ancora di più, ci mette molto prima di lasciarsi intenerire da un uomo, o abbandonarsi a confidenze e sentimentalismi. Il cane diventa l'unica sorgente di vita per Hardy, il cui ribaltamento di personaggio ci spiazza – ma è un ribaltamento troppo buttato lì, non è per niente approfondito. Perché il finale arriva presto: dopo un'accurata analisi dei luoghi, dei personaggi e dei loro collegamenti, la situazione muta in fretta e ci abbandona, stringendo il cerchio delle pedine in campo e strisciando il lietofine. Sono infiniti gli echi dell'opera precedente e sterminato il piacevole ricordo con cui assistevamo a quell'altro colpo di scena, a quelle altre interpretazioni di sconosciuti, a quegli interni contadini e campagnoli nel Belgio invece che al solito quartiere americano. Hollywood-rovina-tutti ha appiattito l'originalità di quel regista e l'ha messo dietro a un progetto che non si discosta di nulla da ciò che abbiamo sempre visto e sempre vedremo, riciclando qualche minuscola trovata. Ma è felicemente passato dal Festival di Torino in anteprima, a dicembre.

hotel Splendor.



Cloro
id., 2015, Italia, 95 minuti
Regia: Lamberto Sanfelice
Sceneggiatura originale: Elisa Amoruso & Lamberto Sanfelice
Cast: Sara Serraiocco, Ivan Franek, Giorgio Colangeli,
Anatol Sassi, Andrea Vergoni, Chiara Romano,
Pina Bellano, Piera Degli Esposti, Anna Preda Anisoara
Voto: 6/ 10
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Diciassettenne (quasi diciottenne) con la stessa voce di Matilde Gioli ne Il Capitale Umano, Jessica vede lentamente suo padre consumarsi per la depressione di aver perso la moglie e il lavoro, costringendo la ristretta famiglia a trasferirsi dal mare alla montagna abruzzese: lo zio Giorgio Colangeli dal bizzarro accento (ma sempre magistrale) ha messo loro a disposizione una baita vicino alle piste da scii dove il fratello Fabrizio vorrebbe passare il tempo – invece è costretto a iscriversi a scuola, a metà dell'anno abbondantemente cominciato, mentre per Jessica non ci può essere istruzione: dovendo prendersi cura del piccolo e del grande, trova lavoro presso l'hotel Splendor come inserviente, scoprendo con piacere che c'è nascosta anche una piscina. Il cloro del titolo è infatti l'elemento cardine della sua vita: nuotatrice sincronizzata, parte di un team prossimo alle qualificazioni nazionali, Jessica vive la costante esigenza di immergersi nell'acqua, anche solo i piedi, di allenarsi, prova gli esercizi sulla neve, tra i monti, corre, si stende, si dà il tempo, e il disagio di non essere dentro a un liquido la scoraggia fino a un certo punto. La va a trovare un'amica: ed è palese la separazione tra la città e la provincia, tra la vita normale, di chi passa il tempo a mettersi lo smalto, e chi invece deve trovare scuse con una preside (Piera Degli Esposti) che pretende di incontrare un adulto della famiglia per questi ragazzini improvvisi. La lontananza poi anche del genitore maschio farà risorgere il rapporto fra i fratelli, scombinando l'elenco delle priorità davanti a un campionato imminente e dalla difficile partecipazione. L'acqua della piscina, un genitore perso con la testa, un legame fraterno e la solitudine fra i coetanei: sono tutti gli ingredienti che erano de Il Primo Giorno D'inverno, dove però la competizione e la non accettazione degli altri portavano ad atti violenti e immotivati; lì l'acqua era il legame con la madre e con la propria immagine riflessa; qui è un elemento non naturalmente dato a chiunque, un punto di diversità, una necessità che non tutti hanno – e chi non l'ha non può capire il perché delle scappatelle notturne dentro l'albergo, dei «balletti». Lo scontro fra l'acqua col cloro e la neve è simbolico: due stati della stessa sostanza, come Jessica ha visto solidificarsi la propria vita verso una posizione più matura da prendere lungo i suoi giorni. Terreni non abusati ma comunque già percorsi dal nostro cinema, adolescenze e crescite difficili; Sara Serraiocco è dura nelle risposte, non si fa scalfire, si lascia sedurre e insulta non pesando le parole: è lo spessore della pelle che le aumenta; non concepisce di dover rinunciare ai propri interessi e scarica il fratello come fosse uno scatolone, a uno zio che non gli è interessato; il fratello, dall'altro canto, non ha gli strumenti per definire la propria situazione, e si diverte come può. Moltissimi silenzi perché da soli non si parla tanto spesso e un utilizzo nuovo del fuoco: moltissime volte è la cosa in secondo piano, lo sfondo, ad essere nitido: anche se stiamo inseguendo qualcuno che cammina, e ci è vicino. Piani ribaltati fra il sopra e il sotto l'acqua e alla fine eccolo: il mare da cui si è scappati, a cui si ritorna, non completamente maturi ma con una responsabilità in più. Qualcosa non funziona nell'esordio di Lamberto Sanfelice – unico italiano al Sundance, passato anche da Berlino – ma è impossibile definire quando e dove: si è disciolta nell'acqua.

mercoledì 18 marzo 2015

terze persone.



La Scomparsa Di Eleanor Rigby
The Disappearance Of Eleanor Rigby, 2013-14, USA, 100/ 89/ 123 minuti
Regia: Ned Benson
Sceneggiatura originale: Ned Benson
Cast: Jessica Chastain, James McAvoy, Viola Davis,
Isabelle Huppert, William Hurt, Nina Arianda,
Bill Hader, Ciarán Hinds, Jess Weixler
Voto: 5.3/ 10
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Film uno e trino, progetto apparentemente non innovativo ma interessante: stessa storia – di una coppia che deve superare un lutto – raccontata nello stesso modo ma seguendo separatamente i due protagonisti; la scomparsa del titolo non è quella di Gone Girl ma si avvicina: Eleanor Rigby (e oltre all'inesattezza di scomparsa c'è anche l'inapprofondita citazione dai Beatles) abbandona il marito, tenta addirittura di suicidarsi buttandosi da un ponte, viene salvata da un gruppo di pescatori e torna a casa dei genitori, torna al college, si mette a fare cose che riempiano la vita svuotata – e all'inizio non lo sappiamo perché è vuota, di cosa sia stata svuotata, ma lentamente (i riferimenti a un nipote perso, la risposta «sì» alla domanda «hai figli?») ci fanno capire che, molto piccolo, il loro bambino è morto, e lei non riesce a mettere piede in quella casa, mentre lui ha repentinamente sgomberato di ogni riferimento al pargolo le stanze. La scomparsa è dunque un allontanamento volontario e certificato, non una sparizione con la polizia in mezzo che perlustra. Ed è di Eleanor Rigby, la scomparsa, nel titolo, perché il suo punto di vista, il suo film, è certamente il più accreditato: madre che perde un figlio e il terreno su cui camminare e si sforza di rinnovarsi partendo dagli affetti. Anche nel capitolo Loro, inevitabilmente, è lei che ruba la scena. Perché, uno e trino, il film era due film: Lei che inquadrava tutto il tempo solo Jessica Chastain e Lui, che insegue James McAvoy nel tentativo di rintracciare la moglie, chiederle spiegazioni, riportarla a casa, rimettere in piedi un ristorante fallito senza chiedere aiuto al padre ristoratore. Una coda iniziata alle 7:30 del mattino fuori dalle sale del Torino Film Festival (lo spettacolo era alle 9:00) per vedere prima una e poi l'altra pellicola, gente che si lamentava perché non era riuscita ad entrare da Lui, e adesso aveva visto solo Lei, e «da noi in Italia arriverà montato insieme, un solo film». Da noi in Italia invece arriva direttamente in DVD, perché impossibile alla distribuzione cinematografica, e arriva in multiple versioni: i film separati o insieme, in dischi divisi o accorpati. Perché se ai vari festival era stato presentato l'esperimento del distico, per certi mercati (e per Cannes) il regista Ned Benson, al suo pretenzioso debutto, è stato costretto, qualche mese dopo i primi due, a creare un episodio Loro che potesse salvare i cinema con poche sale. E fin qui, ogni cosa è lodevole, a partire dalla scelta del cast in cui figura addirittura Isabelle Huppert, molto sottotono, madre francese e musicista di Lei, e Viola Davis, ormai onnipresente, insegnante (sempre di Lei, per far capire quanto Lui venga ignorato) dall'indecifrabile personalità, tipica professoressa che prima raccomanda poi si affeziona a un'alluna agée silenziosa che siede sempre per terra. E se l'esperimento, dicevo, può apparire poco innovativo ma comunque nuovo e interessante, al suo interno piove dentro da ogni anfratto: oltre al totale disinteresse per il marito ed ex padre Conor, la figura cardine di Jessica Chastain è egoista, egocentrica, a volte arrogante e non va male: ma inspiegabile per certe iniziative, per certi ritorni dal compagno e poi di nuovo le fughe, certe cattive risposte al padre, certi mutismi in pubblico. Quello del superamento del lutto infantile è un tema difficilissimo che forse solo Rabbit Hole, recentemente, ha saputo affrontare in modo sensibile; quello della coppia che si sfalda nonostante i tentativi, invece, è già argomento più abusato ma inarrivato ai picchi di Blue Valentine. Per questo alla fine – quando finalmente anche solo un brano di musica ruffiana tenta di farci impietosire, emozionare – con una conclusione poi non tanto aperta – ci separiamo dalla coppia e dalla storia senza esserne stati coinvolti, ma consci del nostro essere al di qua dello schermo: dove certe battute, certe risposte, certi dialoghi non avrebbero terreno, non sarebbero realistici: e la sceneggiatura, problema alla radice della non-trilogia, è un freno all'iniziativa, all'osare del film, per non superare i confini dell'indie verso quelli del blockbuster.

venerdì 13 marzo 2015

la cenere la pentola.



Cenerentola
Cinderella, 2015, USA, 112 minuti
Regia: Kenneth Branagh
Sceneggiatura non originale: Chris Weitz
Basata sul classico originale di Charles Perrault
Ispirata al film di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson
e Hamilton Luske (Walt Disney, 1950)
Cast: Lily James, Cate Blanchett, Richard Madden, Nonso Anozie,
Helena Bonham Carter, Stellan Skasgård, Sophie McShera,
Holliday Grainger, Derek Jacobi, Ben Chaplin, Hayley Atwell,
Rob Brydon, Alex Macqueen, Tom Edden, Jana Perez
Voto: 6.5/ 10
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L'armonia di una famiglia Mulino-Bianco senza gallina né orto ma con un'oca in giardino e qualche topolino viene ribaltata dall'improvvisa malattia e conseguente morte della genitrice, che al capezzale ammonisce la figlia: «sii gentile e abbi corraggio». Crescendo, Ella terrà a mente l'insegnamento, anche quando il padre si risposerà con una vedova vestita da pavone (la metafora è letterale) portandosi in casa due figlie private di qualsiasi arte, del canto per esempio o dell'ordine nelle stanze. La lunga partenza del padre, prima, e la morte poi, costringeranno la fanciulla a sostenere da sola il difficile clima casalingo che la schiaccerà sempre più verso la funzione di serva, fino a cambiare nome in Cenerentola passando da Cenerella. Ma bontà e gentilezza davanti anche a una vecchina nel peggiore dei momenti riusciranno a farle raggiungere il ballo reale, ove il principe Keith, che lei ha già incontrato una mattina nel bosco, la sta aspettando con trepidazione. Sarebbe effettivamente inutile continuare a raccontare la trama di una tra le più classiche fiabe della tradizione; tra i due capitoli di Alice, dopo due Biancaneve e in seguito a Maleficent che spostava l'attenzione posta sulla Bella Addormentata, la Disney (ad aprile in sala anche col musical collettivo Into The Woods) sforna l'ennesima trasposizione e ci risparmia, grazie a Dio, l'intervento sempre disastroso di Linda Woolverton, affidando la sceneggiatura all'autore di About A Boy e la regia all'Enrico V (ma anche Amleto) sir Kenneth Branagh, che dice: «nessuno pensava che avrei girato Thor e, men che meno, qualcuno si aspettava che avrei diretto Cenerentola». L'appunto è vero, e si cela dietro al solito quesito: ne sentivamo il bisogno? Per riproporre il classico Disney in una versione di sessantacinque anni più giovane, il furbo regista inglese ci costringe a puntare l'attenzione sulla spettacolarità della messa in scena in modo da distrarre dal peso ereditario della trasposizione animata – nella quale pure eravamo stati privati della mutilazione di alluce e tallone nel sottofinale – dalla quale però questa pellicola dipende, e i motivetti musicali ne sono la prova. Aggiunge: «mi sono ispirato a Gandhi» per l'atteggiamento che l'eroina mantiene davanti alle angherie; «yoga e meditazione, per avere una profonda spiritualità e sentire il corpo». Dopo il rifiuto di Emma Watson (che avrebbe dovuto essere la Sirenetta della Coppola, mai confermata, ed è, invece per certo, Belle nell'ennesimo classico degli Studios) sono serviti sei provini e una lunga attesa per scegliere Lily James, la Lady Rose MacClare di Downton Abbey, per l'ambito ruolo: eppure non è tanto diversa dalle precedenti Mia Wasikowska ed Elle Fanning, segnale che la biondina anoressica cianotica resta nell'immaginario popolare come principessa (e in questo Into The Woods, in cui invece la mutilazione di alluce e tallone si vede, canta fuori dal coro). Scelta coraggiosa (dettata dallo show biz?) invece quella di Cate Blanchett: perfida matrigna wannabe-contessa che ricalca le femmes fatales del cinema americano classico, accovacciandosi sulla rampa di scale nella sua ultima inquadrature. Mentre per restare sempre in famiglia, Helena Bonham Carter, con la testa grande il giusto, è una ringiovanita e dimagrita fata madrina: saranno proprio le sue scene a raschiare la regia troppo posticcia di Alice In Wonderland; la nota positiva di questo film, infatti, è che, si potrebbe dire, pare viscontiano, à la Kubrick: migliaia di candele e altrettanti fiori per la sala da ballo, per le balconate, merito delle scenografie magistrali di Dante Ferretti, insieme alle quali si dipana, ancora più meritevolmente, la tavolozza di colori di abiti, stoffe, costumi variopinti e meticolosi: un impianto artistico doveroso per rispettare i canoni e, dunque, mozzafiato: accanto alla scarpetta digitalmente costruita, non c'è stato nessun ritocco nell'abito (soprattutto nel girovita) disegnato da Sandy Powell (dieci nominations e tre Oscar), come era vera la carrozza d'oro (e i cavalli) ma troppo piccola, al punto che durante le riprese gambe e braccia della James erano tenute fuori. Volteggiano tra questi set baroccamente arredati (i rocchetti dei cotoni, i candelabri, i cristalli) una sequela di attori emergenti già emersi in serie televisive: una delle sorellastre è Sophie McShera che nello stesso telefilm della protagonista interpreta la cuoca, mentre il principe Richard Madden è Robb Stark ne Il Trono Di Spade – ancora una volta show biz?, oppure segnale che ormai il cinema e la TV (dove un'altra Cenerentola è in C'era Una Volta) giocano la stessa partita?

Miracolo! (a Milano).



Da oggi, e tutti i venerdì, il programma radiofonico Spoiler Alert sarà vittima delle mie incursioni telefoniche per la nuova rubrica Miracolo A Milano: in diretta da Milano (la radio ha sede pugliese), nell'intervallo della proiezione narrativa dell'attrice e autrice Francesca Zurlo – che di puntata in puntata analizza un cult del cinema fin nei suoi più apparentemente insignificanti dettagli – converserò con la speaker e regista delle uscite in sala della settimana, che nel capoluogo lombardo trovano ampio spazio nelle sale e ampia risposta alle anteprime, spostandomi da un cinema all'altro per consigliare le piccole pellicole indipendenti da tenere sott'occhio (vedi alla voce: The Repairman), i kolossal da evitare, il background di certi registi finiti a Hollywood e soprattutto la migliore musica dietro queste immagini. Si comincia, oggi, con un weekend ricco di uscite: il tanto atteso Cenerentola e il suo corto d'apertura Frozen 2.0, che arriva da noi prima che in US, il candidato a cinque Oscar Foxcatcher, rimasto a bocca asciutta, spinto da una pubblicità colossale sul Web dalla Warner, il ritorno sugli schermi di Michel Mann con Blackhat, che si poteva risparmiare e infine Suite Francese, l'estetizzazione della Guerra con tre interpreti straordinari e straordinarie scenografie. L'appuntamento è allora tra le 19:00 e le 21:00, in live streaming sul canale di Radio Exfadda, con la possibilità di commentare dal vivo per saluti, rettifiche e suggerimenti: di seguito tutti i link del programma e i contatti.

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giovedì 12 marzo 2015

RAT.



Blackhat
id., 2015, USA, 133 minuti
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura originale: Morgan Davis Foehl
Cast: Chris Hemsworth, Viola Davis, Leehom Wang, Wei Tang,
Holt McCallany, Andy On, Ritchie Coster, Christian Borle,
John Ortiz, Yorick van Wageningen, Brandon Molale, Tyson Chak
Voto: 4/ 10
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Incipit da documentario artistico (attraverso le architetture cibernetiche dietro una infinitesimalmente piccola spia luminosa capace di creare un'esplosione) e poi via!, con la più tradizionalmente banale delle strutture narrative: un problema continentale, un eroe farabutto sotto pena da scontare, una donnina conosciuta durante l'operazione e già infatuata, una rettifica del piano iniziale sbagliato, qualche perdita lungo la strada e poi il colpaccio. Trama di cui potremmo azzardare i dialoghi sentendo solo la colonna sonora da casa (composta a sei mani ma cosa impossibile: non è ancora distribuita), questa volta ha per protagonisti una sequela di nerd un po' americani e un po' cinesi che, col naso storto delle terre d'origini, si ritrovano a collaborare perché l'esplosione di cui prima (falla al reattore di raffreddamento di un centro, otto morti) è stato architettato virtualmente da un hacker che si nasconde anche dietro al prezzo stellare in borsa della soia. Entrambi i Paesi sono interessati a incastrarlo ma serve il genio dei codici Nick Hathaway (au revoir Shakespeare) per risalire alla fonte – il quale sta scontando quindici anni in un carcere di massima sicurezza dopo aver frodato milioni alle banche, il cui corpo da supereroe è giustificato dalle flessioni che fa dietro alle sbarre per non annoiarsi nei tempi morti tra una perquisizione e l'altra; una sola scena senza maglia e un'infinità di décolleté da far invidia a Jennifer Lopez su red carpet. Ritrova l'amico orientale di vecchia data e, sensore alla caviglia e guardini dietro alle spalle, parte insieme a Viola Davis, il cui personaggio si sente tanto fuori luogo quanto l'attrice due volte candidata all'Oscar. Una cinesina doppiata male non gli si schioda di dosso: sarà con lei la pseudo-epifania in un ristorante coreano, incomprensibile e ridicola, e poi amore non romantico per tutta l'ora e tre quarti a venire, durante la quale delle uniche due espressioni che ha in cantiere Chris Hemsworth ne utilizza solo una, che va bene sempre: quando ha intuizioni, quando cerca il nemico tra la folla, quando rimugina sul passato, quando aspetta che il peggio arrivi. All'improvviso: una sparatoria con mitra, forse anche una granata, e i nostri (che, come precedentemente chiarito, sono dei nerd informatici nonostante dai muscoli delle braccia potrebbero sembrare governatori della California) reagiscono in totale nonchalace, rispondendo al fuoco senza domandarsi quando la lite sia esplosa, e soprattutto tra chi, ma sarà che mi sono distratto io, che nel frattempo mi domandavo se andare o meno a fare la pipì in bagno. Eppure non ci sono andato. La telecamera a spalla sobbalza in queste situazioni, strattonata fra gli interpreti in fuga, si agita – e poi, sempre digitale, si scontra con le grandi panoramiche (quasi tutte urbane) linde e pulite, salvato (questo scontro) dalla fotografia di Stuart Dryburgh (che dopo Lezioni Di Piano si è dato alle grandi opere quali Walter Mitty e il prossimo Alice In Wonderland). Michael Mann, sei anni dopo Nemico Pubblico e attraverso l'esperienza televisiva di Luck, torna sul grande schermo con un James Bond qualsiasi esportato oltreoceano insieme a una nera che chiama «chica»; si affida a una sceneggiatura scritta dal co-montatore di Cambia La Tua Vita Con Un Click e a un cast che non regge la stupidità di certi dialoghi. I tempi di Heat e Insider sono lontani: per calarsi nel suo tempo si cala nella cyber-caccia all'uomo (dopo Zero Dark Thirty non dovrebbero più essere fatti film del genere) nella quale la veridicità delle nozioni di programmazione è annientata dal pigiare dei tasti quando si inseriscono password rubate, invece di fare copia/ incolla. Inspiegabilmente ben recensito da MyMovies (ma attenzione: il voto è di colui che ha pure elogiato Jupiter), è giustamente stato bocciato dalla comunità di IMDb.

team.




Foxcatcher
– Una Storia Americana
Foxcatcher, 2014, USA, 129 minuti
Regia: Bennett Miller
Sceneggiatura originale: E. Max Frye & Dan Frutterman
Cast: Channing Tatum, Steve Carell, Mark Ruffalo,
Sienna Miller, Vanessa Redgrave, Anthony Michael Hall,
Guy Boyd, Brett Rice, Jackson Frazer, Samara Lee
Voto: 7.3/ 10
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Una storia americana, altra ed ennesima, storia realmente accaduta, ancora – ma sceneggiatura considerata originale perché non basata su scritti preventivi – abbandona i toni bellici e calca quelli sportivi passando dal mezzofondo della Jolie al wrestling, sempre olimpionico, dei fratelli Schultz. Quattro medaglie d'oro negli anni Ottanta, Mark è un energumeno taciturno, che vive e mangia e gioca al Game Boy da solo, si allena col fratello David altrettanto campione che invece si è completato trovando moglie (che è ancora Sienna Miller, riconoscibile appena) e facendo figli, spostando forse le priorità in questo senso, ridendo più spesso. La vita di Mark ruota invece attorno all'unica passione-mestiere, anche dopo gli incontri con le registrazioni da rivedere subito, anche nelle uscite alla mattina, magari per presentare il suo lavoro alle scolaresche. I sensi di marcia sono due: continuare ad essere campione e poi portare onore e orgoglio all'America. Gli si presenta un giorno un emissario di John Eleuthère du Pont, ereditiere rinomato per i suoi averi, proprietario industriale e terriero, coach a tempo perso, americanocentrico altrettanto, e l'offerta è quella di spostarsi nella villa fuori porta ad allenarsi e allenare una squadra di lottatori e ricevere il tutto-finanziato per i prossimi mondiali e le prossime Olimpiadi. La ristretta vita di Mark lo porta ad accettare, e a sorprendersi che il fratello invece declini, impossibilitato a rinunciare a moglie e figli – e da questo momento in poi pare di essere davanti a una versione creepy di Dietro Ai Candelabri, con un magnate e il suo feticcio da plasmare: Mark si lascerà coinvolgere nell'uso di droghe, nella perdita di massa muscolare, negli allenamenti blandi, si tingerà i capelli perdendo la diretta via, accorgendosi forse troppo tardi della malattia mentale che ha colpito du Pont e della sua morbosa ossessione verso la madre-padrona, a cui bisogna chiedere il permesso per trovare posto a una medaglia nella sala dei trofei, a cui bisogna dimostrare di essere allenatori capaci, davanti alla quale bisogna fingere, tutto il tempo, per piacere. Lei è Vanessa Redgrave, ridotta alla sedia a rotelle ed elegantissima, di una classe superba, segregata anche in un ruolo microscopico; lui è Steve Carrell, sicuramente il fulcro del film e la sua più grande sorpresa, cosparso di protesi in volto per potersi beccare la prima candidatura all'Oscar della vita – e chi l'avrebbe mai pensato, il 40-anni-vergine – biascicando parole, movimenti lenti, in un corpo allo sfacelo che non trova più piaceri nel mondo, e li prova tutti. «Sono contento di non aver girato a Los Angeles, dove abito, ma in Pennsylvania, distanti da casa, perché un personaggio come questo disturba. È un bene per me averlo tenuto lontano dalla mia famiglia» dice l'attore a Ciak. La sua performance schiaccia quella di Channing Tatum che è sempre una montagna mobile, diciamoci la verità, mai nessuno gli guarda la faccia – e questa volta in faccia ha una punta di mento in fuori che ricorda un certo Brad Pitt. Tra contusioni, tumefazioni e un timpano danneggiato sul set, il suo Mark è arrabbiato col mondo e con se stesso, consapevole del suo declino, costretto a cambiar percorso (verso sempre quelle scritte finali che accomunano tutte le storie vere), arrabbiato con suo fratello dal quale si allontanerà perché incapace di parlare, di esprimersi senza il fisico. Mark Ruffalo, forse l'attore più rivalutato degli ultimi tempi, in poche scene riesce a tinteggiare una figura con carattere, non eccessivamente ben interpretata ma pragmatica, agnello sacrificale della volontà divina di questo casato di ex cacciatori a cavallo, come dimostrano le foto in casa, adesso Foxcatcher team sportivo. L'ex compagno di liceo e di lotta di Mark Schultz, Tom Heller, propose a Bennett Miller i diritti per questa storia addirittura nel 2006; Miller aveva già affrontato lo sport dal punto di vista di chi ci mette la faccia senza scendere in campo con Moneyball, che però parlava di baseball ma aveva pure due protagonisti straordinari, che anche fu candidato a un certo numero di Oscar ed è sorprendente come l'Academy ami questo regista, classe '66, giunto adesso al terzo lungometraggio (Palma alla regia a Cannes) e mai estromesso dalla kermesse. Anche l'esordio Truman Capote - A Sangue Freddo fu nominato alla regia e anche quello raccontava di una morbosa e particolare amicizia fra due uomini. In questo caso però i toni dovevano essere trattati con una certa cautela: «quando Miller mi ha fatto leggere una prima bozza di sceneggiatura, ho pensato fosse una storia troppo strana» spiega Tatum; «ho incontrato la famiglia di David Schultz, ho rimesso su muscoli e mi sono allenato con Mark Ruffalo per imparare il catch. Non è stato un film divertente da girare». Né lo è da vedere.

martedì 10 marzo 2015

tema di Bruno.



Suite Francese
Suite Française, 2014, UK/ Francia/ Canada, 107 minuti
Regia: Saul Dibb
Sceneggiatura non originale: Matt Charman & Saul Dibb
Basata sul romanzo omonimo di Irène Némirovsky (Adelphi)
Cast: Michelle Williams, Matthias Schoenaerts, Kristin Scott Thomas,
Margot Robbie, Ruth Wilson, Sam Riley, Harriet Walter,
Lambert Wilson, Eileen Atkins, Tom Schilling, Clare Holman
Voto: 7/ 10
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Sposata a un soldato partito per il fronte, che ha visto due volte prima del matrimonio e di cui non ha nessuna notizia da tempo, Lucile è costretta a vivere nella lussuosa villa di sua suocera con lei, proprietaria immobiliare di case e cascine fino a fuori dal paese di Bussy, campagne che bazzica con costanza per riscuotere l'affitto senza sconti né favori, attenta ai dettagli domestici per carpire il tenore di vita dei suoi mezzadri. Se Madame Angellier è notoriamente arcigna e indisponente, Lucile non riesce a non farsi scappare il lato umano delle cose e delle vicende, diventa amica della modesta Ruth Wilson fino a nascondere ai tedeschi il sovversivo marito zoppo Sam Riley, sorride per strada a Margot Robbie anche se ha iniziato una relazione (sessuale) con un soldato nemico. Scoppiano le bombe a Parigi e la milizia si sposta in provincia: ai possessori di casa, acqua e corrente vengono assegnati militari a cui dare una camera e un orologio con l'orario esatto. Per Madame Angellier e Lucile, nella più abbiente dimora della cittadella, è riservato il tenente Bruno Von Falk, educato ma con un cane, che subito chiede le chiavi del pianoforte – nonostante la musica sia stata proibita fino al ritorno del marito e figlio Gaston. Dalla sua improvvisata stanza, Lucile sente ogni sera una musica che non riesce a riconoscere (composta dal prolifico Alexandre Desplat, a cui era inizialmente stata assegnata la colonna sonora, poi passata a Rael Jones, tanto novizio quanto efficace nel suo lavoro). Lei fuori luogo in casa sua, lui poco a suo agio con le armi in mano: si ritrovano silenziosamente nei rispettivi disagi, ma devono soffocare qualsiasi tipo di sentimento. Il clima è caldo: la presenza dei nemici in paese scatena i rancori e i pettegolezzi del popolo per cui affiorano verità nascoste attraverso lettere anonime – si scoprirà quindi un dettaglio della vita di Gaston che porterà Lucile ad esternare senza più preoccupazione il suo trasporto per Bruno, anche se tutta la seconda parte del film è completamente priva di sentimento. Il problema de La Duchessa è ancora presente: l'estetizzazione continua e totale, la distrazione dalla vicenda, dalla vicenda umana dei personaggi inquadrati, verso l'ambiente in cui sono calati – per carità, minuziosamente e devotamente ricostruito. Gli interni, della «più bella» e «più brutta casa del paese» non hanno pecche: non hanno pecche i fiori nei vasi, i costumi addosso ai soldati, alle contadine e alle viscontesse. Ma nelle situazioni di maggiore pathos il regista Saul Dibb si appisola sui dettagli: su una mano poggiata al marmo, sullo stipite di una bella porta. Accanto a queste distrazioni, ci sono numerose riprese apparentemente rubate, numerosi scorci, che danno il valore artistico a tutto il film: e che sanno valorizzare l'impianto estetico molto ben fatto. Menomale che dentro a questa casa di bambola (e il riferimento è doppio) ci sia la più grande giovane attrice del nostro secolo, Michelle Williams, giustamente candidata a tre Oscar e con un curriculum intelligentissimo, fatto di film indipendenti in cui riusciva a dare tutta se stessa, sempre accanto ad attori del suo stesso calibro. Qui è un po' sotto tono – ma è colpa del personaggio, un'anti-Malèna che viene sfruttata per la sua confidenza con lo straniero, poco giudicata, dalla fama ribaltata – ma comunque intensa, di fianco al solito ruolo dato all'altra colonna portante tra gli attori, Kristin Scott Thomas, che copia e incolla, tra gli altri, il carattere rigido e materno di Nowhere Boy. Bizzarro che, come poi ci dicono le solite scritte finali, il best-seller mondiale di Irène Némirovsky, ebrea di adozione francese, in francese scritto, sia stato adattato per lo schermo da inglesi, con un'attrice americana e, nella parte del tedesco, un attore belga: perché Matthias Schoenaerts, che abbiamo visto accanto a Marion Cotillard in Ruggine E Ossa, è l'energumeno, il Channing Tatum europeo, del magistrale Bullhead; anche per lui, physique-du-rôle azzeccato ma gestione della psiche un po' blanda. Tant'è, il film è proprio da vedere e non da sentire.

lunedì 9 marzo 2015

…e si salvò solo l'Aretino Pietro, con una mano davanti e l'altra dietro.



Già avvicinatisi alla rappresentazione filmica di novelle con Kaos del 1984, messa in scena di quattro Novelle Per Un Anno di Pirandello, quelle che «più a fondo potevano rappresentare l'essere siciliano», i fratelli Paolo e Vittorio Taviani tornano alla grande tradizione letteraria italiana e ai racconti per episodi col Decameron di Boccaccio mostrando, per la prima volta, la condizione fiorentina della peste ma soprattutto riappropriandosi dello scrittore conterraneo, già citato ne I Fuorilegge Del Matrimonio (1963) e dell'ambientazione delle vicende: quarantaquattro anni fa, infatti, Pier Paolo Pasolini dava avvio a quella che sarebbe stata definita la Trilogia Della Vita con un adattamento dell'opera boccaccesca spostata a Napoli, perché, a suo avviso, il fuoco delle vicende ben si sposava con la cultura partenopea, molto più lontana invece da quella toscana. Abbandonando la cornice dell'opera – i dieci ragazzi (cinque femmine e cinque maschi e non, come nell'edizione 2015, sette e tre) segregati nella villa di campagna a raccontare le cento novelle (e non, come nell'edizione 2015, cinque in due settimane) – Pasolini cuce insieme le più corpose vicende, accavallandole spesso, senza apparenti filoni narrativi ma soprattutto senza personaggi in comune; addirittura, una di queste storie, non è rappresentata ma raccontata da un vecchio, in napoletano, alla folla. L'intento di Pasolini era quello di mettere in scena il maggior numero di episodi affinché si avesse un'immagine «completa e oggettiva del Decameron»: alle novelle della Napoli popolare se ne devono aggiungere altre per rappresentare «lo spirito interregionale e internazionale» dell'opera, «una specie di affresco di tutto un mondo, dal Medioevo all'epoca borghese: il film dovrà durare almeno tre ore ed essere diviso in tre tempi, ognuno dei quali rappresenti un'unità tematica». La rigorosissima struttura narrativa si allenta con le varie stesure della sceneggiatura – a differenza del lavoro dei Taviani, rimandato per anni ma fedele a se stesso; viene abbandonato l'atto centrale, incorniciato dal personaggio di Chichibio, e l'eterogeneità delle vicende raccontate risponde involontariamente a un dato comune, rafforzato dal «puro parlare napoletano». Il Giotto del copione diventa su pellicola un allievo, interpretato da Pasolini stesso, che si reca a Napoli per affrescare la Chiesa di Santa Chiara, e nella sua bocca, come ultima battuta, viene dato il nocciolo della trasposizione: «perché realizzare un'opera quando è così bello sognarla soltanto?». Il bizzarro quesito, che andrebbe a disintegrare i 110 minuti precedenti, è in realtà un germe che si infila poi fra le pellicole successive, I Racconti Di Canterbury e Le Mille E Una Notte; per la conclusione della Trilogia, come per l'iniziale Decameron, l'interesse di Pasolini è esaltare i momenti decisivi della vita, spesso caratterizzati dai piaceri, dal sesso, dalla cupidigia, dal dolore ma anche dall'amore. Il sesso è componente fondamentale, non a caso viene spesso sottolineato che il collante delle novelle pasoliniane sia quello erotico, come dei film successivi, e che questa sia una delle primissime pellicole in Italia a mostrare tanti nudi maschili frontali con disinvoltura e temperamento. Ma l'approccio sano e innocente di Boccaccio all'atto sessuale viene subito bocciato, insieme alla predilezione delle belle forme, del parlar forbito – il regista romagnolo gode invece nella contemplazione della prole più sudicia e gretta, degli ambienti poveri e malsani, rendendo la trasposizione popolare e non fedele. Ma la fedeltà, e in questo la domanda finale ci aiuta, a cosa servirebbe? Ad avere un prodotto che si ha già – ed è l'errore in cui cadono i Taviani, togliendo dall'originale elementi minimi e secondari, sforzandosi di rimanere a tutti i costi su quei binari (ma pure loro si contraddicono, mettendo in bocca espressioni contemporanee come «non gliela dà»), invecchiando la macchina da presa che, nei passaggi obbligati (ma non obbligatori!) tra una novella e l'altra tratta le giovani leve del cinema italiano (attenzione a Fabrizio Falco, già in È Stato Il Figlio e Bella Addormentata e a Rosabell Laurenti Sellers, Tyene Sand de Il Trono Di Spade) teatralmente e non, appunto, cinematograficamente. È per la sua incapacità (o in-volontà) di osare, quindi, di superare il porto di partenza e affrontare il mare con altri venti, con altre direzioni, che Maraviglioso Boccaccio, nonostante sicuramente di più facile lettura rispetto al precedente Decameron, è inferiore: alla pellicola che l'ha preceduto ma, anche, alle pellicole che i Taviani hanno precedentemente realizzato.

sabato 7 marzo 2015

tre romanzi di Dostoevskij.



Nessuno Si Salva Da Solo
id., 2015, Italia, 100 minuti
Regia: Sergio Castellitto
Sceneggiatura non originale: Margaret Mazzantini
Basata sul romanzo omonimo di Margaret Mazzantini (Mondadori)
Cast: Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Anna Galiena,
Marina Rocco, Massimo Bonetti, Massimo Ciavarro, Renato Marchetti,
Valentina Cenni, Eliana Miglio, Angéla Molina, Roberto Vecchioni
Voto: 6.8/ 10
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All'accusa che viene mossa a Sergio Castellitto di adattare, ancora e sempre, per lo schermo, i romanzi della moglie, egli così risponde: «ogni regista ha il proprio sceneggiatore di fiducia, il mio è questo». E dopo i penélopecruziani Non Ti Muovere e Venuto Al Mondo volano basso e (solo lei) trascrive i dialoghi di Nessuno Si Salva Da Solo che, rispetto ai precedenti, ha un terzo o anche meno delle pagine per cui invece che a sottrazione si deve lavorare aggiungendo, diluendo, ed è una fortuna. Il problema dei dialoghi di Margaret Mazzantini è però che continuano ad essere battute, risposte secche – aforismi a tutti i costi, che possono funzionare anche su carta ma pronunciati da persone, a volte, risultano barocchetti, seppur ritmici. Per questo motivo forse il lavoro famigliare meglio riuscito è, a mio avviso, La Bellezza Del Somaro, pensato e scritto apposta per il cinema – e dove compare tutta la famiglia, il figlio Pietro incluso. Adesso invece non c'è nessuno: di Castellitto si sente solo la voce, appena, in una scena (hitchcockiana, dice lui). Protagonisti assoluti e indiscussi sono Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca già in sala col tavianesco Maraviglioso Boccaccio (ma in novelle separate), e li vediamo già dall'inizio prepararsi per cenare fuori, genitori divorziati che devono decidere come gestire le vacanze dei figli. Al locale (lei ordina un tortino di spinaci che a malapena mangia, lui cotoletta, carciofo, gelato, caffè) esplodono rimorsi, rancori, rimpianti del matrimonio tra insulti, abbandoni, lacrime e confessioni e una marea di flashback attraverso i quali ricostruiamo l'inizio e il declino di questo grande-amore. La storia funzionava a intermittenza nel romanzo e funziona a intermittenza qui: piegata su se stessa, una volta annunciata e sviluppata, si accascia e rotola verso un sottofinale che è la pecca maggiore, con i due comparsoni Roberto Vecchioni e Angéla Molina coppia-fantasma infilata a forza a filosofeggiare, pagliacciare, per spiegare il senso del titolo già chiaro, prima che una ruffiana canzone (e apparizione) di Lucio Dalla (ormai tappa obbligata dei film italiani degli ultimi due anni) concluda la colonna sonora già ruffiana di suo, sentimentale e ingombrante quando il pathos deve esplodere (vedi alla voce: scene di sesso). Ma il film ha anche molti pregi: dopo aver chiarito già dal menu la differenza di rango dei due, aver dipinto addosso al maschio un'aura da scrittore in cui nessuno, neanche lei crede, e aver dipinto addosso a lei un'anoressia parente delle disfunzioni delle donne dei romanzi/ film precedenti, ci viene chiesto: quanto dolore è legato al cibo? Durante lo sviluppo anti-özpetekiano i momenti di convivialità portano tutti a urla, percussioni, porte sbattute avvicinandosi piuttosto al generazionale Ultimo Bacio e quel trasporto di Muccino. La generazione «tra il crollo del muro e l'undici settembre» viene fotografata in maniera spaventosamente limpida in una festa in casa da manuale: è (siamo) generazione fatta di remake e di importazione, generazione che non ha inventato nulla, e i nostri due eroi ammettono per primi di essere falliti, imbecilli depressi, uno fa un lavoro che non lo soddisfa e l'altra «ha paura dei pedofili, della meningite, di tenere i bambini in braccio affacciata alla finestra». Figlia diretta della maternità della scrittrice, la Trinca è un personaggio rovente e molto approfondito psicologicamente anche se Scamarcio ci dà una performance che gli calza a pennello, rozzo, «tamarro». Il suo monologo sul criceto è brillante, la capacità di ricreare alti e bassi, momenti di estrema tenerezza che si trasformano in litigate-epilogo ancora di più. D'altronde è il lavoro che la Mazzantini sa fare meglio: descrivere i suoi coetanei nel rapporto con la progenie e con il mondo: dopo l'aborto, a Dalia/ Jasmine cade l'occhio su una pancia pregna, come succedeva già alla sterile protagonista di Venuto Al Mondo, ed è un dettaglio intelligente. Ma la volontà di fare un film colto a tutti i costi, di non raccontare una-semplice-storia-d'amore ma elevarla a livelli intellettuali, piazzando Delitto E Castigo o Memorie Del Sottosuolo dove non serve, Il Libro Dell'inquietudine su una panchina o addirittura Non Ti Muovere sullo scaffale di una palese Feltrinelli in bella vista – ecco, questo fa storcere il naso.