giovedì 30 aprile 2015

David di Donatello 2015 - in concorso.



Art. 6, si legge: non possono assegnarsi premi ad attori italiani e stranieri doppiati in film italiani; Adam Driver quindi deve abbandonare le speranze (…) di vincere il David di Donatello 2015 per la migliore interpretazione maschile in Hungry Hearts di Saverio Costanzo, dopo aver vinto la Coppa Volpi a Venezia 71 per lo stesso ruolo; al contrario potrebbe incrociare le dita la sua compagna (sul set) Alba Rohrwacher, pure Coppa Volpi, che di David ne ha già due (Giorni E Nuvole, 2008: non protagonista; Il Papà Di Giovanna, 2009: protagonista; e altre due nominations), ma nell'Art. 7 del regolamento dei giurati del premio si legge: nel caso si venga candidati per più di un film, si entra in cinquina solo con il film per il quale si è ottenuto il maggior numero di voti. L'interpretazione americana, quindi, potrebbe essere calpestata da quella albanese di Vergine Giurata, dove il protagonismo è assoluto e la performance camaleontica: le spettatrici albanesi della prima hanno ammesso di non aver notato l'accento italiano nel dialetto gheg della Rohrwacher, burrnesh in un villaggio montuoso ai confini col Kosovo che rinuncia alla propria identità per poter essere riconosciuta socialmente, col nome di Mark. Laura Bispuri, autrice dell'opera, potrebbe (dovrebbe!) rientrare nella cinquina dei migliori esordi (insieme a Short Skin di Duccio Chiarini e The Repairman di Paolo Mitton, ci auguriamo – e al campioncino di incassi Se Dio Vuole, ci aspettiamo) ma non nella categoria più succosa: sempre all'Art. 6: il miglior regista esordiente non può essere votato anche come migliore regista. Ad ogni modo, se la devono vedere tutti col mostro sacro Nanni Moretti, furbescamente uscito in sala sfiorando la conclusione delle votazioni (mentre Sorrentino e Garrone, in concorso a Cannes con lui, vengono spediti all'anno prossimo); Mia Madre, oltre ad odorare di Miglior Film, ha due intense performances delle navigate Margherita Buy protagonista e di Giulia Lazzarini non protagonista. Eppure questo è l'anno degli esordienti: non solo dietro alla macchina da presa ma anche davanti. Sacrosante sarebbero le candidature di Giulia Salerno per Incompresa (vista anche con meno spessore ne Il Nome Del Figlio, dove però il resto del cast splende), Maria Alexandra Lungu e Agnese Graziani, Gelsomina e Marinella, due delle quattro sorelle ne Le Meraviglie della Rohrwacher jr., Alice; lo ammettiamo: è questo il film per cui facciamo il tifo – già un Nastro d'Argento Speciale alla regista, alla seconda opera dopo Corpo Celeste, e il Gran Premio Speciale della Giuria di Cannes 2014. Ma il versante femminile si riempie anche delle numerose interpreti di Latin Lover della Comencini, tra cui la compianta Virna Lisi cui arriverà, probabilmente, la solita nomination postuma: ebbe due David, nell'80 e nell'83, per La Cicala e il discutibile Sapore Di Mare; non lo ricevette per La Regina Margot, che le valse la Palma a Cannes e il César, e fu premiata due volte alla carriera: nel '96 e nel 2009. Senza dimenticare la straziata Ambra Angiolini del dubbioso La Scelta e l'algida Micaela Ramazzotti del dubitante Ho Ucciso Napoleone. Il versante maschile invece, sempre meno interessante, conta sul pluricandidato Marco Giallini e sul vincitore (per Caos Calmo; un'unica altra nomination) Alessandro Gassmann alla sua rinascita cinematografica – ma è Elio Germano a farci ben sperare, per il suo Leopardi a testa in giù ne Il Giovane Favoloso di Mario Martone (regista del Miglior Film Noi Credevamo), che farà incetta di nominations tecniche e artistiche dividendosele con Maraviglioso Boccaccio dei Taviani, di cui Kim Rossi Stuart è interprete di supporto senza rivali. Di seguito l'elenco di tutti i film in gara per ottenere le candidature – a pochi giorni dal limite ultimo perché la pellicola esca in sala, nonostante Diario Di Un Maniaco Perbene sia programmato per maggio; il sito ufficiale li riporta in un ordine alfabetico che tiene conto dell'articolo, e noi ci atteniamo all'originale iniziativa; con l'asterisco prima del nomesogno segnalati i registi esordienti.

martedì 28 aprile 2015

Jennifer Aniston.



Sarà Il Mio Tipo?
Pas Son Genre, 2014, Francia/ Belgio, 111 minuti
Regia: Lucas Belvaux
Sceneggiatura non originale: Lucas Belvaux
Basata sul romanzo Non Il Suo Tipo di Philippe Vilain (Gremese)
Cast: Émile Dequenne, Loïc Corbery, Sandra Nkake,
Charlotte Talpaert, Anne Coesens, Daniela Bisconti,
Didier Sandre, Martine Chevallier, Florian Thiriet
Voto: 7.7/ 10
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«Per i parigini non esiste altra Francia che Parigi»: non sorprende quindi l'atteggiamento con cui Clément Le Guerre, professore universitario di Filosofia con specializzazione tedesca, figlio di medico, un saggio all'attivo, apprende di essere stato trasferito in un paesino del nord, Arras, e in un liceo, come professore d'adolescenti. Partecipa alle prime riunioni di consiglio e il magnanimo preside gli concede le lezioni dal lunedì al mercoledì: Clément si fionda allora in stazione per tornare ai vernissage, alle serate in completo, ai colleghi della capitale fino alla domenica. Gli studenti under 19 non paiono né interessati né interessanti; l'aveva già avvertito una professoressa, portandolo in giro per la cittadella, raccontandogli quanta stima nutre per il suo lavoro e la sua scrittura. «L'unica cosa peggiore dei nuovi ricchi sono i loro figli: che non sono mai stati poveri»; vocabolario fine e sopraffino, arguzia, profondità di pensiero – e poi camice sotto ai maglioncini, sciarpe scure; mentre tra le viuzze si distingue un salone di parrucchiere variopinte (per chiome, pelli e vestiario), che dopo il turno si fiondano al karaoke in tubino di paillettes e trucco pesante per cantare i sentimenti che corrono paralleli alla pellicola. Tra queste, Jennifer, che alla francese tutti chiamano Jennifér, lascia a casa il figlio con la baby-sitter, o col padre all'occorrenza, che alleva da sola divertendosi davanti alla Wii o alle tazze di Nesquik: non sa cosa sia l'imbarazzo, parla troppo sapendo di farlo, è delusa dalle precedenti relazioni sentimentali ma non arresa, in attesa del prossimo grande amore. Inevitabile che s'incontrino, in un paese così striminzito: bizzarro però che lui cominci a corteggiarla, a insistere per andare a «bere qualcosa» o a cena dopo il cinema – sceglie lei, solo film con Jennifer Aniston, non per il comune nome ma per i valori morali che incarna; al primo bacio si danno ancora del lei, è un corteggiamento all'antica, composto, come Clément sa fare e come Jennifer sogna, «a differenza di tutti gli altri». Si vedono sempre più spesso e sempre più approfonditamente ma dopo il sesso lui si mette a leggere Proust, la paragona a Kant, le regala L'idiota – che lei addirittura legge fino in fondo, perché rispetta il lavoro dello Scrittore, non lasciandosi scoraggiare dalle pagine iniziali come farebbe invece un intellettuale (quanta verità in questo dettaglio) – Jennifer invece canta davanti al televisore, si veste di fiori per la festa di paese, rimugina a casa sui risvolti della relazione. Non vediamo mai il dubitare di lui ma sempre quello di lei. Perché se la stringata trama, i banalotti personaggi, il tono sentimentale da commediola potrebbero far apparire Sarà Il Mio Tipo? E Altri Discorsi Sull'amore (titolo ancora più becero dell'originale Pas Son Genre, negativamente deciso nel rispondere) un'altra stupida commedia francese «da pop-corn», direbbe lei, è in realtà un buon prodotto di analisi (psicologica, sentimentale) sulla classe sociale d'appartenenza, il ponte che ci si costruisce in mezzo e, poi, la capacità di attraversarlo, o di rimanerci sopra. I personaggi apparentemente incomprensibili, contraddittori, sono in realtà profondissimi, con in bocca parole azzeccate. Lui tace, disincantato, auto-decretatosi saggio, senza il desiderio di figli «dalla sua ex né da altre donne», involontariamente (quanta verità in quest'altro dettaglio) la istruisce sulle materie umanistiche, si vergogna di dirsi segregato in provincia, in un liceo; lei non vuole, non riesce, non è capace forse di scendere a compromessi, è interessata ma forse poco interessante, forse non si conosce(va) abbastanza ma assorbe, una spugna: senza essere colta è intelligente. Celebratissima in patria, Émile Dequenne mette in cantiere un'altra performance minuziosa, che si aggiunge alla Rosetta dei Dardenne e alla Murielle di À Perdre La Raison (entrambe le fecero vincere i premi dell'interpretazione a Cannes); totalmente opposto è il Clément di Loïc Corbery «de la Comédie Française» ma ugualmente azzeccato nel fascino, nel modo, nel labbro risucchiato. Li dirige Lucas Belvaux, archiviata la trilogia di Dopo La Vita, che firma anche l'adattamento dei dialoghi dal romanzo di Philippe Vilain, che per questo Non Il Suo Tipo ricevette il premio (italiano, veronese) Scrivere Per Amore 2012, assegnato da una giuria di esperti presieduti da Vittorio Sgarbi; in comune con l'arte dell'oratoria e quella della tinta, questo film ha la necessità di rifletterci sopra, dopo, per formulare un'opinione non immediata.

lunedì 27 aprile 2015

per confrontare.



Samba
id., 2014, Francia, 118 minuti
Regia: Olivier Nakache & Eric Toledano
Sceneggiatura non originale: Olivier Nakache, Eric Toledano e Muriel Coulin
Basata sul romanzo Samba Pour La France di Delphine Coulin (Rizzoli)
Cast: Omar Sy, Charlotte Gainsbourg, Tahar Rahim,
Izïa Higelin, Isaka Sawadogo, Hélène Vincent, Youngar Fall,
Christiane Millet, Jacqueline Jehanneuf, Liya Kebede
Voto: 3.3/ 10
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Certamente: dopo diciannove milioni di spettatori in Francia (ma continua ad essere Giù Al Nord il fenomeno patriottico, con più di venti) e le strette di mano di Woody Allen e Steven Spielberg (ma l'indifferenza totale dell'Academy), diciamo, non c'è il rischio, ma la certezza: come la fai la sbagli. Da una parte: decisione più che lodevole di restare in patria e non volare a Hollywood a cambiare lingua e produzione del proprio cinema, anzi addirittura fare un film “a basso budget” dopo quegli incassi stratosferici. Dall'altra: la furberia di tentare di ripercorrere la stessa strada coprendo le tracce, e fare un film che comunque ricordasse il precedente, ma che apparisse ad ambizioni più alte. Ancora una volta la coppia d'oro d'oltralpe Eric Toledano & Olivier Nakache parte da un libro, Samba Pour La France – molto noto là e pubblicato da Rizzoli qua; chiede all'autrice di collaborare alla sceneggiatura ma toglie la voce fuori campo e infila quel personaggio nella storia, riproponendo l'amico di una vita Omar Sy come interprete protagonista (un César rubato a Jean Dujardin nell'anno in cui questo vinse l'Oscar) raccontando che «non farà lo stesso ruolo» ma ci credono poco pure loro: cresciuti nel «disagio della banlieue multirazziale», i due registi avevano parlato del sussidio di disoccupazione in Quasi Amici e parlano del permesso di soggiorno in Samba, nome di battesimo del protagonista, da dieci anni in Francia e con occupazioni saltuarie, file alla mattina per accaparrarsi un posto da lavavetri, da custode, da lavapiatti – eppure ha quasi il diploma da cuoco! – uno zio che lo istiga all'annullamento di sé attraverso completi eleganti, valigetta, riviste sui cavalli per apparire il meno nero possibile e un amico algerino che si finge brasiliano per rimorchiare più facilmente. A dirci quanto ruffiano sarà il tutto, quanto tripudio di buonismo, quanta commozione a tutti i costi per racimolare consensi in sala, unificare le masse contro la segregazione razziale, far annuire ai diritti civili, regalare due ore di ovvio alla gente che poi tornerà a pulirsi la mano appoggiata sul corrimano della metro – ad avvisarci di quello che ci aspetta ci pensa già il costoso pianosequenza iniziale: una festa Gatsby-style di qua, ballerine e torte e champagne per gli sposi, la servitù del ristorante che va e viene rigorosamente in abito bianco, il minestrone razziale nelle cucine e, di là in fondo, i neri a fare i lavori più umili della piramide, a ringraziare a capo chino il padrone come nei campi di cotone. Nella vita del povero protagonista s'infilerà a sorpresa Charlotte Gainsbourg, un improbabile esaurimento nervoso dopo dodici ore di lavoro al giorno da quindici anni e un'inspiegabile perdita di amici affetti famiglia che la porta ad essere sola in casa e nella vita e di notte con l'insonnia e beneficente negli uffici di accoglienza quando non accarezza cavalli per placarsi. Costruisce un personaggio che alla prima festicciola le crolla addosso, scatenandosi in danze senza scarpe – non coglie le battute né sa spezzare l'imbarazzo eppure avvisa che la “malattia” la fa esagerare in alcune cose, tipo il sesso prolifico e frequente (AH AH AH!) – eppure stranamente non è così fuori luogo come avremmo creduto, come nemmeno il padre Tahar Rahim, ormai completamente inserito nella cinematografia française. Non è fuori luogo niente, eccetto qualche battuta di sceneggiatura, non lo sono gli inseguimenti della polizia per i vicoli notturni, i nascondigli per non essere rispedito in Africa, le gag poco riuscite sullo scaldabagno che schizza, le telefonate in piena notte per andare all'Autogrill, i momenti di tensione – perché tutto risponde ai canoni del cinema facile, del film accettato dal pubblico, esattamente com'era Quasi Amici: e se il pubblico questo vuole: che gli venga dato.

domenica 26 aprile 2015

anni, amori e bicchieri di vino.



Adaline:
L'eterna Giovinezza
The Age Of Adaline, 2015, USA, 110 minuti
Regia: Lee Toland Krieger
Sceneggiatura originale: J. Mills Goodloe & Salvador Paskowitz
Cast: Blake Lively, Michiel Huisman, Harrison Ford,
Ellen Burstyn, Kathy Baker, Amanda Crew, Lynda Boyd,
Hugh Ross, Richard Harmon, Anjali Jay, Hiro Kanagawa
Voto: 6.7/ 10
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Prima americana a nascere nel 1908, qualche secondo dopo la mezzanotte, guardacaso, Adaline Bowman festeggia Capodanno e compleanno insieme – ma all'età di ventinove anni, in una sera di insolita neve, la distrazione per l'evento atmosferico e il buio la fanno uscire dalla carreggiata e la gettano nelle acque gelide: battito cardiaco fermo, circolazione bloccata, apnea – risulterebbe morta, e invece un fulmine funge da defibrillatore e non solo la riporta in vita, la rende anche eterna – ed eternamente ventinovenne. Adaline però ci viene presentata nel Capodanno del 2014: in procinto di acquistare documenti illegali, una nuova identità e una nuova vita nell'Oregon, come ha deciso di dover fare ogni dieci anni per non incorrere nei problemi legali legati al suo non invecchiare, non cambiare aspetto. Di volta in volta una nuova casa, un nuovo lavoro ma un cane sempre uguale e quindi nessuna amicizia fidata (a meno che non sia cieca), nessuna relazione sentimentale – perché tolti gli anni in cui si invecchia insieme, l'amore «è solo sofferenza». Tra una fuga e l'altra vede la figlia, che ormai ha l'aspetto di una nonna, con cui ha invertito il rapporto di maternità, pure da sola e con i problemi degli anziani, le scale, i cari che muoiono – mentre Adaline dopo ottant'anni conserva le energie per imparare le lingue, addirittura il norvegese in braille, aguzza la vista per carpire i dettagli delle persone dalle loro minuzie, indica ai tassisti le strade da fare nella città che conosce a memoria. È un personaggio psicologicamente ben sviluppato, dal viso (di Blake Lively) e dall'atteggiamento malinconico, dal vestiario vintage perché succube di tanti mutamenti di stile, dal conto in banca ingiustificato e dall'aspetto un po' troppo statuario, che attraverso salti temporali vediamo negli anni '60, nei '70 della frangetta, nei '40 dei videogiornali. Tutto ciò che la circonda è un esercizio estetico per raccontare una fiaba dal retrogusto fantasy con tanto di voce fuori campo che si sforza di sciorinare legami chimici e reazioni mediche per giustificare la magia dietro al più antico fascino umano: l'immortalità. Che siamo abituati a legare, come in molti fanno notare, al vampirismo, ma che certe storie di vampiri, mi viene in mente True Blood, analizzano anche dal punto di vista sociale, economico, spesso politico; la preoccupazione (che noi vediamo) di Adaline, e che l'anziana figlia suggerisce, è solo quella affettiva: per mantenere il segreto e la regola di trasloco non può legarsi a nessuno, neanche adesso che è colta, realizzata, completa. E così vede un affascinante trentenne alla festa di Capodanno, che la segue in ascensore, che le chiede l'indirizzo di casa, e che lei deve respingere – con argute risposte e senza l'imbarazzo perso negli anni. Ma il sentimento (la carne?) ha la meglio, e si concede uno sgarro prima, poi due – finendo a festeggiare il quarantesimo anniversario di matrimonio dei di lui genitori, venendo riconosciuta per quella che è veramente, e dovendo abbattere la campana di vetro in cui si è rinchiusa per quasi un secolo… Partendo bene, a intervalli narrativi e senza troppe smancerie, incursioni del narratore, mantenendo quello strato di non-detto utile a un racconto di questo tipo, The Age Of Adaline (azzeccato titolo originale, visto che L'eterna Giovinezza nostrano non corrisponde nemmeno al vero) si piega poi al solito sentimentalismo americano viaggiando tra il pathos e il mélo e chiudendosi come la più tradizionale delle fiabe vorrebbe. Tradizionale è anche la regia del trentenne Lee Toland Krieger, in carriera il piccolo Separati Innamorati, che però si caratterizza da interessanti trovate qua e là azzeccatamente originali: la scena dell'incidente in primis ma anche movimenti di macchina più piccoli quali l'uscita da una porta scorrevole. Incorniciato da una fotografia coerente e sognante e una musica appena percettibile, è un film che non si contesta piacevolmente perché risponde a quegli archetipi narrativi incontestabili e piacevoli.

giovedì 23 aprile 2015

una mattina.



Roma Città Aperta non è solo in televisione, su Rai 3, domani sera alle 21:10, ma è anche su tutti i giornali di programmazione digitale, nei cartelloni delle assemblee d'istituto scolastico, cineforum tematici. È il film facile: «il primo a riprendere il cammino in direzione di un orizzonte nuovamente umanizzato, a immaginare la riconquista di un'armonia entro uno spazio distrutto e sconvolto» (sir Gian Piero Brunetta); il capolavoro neorealista di Roberto Rossellini è uno dei tanti film da rispolverare in occasione del 25 aprile: un 70esimo anniversario dalla Resistenza e dalla Guerra di Liberazione. L'Alleanza delle Cooperative Italiane Lombardia, con il patrocinio dell'ANPI Lombardia, il supporto di Coop Lombardia e la collaborazione di Film TV e Radio 24, ha steso un calendario di proiezioni cinematografiche a tema, in programma dal 15 aprile al 7 maggio nel territorio lombardo: si apre con I Piccoli Maestri di Daniele Luchetti (1998) e si chiude con I Nostri Anni di Daniele Gaglianone (2000), ma è L'uomo Che Verrà di Giorgio Diritti il titolo più recente (2009, David al Miglior Film e questa sera su Rai Movie, ore 21:15) e Vogliamo Vivere! di Ernst Lubitsch il più vecchio (1942), passando per gli stranieri Terra E Libertà di Ken Loach (1995) e Schindler's List di Steven Spielberg (1993) e i nostri Ettore Scola (Una Giornata Particolare, 1977) e Bernardo Bertolucci (Novecento, 1976). Il settimanale citato prima, Film TV, nel numero ora in edicola suggerisce un'altra carrellata di titoli partigiani: l'episodio crudelissimo de I Mostri diretto da Dino Risi, Scenda L'oblio, con Ugo Tognazzi e Luisa Rispoli (1963); l'ultimo Pasolini «tra la mercificazione fascista dei corpi e la loro marxista (auto)analisi politica» di Salò O Le 120 Giornate Di Sodoma (1975); l'Albertone diretto da Luigi Comencini nel 1960 in Tutti A Casa insieme ad Eduardo De Filippo; ancora Bertolucci, ma questa volta per La Strategia Del Ragno (1970) e ancora Rossellini per Paisà (1946); e fa incursione pure il genio di Simone Massi per il corto animato Tengo La Posizione (2001). Intanto la programmazione televisiva prosegue stasera alle 21:00 su Iris con Il Generale Della Rovere, sempre Rossellini, con Vittorio De Sica attore; il canale manda in onda una selezione di film a tema commentati anche da Fausto Bertinotti, Letizia Moratti e GianPaolo Pansa. La Effe, canale 50 del digitale terrestre, la sera del 25 alle 20:00 manderà in onda il documentario di Samuele Rossi, «viaggio fisico e simbolico tra i luoghi della Resistenza» raccontati da sette ex partigiani. In conclusione, non possiamo non citare i tre film di Carlo Lizzani: Achtung, Banditi! (1951), Cronache Di Poveri Amanti dal romanzo di Pratolini (1954) e Il Gobbo (1960); Kapò di Gillo Pontecorvo (ancora 1960); L'Agnese Va A Morire di Giuliano Montaldo (1976) dal libro della Viganò; Giorni Di Gloria di Luchino Visconti (contemporaneo di Roma Città Aperta, 1945), da cui è tratta l'immagine d'apertura (nella foto: fucilazione di Pietro Koch a Forte Bravetta): firmato anche da Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero, il film «di lotta partigiana e di rinascita nazionale» è dedicato «a tutti coloro che in Italia hanno sofferto e combattuto l'oppressione nazifascista».

mercoledì 22 aprile 2015

Gesù era circonciso?



Short Skin
id., 2014, Italia/ Iran/ UK, 83 minuti
Regia: Duccio Chiarini
Sceneggiatura originale: Duccio Chiarini, Ottavia Madeddu,
Marco Pettenello e Miroslav Mandic
Cast: Matteo Creatini, Francesca Agostini, Nicola Nocchi,
Mirianna Raschillà, Bianca Ceravolo, Bianca Nappi,
Francesco Acquaroli, Crisula Stafida, Anna Ferzetti
Voto: 8.4/ 10
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Edorardo ha diciassette anni quando nella consueta villeggiatura sul lungomare pisano l'amico Arturo decreta: quest'estate si tromba. Perché molti compagni di classe l'hanno già fatto e perché se non lo si fa in estate, quando? E così è tutto un premeditare accoppiamenti in tenda, abbordare turiste in spiaggia, scambiare numeri e provarci (senza troppi preamboli) tra il mare e la barca (ma c'è ancora l'ex di mezzo!), mentre Edo, a spalle curve, involontariamente rimorchia e poi si frena, memore del gravoso problema che gli pesa: la fimosi: la pelle del prepuzio troppo corta, come suggerisce il titolo, e il conseguente dolore nel far uscire il glande, sia da soli che in compagnia. Tenendo i genitori all'oscuro, visita un medico che gli prescrive una pomata e la masturbazione cadenzata, se non l'utilizzo del membro, visto che dell'operazione non ne vuole sapere, conscio delle immagini trovate su Google e dei racconti di guaiti dei conoscenti circoncisi – ma dato che con l'altro sesso proprio non ci si riesce, il rimedio sarà un polipo. Intanto a casa: la sorella del sesso parla solo se è quello che bisogna far fare al cane Tiga, nei momenti in cui non si adopera nell'arte parrucchiera; il padre lo spinge a provarci con la coetanea vicina di cui è segretamente (fino a un certo punto) innamorato da sempre, Bianca; la madre toccherà vette d'isterismo scoprendo gli scheletri negli armadi comuni. La domanda è annosa: bisogna aspettare l'amore che si aspetta da tutta una vita o ci si può “accontentare” di una dolce e coinvolta ragazza appena incontrata? Questa, tra l'altro, risponde al nome di Marianna Raschillà: nessun «dove l'ho vista», «dove l'ho sentita» per lei causa adolescenza ma a scorrere l'album di famiglia ce la si ricorda in un'altra opera prima da recuperare, Cosmonauta. Duccio Chiarini, da diec'anni su questo progetto, racconta ricordi e luoghi che conosce a menadito e si vede: non c'è una sbavatura. Per una volta, in un film “di formazione” i ragazzi parlano (quasi) esclusivamente il linguaggio dei ragazzi, e non quello che gli adulti suppongono parlino, coi problemi dei ragazzi e le apparenti inutili sfaccettature da cui scaturiscono «capacità affettive superiori alla media». Fra i tre vincitori della Biennale College, il film è stato sviluppato prima e finanziato poi nell'ambito del laboratorio del Festival di Venezia, dove è stato presentato in autunno prima di passare anche per Berlino: una storia che trasporta dalla spiaggia allo schermo la normalità più banale, più autenticamente quotidiana, ma che parla una lingua universale, comprensibile da tutti – eredità della London Film School che il regista ha frequentato: un tema che necessita una serie di parol(acc)e da dire, di nudità da mostrare, tutto trattato con un garbo insolito per il (nostro) cinema: niente di volgare o imbarazzante anzi ci si diverte con intelligenza. Inevitabile il paragone con Virzì: per l'ambientazione toscana e per le vicende del protagonista che condivide nome e dolori con l'Edoardo di Ovosodo – ma Pisa ha la meglio anche perché spinta da un altro film ancora in sala, Fino A Qui Tutto Bene, che analizza lo step successivo a questo, all'uscire dal liceo verso l'università. In comune c'è la sceneggiatrice Ottavia Madeddu e una penetrazione “naturista”, potremmo dire – alimentare – che ricorda il penetrato & mangiato di Stella Cadente. Tre mesi di ricerca fra le scuole di teatro di Milano e Roma e poi in tutta la Toscana per il volto di Edo: Matteo Creatini, quaranta chili appena, selezionato per la parte di Arturo, elevato poi a protagonista: audace come la pellicola intera, a suo agio, non poteva essere rimpiazzato da physique migliore, capofila di una schiera di interpreti imperfetti fisicamente, non oggettivamente appetibili, né stereotipati, finti, ma reali, che completano alla perfezione il puzzle di elementi tutti azzeccati di questo gioiello.

martedì 21 aprile 2015

400.



Figlio Di Nessuno
Nicije Dete, 2014, Serbia/ Croazia, 95 minuti
Regia: Vuk Rsumovic
Sceneggiatura originale: Vuk Rsumovic
Cast: Denis Muric, Pavle Cemerikic, Isidora Jankovic,
Milos Timotijevic, Zinaida Dedakin, Miodrag Jelic
Voto: 8.9/ 10
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Primavera del 1988, Bosnia: durante una battuta di caccia un gruppo di uomini inframmezzati dai titoli di testa trova e cattura un bambino lercio e selvatico, nudo, che si ribella al loro contatto. Verrà caricato sulla camionetta insieme a un lupo ammazzato, animale da cui esso ha imparato le leggi della sopravvivenza: mordere lo straniero nemico, mangiare da terra ciò che si è cacciato, ringhiare, camminare su tutti gli arti. Lavato e rasato, il selvaggio viene portato in un orfanotrofio, viene dichiarato privo di provenienza, famiglia, e gli viene assegnato il nome (musulmano) di Haris Purica insieme a una stanza – di cui non utilizzerà niente: perennemente rannicchiato negli angoli, ora sotto al letto ora sotto al tavolo, rifiuterà le scarpe, il cibo nel piatto, il vetro alla finestra, il contatto umano. In un momento d'aria nel cortile dell'istituto sarà catturato da una biglia, senza coglierne l'essenza: il ragazzo che ci sta giocando gliela cederà e si instaurerà un rapporto uomo/ animale fatto di rispetto, protezione, insegnamento: Haris “Puciche” è effettivamente un cane a cui va insegnato come alzare la zampa, come stare sulla sedia: è un bambino a cui bisogna insegnare ciò che i bambini naturalmente apprendono, ancora più piccoli, ma che lui non concepisce, non ritrova all'interno della sua formazione felina. Zika, il ragazzino-padrone, riuscirà a istruirlo su come accendere la luce, diventerà faro di questa normalizzazione, di questo inserimento nella società – la vicinanza del bimbo selvatico gli frutterà anche le attenzioni della tanto agognata ragazza dell'orfanotrofio – ma presto verrà raccolto dal padre, sarà troppo grande per restare nel centro e Haris dovrà vedersela da solo, soprattutto all'arrivo di un gruppo di serbi che lo accusano di essere bosniaco, sporco musulmano. Come tutte le recensioni riportano: inevitabile il paragone con Il Ragazzo Selvaggio di François Truffaut, pure storia incredibilmente vera (ma se quella attingeva a un accaduto di fine '700, Figlio Di Nessuno riporta la cronaca di vent'anni fa), eppure dal primo terzo in poi è un altro il film di Truffaut cui si pensa più a lungo: I 400 Colpi: oltre alla somiglianza del protagonista Denis Muric, immenso nella sua trasformazione ed effettivamente in crescita, à la Boyhood possiamo dire oggi, che lentamente smette di ringhiare, di ammansire i cani sotto la pioggia, di stare perennemente steso, accovacciato, nascosto nei pertugi e inizia a vedere altro della gente che lo circonda, non solo le gambe, le scarpe, e si erige verticale nel film – oltre alla somiglianza fisica c'è anche una somiglianza d'ambiente, di bivaccamento fuori dall'orfanotrofio, lontano dalle lezioni di prima elementare: le giostre, la sigaretta, lo zucchero filato. Ma l'intento del regista Vuk Rusmovic, alla sua opera prima e già col Premio FIPRESCI, Premio del Pubblico alla Settimana della Critica e Premio Fedeora alla Sceneggiatura durante Venezia 71, parrebbe utilizzare la storia vera e assurda della civilizzazione in età tarda di uno straniero in patria per poi passare a raccontare, di striscio, gli eventi dei primi anni '90 nei Balcani: le vicende politiche della Jugoslavia, «tradita e disintegrata» (Franco Montini, Vivilcinema): «la vera barbarie il protagonista la vive sulla propria pelle da civilizzato». L'ultimo terzo del film infatti vede Haris – che non viene più chiamato col nome “di battaglia” dell'orfanotrofio, e  lo vede in Bosnia, dove viene spedito a combattere a causa del nome – fucile in mano a vivere il terrore della trincea sparando senza saperne la motivazione, prima di chiudere un cerchio che gli farà vedere il punto di partenza con altri occhi: e si chiederà lui – ma ce lo chiederemo noi – se poi stare dritti e portare le scarpe sia così positivo.

sabato 18 aprile 2015

my country, my country.



CITIZENFOUR
id., 2014, USA/ Germania/ UK, 114 minuti
Regia: Laura Poitras
Cast: Edward Snowden, Glenn Greenwald, William Binney,
Jacob Appelbaum, Ewen MacAskill, Jeremy Scahill
Voto: 8/ 10
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Gennaio 2013. La documentarista Laura Poitras – già una nomination all'Oscar e qualche difficoltà legale nel voler raccontare l'America post-11 settembre attraverso una trilogia filmica iniziata con My Country, My Country e proseguita con The Oath – riceve una mail criptata da qualcuno che si firma CITIZENFOUR e che le offre informazioni sulle intercettazioni illegali da parte di alcune Intelligence americane tra cui la National Security Agency (NSA) come già le pubblicizzò William Binney della stessa azienda. A giugno, la Poitras e il giornalista investigativo Glenn Greenwald del Guardian volano in una stanza d'albergo a Hong Kong per incontrare l'uomo (il ragazzo) dietro alla mail, disposto in otto giorni a fornire materiale per articoli-scoop che lentamente voleranno dal Washington Post al Guardian fino ai maggiori telegiornali internazionali sui maxischermi delle strade cinesi. Si aggiungerà Ewen MacAskill, il quale chiederà al giovane, filmato, di raccontare di sé: Edward Joseph Snowden, «chiamato generalmente Ed», informatico statunitense trentenne già tecnico nella CIA e poi collaboratore della Booz Allen Hamilton, azienda consulente della NSA, senza «alcuna intenzione di nascondere chi sono, perché so che non ho fatto nulla di male». «Rivelando la mia identità spero di proteggere i miei colleghi da una battuta di caccia per stabilire chi sia il responsabile della soffiata». Per questo, rifugiato in Cina, paese con l'impianto giuridico che gli ha permesso di non essere immediatamente arrestato. Eppure sentiamo l'allarme anti-incendio suonare a intermittenza, il telefono squillare, alcune informazioni captate dal poco uso di internet che fanno sapere di macchine appostate fuori dalla sua abitazione, il proprietario della casa che non ha ricevuto il pagamento dell'affitto. Attraverso i suoi timori e le ripercussioni sulla sua famiglia e la sua abitazione ci rendiamo conto di quanto vero sia ciò che ha raccontato ai giornalisti: aziende che forniscono quotidianamente, con sistema metadata, tutte le telefonate all'interno degli Stati Uniti e dagli Stati Uniti all'estero; un programma clandestino di sorveglianza elettronica, PRISM, che consente alla NSA di accedere alla posta elettronica e alle ricerche on-line in tempo reale; un'operazione dell'inglese GCHQ, Tempora, per intercettare e memorizzare enormi quantitativi di traffico in fibra ottica; violazioni di società telefoniche mobili cinesi, intercettazioni dei diplomatici dell'Unione Europea in America, delle comunicazioni dei politici stranieri al Summit G-20 di Londra e così via. La difesa delle Intelligence – dice Snowden – va a pescare leggi risalenti alla prima Guerra, leggi ancora precedenti per giustificare l'interventismo preventivo nella caccia al terrorista: in questo modo esistono informazioni infinite sui cittadini americani che, essendo collegate con altre, possono costruire dettagliatamente spostamenti, incontri, contatti di ogni singolo, pur non sospettato di un qualunque pericolo. Le rivelazioni hanno così confermato «i sospetti di lunga data che la sorveglianza della NSA negli USA sia più invasiva di quanto si pensi». Le ripercussioni cadono anche su Greenwald e latentemente sulla Poitras che, consapevole di essere seguita, si trasferisce a Berlino mantenendo i contatti con Ed e montando il film: il tutto attraverso un elaborato sistema di segretezza fra conversazioni criptate e software «lontani dalla norma giornalistica» che però non sono bastati a farla arrivare immune al New York Film Festival dove il documentario era stato selezionato: la prima proiezione cambiò location una serie di volte per paura che qualcuno stesse intercettando i movimenti della regista. Dopodiché: Gotham Independent Film Award, Critics' Choice Movie Award, Satellite, Independent Spirit, BAFTA, premi dal Sindacato dei Registi e da quello dei Montatori e infine l'Oscar 2015. Ambientato in gran parte all'interno delle stanze d'albergo dove tutto accadde, con elementi di conferenze, processi, discorsi pubblici e incursioni da parte della stessa regista, CITIZENFOUR ricostruisce nel perfetto ordine cronologico gli eventi di quell'anno avvalendosi della tensione dei protagonisti della storia per avere suspance al suo interno; ci riesce nonostante sappiamo come sia finita la storia: anzi ci lascia su un finale aperto che ci fa sospettare che la storia non sia finita.

venerdì 17 aprile 2015

a domani.



Mia Madre
id., 2015, Italia/ Francia/ Germania, 106 minuti
Regia: Nanni Moretti
Soggetto: Nanni Moretti, Gaia Manzini, Valia Santella e Chiara Valerio
Sceneggiatura originale: Nanni Moretti, Valia Santella e Francesco Piccolo
Cast: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini,
Nanni Moretti, Beatrice Mancini, Stefano Abbati, Enrico Ianniello,
Anna Bellato, Tony Laudadio, Lorenzo Gioielli, Pietro Ragusa,
Tatiana Lepore, Monica Samassa, Vanessa Scalera, Davide Iacopini
Voto: 8.6/ 10
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Considerando La Stanza Del Figlio (dramma luttuoso che anticipa la freddezza con cui è trattato anche qui il tema) come uno spartiacque nella filmografia di Nanni Moretti abbiamo da quella parte il fervore politico, lo sperimentalismo, la non-narrazione, e da questa i film in cui rinuncia alla parte del protagonista ritagliandosi ruoli limitrofi ma mantenendo sempre quell'autobiografismo insito e necessario, Il Caimano e Habemus Papam: due opere che prendevano (di mira?) due altisonanti istituzioni, due personaggi più che pubblici, che finivano nella catastrofe, nell'apocalisse; a quattro anni di distanza dal secondo di quei due, l'apocalisse è nell'incipit e il personaggio che si prende (di mira?) non è pubblico ma intimo, famigliare. La madre del regista morì nel 2010, mentre lui lavorava al film che sarebbe uscito l'anno successivo passando, ancora una volta, da Cannes. Col gioco perverso del mantenere i nomi reali ai propri personaggi, di nuovo sceglie Margherita Buy e le infila i panni di se stesso: regista che sta girando un film sul precariato, sul lavoro dell'operaio, sui padroni stranieri acquista-fabbriche; i manovali assalgono la polizia e le transenne in quell'incipit-apocalisse di cui prima, occupano lo stabile, e si usa la controfigura di John Turturro nelle scene in cui non c'è da parlare, che si riveleranno una boccata d'aria per quello che verrà dopo. Boccata d'aria effimera: perché Margherita si lamenta di tutto, dell'incompetenza della troupe, della continua finzione della messa in scena, del pressapochismo del cinema italiano, dell'ubbidienza generale al regista, «che è uno stronzo a cui voi dite sempre sì». Intanto, a casa, ha un compagno che però lascia, continuando a vedere sul set, e al telefono una figlia che non ne vuole sapere di recuperare il 3 in Latino, e in ospedale una madre ricoverata per un male che non riesce a cogliere, che subisce interventi che lei non si riesce a spiegare: una elegante, favolosa, splendida Giulia Lazzarini, ex insegnante di Lettere e dignitosa fino all'ultimo momento, dalle cui labbra escono le parole di tutte le donne, sole, in ospedale: ma che con l'invecchiare diventano più intelligenti, perché hanno tempo per pensare, e non sceme come si crede. Margherita si sforza di essere presente nella fatica materna ma quando compra in rosticceria la cena vede che il fratello l'ha già preparata a mano, quando arriva in ospedale vede che lui è già seduto vicino al letto… Costretta alle riprese, maturerà un senso di colpa che poi sfocia in incubi, flashback, immagini più immaginate che accadute; si porterà il dolore dovunque, senza mai esprimerlo. «I figli prima aspettano che i genitori muoiano, poi si ricordano di loro e scrivono film, fanno libri» dice mia nonna – e in questo caso è così senza remore, l'espiazione di una colpa ingoiata per anni, il tentativo, almeno nella finzione, di mettersi dall'altra parte, di essere “il figlio presente”, perché Moretti/ Giovanni si ritaglia la parte di quello che si licenzierebbe pur di non abbandonare la madre. Un atto d'amore e di scusa, verso la famiglia prima e verso il cinema poi: croce e delizia, colpa dell'assenza e distrazione dal lutto. Perché l'intimità della sceneggiatura (firmata ancora una volta anche da Francesco Piccolo) si dipana pure nello strato del mestiere, di regista ma anche di attore, e pure in questo caso la posizione di Moretti è esterna: guarda dal di fuori e giudica attraverso le parole altrui. Le domande che Margherita regista pone, per esempio al direttore della fotografia nel primo assalto alla fabbrica («ma tu stai coi poliziotti o con gli operai?») o le indicazioni che dà senza che vengano colte («non voglio vedere solo l'operaia, ma anche l'attrice; tu devi stare accanto al personaggio») sono quelle di Nanni, che si ritrova a parlare una lingua sconosciuta a tutti i presenti. Per questo Mia Madre risulta “storia semplice” solo nell'apparenza. Basti pensare a quanto ancora non sappiamo nel finale: privati di quell'avvento apocalittico già citato, non vediamo l'esito del film, le conseguenze del lutto famigliare, ne siamo privati solo apparentemente perché tutto è nascosto dietro l'inizio di un pianto che si è trattenuto per 106 minuti che partiva dalla situazione domestica ma proseguiva impotente anche dentro l'impianto cinematografico, politico, sociale. Un dei nostri tempi.

giovedì 16 aprile 2015

#CANNES68.


l'oro.



Black Sea
id., 2014, UK/ USA/ Russia, 114 minuti
Regia: Kevin Macdonald
Sceneggiatura originale: Dennis Kelly
Cast: Jude Law, Scoot McNairy, Ben Mendelsohn,
Tobias Menzies, Jodie Whittaker, Grigoriy Dobrygin,
Michael Smiley, Karl Davies, Konstantin Khabenskiy
Voto: 6.8/ 10
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(Molto) stempiato e con accento fortemente dell'Est, Jude Law è per la prima volta un uomo licenziato dalla compagnia dove ha lavorato per lustri (non più bisognosa di un uomo che guidi un sottomarino, né di un sottomarino), con una moglie scappata verso un marito più abbiente, un figlio che non vede se non in appostamenti fuori da scuola – senza buon'uscita, senza apparente brio nel futuro (e per quello che vediamo noi dalla sala del cinema, pure senza casa). Ha un paio di amici, li incontra in un bar – dove solitamente stanno tutti quelli che non hanno lavoro, casa ecc. – quattro e quattr'otto, uno propone agli altri: di trovare un magnate che li finanzi, mettere in piedi un sottomarino, raggiungere quel confine georgiano dove dovrebbe essere affondato il sommergibile che trasportava oro dalla Germania di Hitler alla Russia di Stalin dopo un prestito, una rottura di alleanza e una Guerra. Di quell'oro: il magnate prenderà il 40%, la ciurma il resto, in parti uguali. Per ormeggiare un sottomarino servono nove persone, ma Jude ne recluta di più: un po' inglesi un po' russe (per necessità: il relitto arenato è in quella lingua), e un diciottenne apparentemente vergine che quindi, superstiziosamente, porterà sfortuna alla missione. Tutto questo succede, nel primo quarto d'ora appena: in fretta e furia lo sceneggiatore Dennis Kelly, autore televisivo della bislacca serie Utopia e in fase di adattamento del musical Matilda (sì, quella Matilda), vuole chiudere in questo ferro malandato i migliori mozzi e sommozzatori per assistere alle solite dinamiche del gruppo di lavoro che necessita la presenza dell'altro per non perire ma che, se l'altro perisse, guadagnerebbe una percentuale maggiore dell'incasso. Alla bramosia di lingotti si aggiunge che, i migliori sommozzatori e mozzi russi e inglesi, sono anche teppistelli licenziati e/o allontanati dai propri posti di lavoro. Dieci Piccoli Indiani incontra Gravity, forse anche La Fattoria Degli Animali e, per ambientazione e sfiga, All Is Lost. Un incidente dopo l'altro, una serie di morti, e il cieco percorso verso quelle tonnellate d'oro, non importa a costo di cosa. A questo punto: in qualsiasi modo dovesse finire il film, pensiamo, saremmo scontenti: e invece nell'ardua impresa riesce a sorprenderci. Per arrivarci però ci tocca sopportare una scena di tensione dopo l'altra, manna per i film di due ore, e con una fotografia marina sopraffina; ma non siamo ai livelli di Gravity di cui prima, né di All Is Lost: per innovazione, sicuramente; per dipanamento delle vicende. Nonostante ciò, chapeau al regista Kevin Macdonald, passato alla storia per aver diretto L'ultimo Re Di Scozia, pellicola agli antipodi di questa, ma celeberrimo e navigato documentarista, premio Oscar per Touching The Void (ma sono suoi anche i più recenti Marley, Life In A Day che ha ispirato il nostro Salvatores e Il Nemico Del Mio Nemico) Si cimenta col film-sul-sottomarino abbandonando i territori del puro dramma e ampliando i confini del thriller sfociando nell'avventura da polverizzare in breve tempo – tratto tipico delle serie TV – trattando la sceneggiatura come se fosse di Indiana Jones o Captain Phillips. Buona ricostruzione dell'interno, ma soprattutto dell'esterno dello scafo, di quel Mar Nero da cui il titolo, e delle dinamiche fra il dentro e il fuori che non conducono lo spettatore alla claustrofobia – ma il personaggio sì. Il problema di tutto questo è alla radice: l'annoso problema del già-visto a cui si poteva porre rimedio solo con una telecamera coraggiosa.

mercoledì 15 aprile 2015

la bara e il furetto.



The Fighters
– Addestramento Di Vita
Les Combattants, 2014, Francia, 98 minuti
Regia: Thomas Cailley
Sceneggiatura originale: Thomas Cailley & Claude Le Pape
Cast: Kévin Azaïs, Adèle Haenel, Luc Martinage,
Antoine Laurent, Brigitte Roüan
Voto: 7.8/ 10
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Belloccio e sensibile, Arnaud si ritrova a portare avanti la ditta del padre (con tanto di maglie stampate su più colori) di costruzioni di gazebo, lavoro del legno, verniciatura, rifornimento pseudo-edile. L'occhio esperto, insieme a quello del fratello, gli fa rifiutare una bara scadente per il genitore alle pompe funebri: se la costruiranno da soli in garage, sotto il sorriso ritrovato della madre. Siamo in estate, Arnaud è un adolescente che parla poco in casa ma è arguto tra gli amici, va a pescare i pochi pesci-gatti rimasti (ironia sui laghi francesi), accompagna il collega-parente a selezionare tendoni, tegole, reti metalliche e propone alle famiglie benestanti soluzioni per migliorare la piscina. S'imbatterà nella difficile figlia di una coppia, tale Madeleine, fissata quasi angosciata dall'addestramento militare e speranzosa di entrare nell'esercito, come paracadutista. Caso vuole che l'army sia in zona, con un furgoncino che recluta giovani per un campo estivo di un paio di settimane. Lei freme: frulla e inghiotte sardine con squame pinne e occhi per prepararsi alle prove di sopravvivenza, lui la guarda di nascosto – nemmeno troppo – mettendo a repentaglio il lavoro e sale sul treno per starle accanto. Sarà delusione (per lei): patatine fritte, Snickers, qualche giro di corsa. La vera avventura, capirà(nno) si trova altrove, dove si caccia per mangiare, ci si lava nei torrenti, si dorme sui sassi e si piantano aghi di pino nella sabbia per passare il tempo. Arnaud è capace di non fare niente, non pensare a niente; Madeleine rifugge il rimanere da sola con se stessa. Così diversi eppure così vicini al toccarsi. Ma non si toccano (quasi) mai. Dinamiche adolescenziali sulla conoscenza e l'innamoramento privi di dialogo e voce: i due si piacciono, ma non se lo dicono; si desiderano, ma non si avvicinano. Come spesso succede a quell'età. Entrambi calati nel ruolo, Kévin Azaïs occupa lo schermo con le guance infossate, gli occhi celestissimi, le spalle larghe, al punto che c'è posto per poco altro; Adèle Haenel quel posto se lo prende: apre le birre coi denti, tocca tutto quello che incontra per strada, se ne va senza dir niente. Lei è l'animo maschile e lui quello femminile, che salva furetti. Bella inversione di ruoli privata dei soliti cliché, il problema è che lavora per episodi: dopo l'introduzione alla famiglia, il segmento dell'incontro, quello del ritrovo e poi il lavoro di costruzione, l'addestramento militare occupa più di metà film per poi sfociare in una catastrofe inaspettata che, musica colpevole, è gestita in maniera diversa da tutto il resto. Si tornerà al registro di partenza alla fine, quando si coglie che l'immagine di locandina è presa dall'ultima scena. Conclusione non aperta come in Like Crazy (che non gli assomiglia per niente): basta una frase a farci capire se andrà avanti o no – quello che non sappiamo è se continuerà ad essere così privo di romanticismo. Ecco: forse perché il film dichiaratamente sentimentale è così privo di sentimentalismo, ha vinto, in ordine cronologico: premio FIPRESCI a Cannes 2014 dov'è passato alla Quinzaine (ma era candidato anche alla Queer Palm) insieme a quelli attribuiti dalle giurie esercenti di qualità (C.I.C.A.E., Europa Cinémas, SACD), premio Louis Delluc per il miglior esordio e tre César su nove nominations, quello per l'attrice protagonista (secondo di fila), per l'attore emergente e l'opera prima – di Thomas Cailley, diploma in Sceneggiatura alla Fémis, e infatti: dialoghi brillanti.

martedì 14 aprile 2015

Tommaso e Pietro.



Se Dio Vuole
id., 2015, Italia, 87 minuti
Regia: Edoardo Falcone
Sceneggiatura originale: Edoardo Falcone & Marco Martani
Cast: Marco Giallini, Alessandro Gassmann, Laura Morante,
Ilaria Spada, Edoardo Pesce, Enrico Oetiker, Carlo De Ruggeri
Voto: 7.4/ 10
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Scena uno: presentazione del protagonista, che si chiama (guarda il caso) Tommaso – che se non vede non crede e ciò che vede è il corpo umano, gli organi interni, le radiografie, le tac: e interviene su quelli – non ci vuole «un miracolo», ci vuole bravura, che lui a differenza dell'amorevolezza verso il prossimo ha. Scena due: presentazione della famiglia del protagonista – agiata, ricca casa con balcone che affaccia sul miglior panorama romano, dove si cena serviti dalla cameriera che si chiama (guarda il caso) Xenia, due figli: un maschio che a singhiozzi pure studia Medicina, una femmina la cui vita è «meno impegnata di quella di un'ameba», sposata a un agente immobiliare un po' dirimpettaio, in entrambi i sensi del termine, e una moglie, Laura Morante, nel ruolo che Laura Morante occupa in tutti i film (drammatici, comici, opere liriche, da regista, da sola interprete): moglie prossima alla crisi esistenziale o al baratro depressivo che, dopo un principio di stabilità, comprenderà il vuoto della sua vita e con isterismo nel gesticolare affronterà la situazione. A farle aprire gli occhi sui quindici anni in cui è diventata «ciò contro cui protestava quand'era giovane» è l'annuncio che un giorno, il figlio, fa alla casa: il cammino, in seminario, per il sacerdozio. E i genitori pensavano che stesse per dichiararsi gay. Immagini di eresie, codici miniati, persecuzioni di streghe e infine don Matteo nella testa di Tommaso e poi la silenziosa accettazione del percorso e il nascosto sotterfugio per scoprire quale sia la causa di questa follia, quale lavaggio del cervello abbia subìto – soprattutto da parte di chi: al figlio del più ateo, pragmatico, concreto, materialista degli uomini, che detiene la certezza. A inseguimento risposta: Alessandro Gassmann, nella sua rinascita cinematografica già avviata col Nome Del Figlio, sacerdote à la Fiorello che si chiama (guarda il caso) Pietro: parla alle masse, di giovani, che si radunano alla sera per ascoltare parafrasi delle Sacre Scritture, dei Vangeli («perché i Vangeli?, il Vangelo, uno è»). Bisognerà aspettare la partenza di quindici giorni del figlio per indagare il passato (da carcerato) del prete, il suo segreto, il suo traffico di denaro e quindi incastrarlo, farlo cadere agli occhi del proto-seminarista come pera matura cade dal ramo. Ma: lo charme di don Pietro non è facilmente sterminabile e i problemi in casa triplicano, tra una che scopre la Passione e l'altra che vive la Resistenza. Lo sceneggiatore di Nessuno Mi Può Giudicare, Viva L'Italia e Confusi E Felici Edoardo Falcone si supera e firma un copione che pare una boccata d'aria nuova nella commedia italiana: per temi, che non attingono alle storielle d'amore, agli scontri generazionali, alle crisi dei trent'anni né a quelle dei cinquanta – e per modalità di racconto, soprattutto nel primo terzo: figlia della comedy americana, la sceneggiatura viaggia di pari passo con la regia, sotto le stesse mani, sbalordendo per trovate e che poi purtroppo, a storia avviata, deve piegarsi ai dettami del sentimentalismo e che si salva in un epilogo «drammatico e un po' ricattatorio, solo apparentemente aperto, in realtà autoillusionistico ma decisamente efficace» (Franco Montini su Vivilcinema), che era difficilissimo sviare dall'aspettativa del pubblico. Se è già audace affrontare il tema della religiosità, nella sede del Vaticano, con un protagonista agnostico che punge senza far sanguinare, riuscendo in generale a non insultare mai le parti, non essere offensivo – è ancora più audace, data la tradizione che ci portiamo appresso e al terrore delle multisala di aprire la biglietteria, raccontare per vie traverse l'autorealizzazione: che per certuni è salvare le vite spiritualmente, per altri chirurgicamente, per molti politicamente – e poi ci sono le amebe. Marco Giallini è mirabile, e se già funziona da solo in un personaggio che gli pare cucito addosso funziona ancora meglio con Gassmann di fianco – con affianco poi il caratterista Carlo De Ruggeri e soprattutto l'autoironica rivelazione di Ilaria Spada.

lunedì 13 aprile 2015

Bacco e Arianna.



National Gallery
id., 2014, Francia/ USA/ UK, 180 minuti
Regia: Frederick Wiseman
Sceneggiatura originale: Frederick Wiseman
Voto: 9.3/ 10
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Un documentario su un museo che in molti hanno già visitato e visitano ogni giorno – e si pensa a un tour guidato all'interno delle sale, la fila fuori, le fattezze dell'edificio, una voce fuori campo che ne spieghi l'origine, la collezione, i lavori. Invece: Frederick Wiseman, la vera e unica guida del nostro cinema, documentarista anche televisivo e ottantenne, che ci ha condotto al Théâtre de l'Opéra di Parigi seguendo quel corpo di ballo, quell'altro del Crazy Horse leggermente più in déshabillé, l'università di Berkeley, una palestra di boxe – Wiseman ci (di)mostra che un museo di questo genere, uno dei più grandi al mondo, è un corpo vivo, una macchina le cui parti collaborano lavorando contemporaneamente, un organismo pulsante da ogni componente, di cui lo spettatore in fila, prima, e nelle sale, poi, vede soltanto l'aspetto superficiale. E dallo spettatore partiamo, nominato nelle riunioni amministrative: «forse dovremmo pensare più al nostro pubblico» si suggeriscono, i dirigenti, citando le mostre in corso e quelle passate, le campagne pubblicitarie, l'immagine della Galleria; li vedremo poi discutere del partecipare o meno a un evento sportivo benefico visto da diciotto milioni di spettatori, dei tagli al budget che necessiteranno una diminuzione del personale – ai vertici, come si può immaginare, si parla d'altro, mentre ai piani bassi, chi viene dal di fuori, le guide, rivelano un trasporto commovente: di tanto in tanto compare una signora o un ragazzo o una giovane donna che gesticola a folte schiere di anziani, di bambini disattenti, che parla come se fosse la prima volta, riempito del desiderio di parlare, con alle spalle una tela che di volta in volta cambia: e ognuno apporta la sua nozione, cerca di spiegare: ecco perché parliamo di questo quadro, nel XXI secolo, ecco perché ho studiato Arte, ecco perché vengo qui ogni giorno e non mi annoio mai. E se la partecipazione attiva delle guide è tutta teorica nozione pronta a esplodere (in monologhi da manuale, migliori anche dei manuali scolastici: uno su tutti il motivo dato allo scheletro in anamorfosi degli Ambasciatori di Holbein), nei laboratori dove il silenzio vige assoluto scopriamo le figure più ovvie (i restauratori delle tavole) e quelle meno scontate (i restauratori delle cornici), scoprendo le diverse sfaccettature dei diversi mestieri, scoprendone gli esperti e i tirocinanti, come il gruppo che assiste agli infrarossi di un Rembrandt dal passato capovolto, oppure la totale assenza di disegno dietro i pigmenti di Caravaggio. Ma ancora: i laboratori di disegno dal vero, «senso di liberazione» dicono i presenti, «un luogo sicuro» dove la nudità (prima femminile, poi maschile) viene vista solo attraverso «il senso del bello»; le iniziative affinché anche i ciechi possano tastare le opere, sentendone la descrizione, guidati attraverso le mani, cogliendo gli alberi e i lampioni di un Pissarro notturno. Ma ancora: oltre alle sale, le opere esposte, le iniziative e gli uffici dei dirigenti, un museo è anche manutenzione: chi pulisce il pavimento, chi cambia le piante nei vasi. Brillante l'idea di documentare, oltre alla collezione permanente, il passaggio da una mostra temporanea all'altra: si comincia con l'ingombrante Leonardo, alla “scoperta” del suo Salvator Mundi, dove alla mostra si associa la sua comunicazione, le interviste, le file al freddo, gli introiti e poi lo stupore nel ricollocare la Vergine Delle Rocce in un luogo che non le appartiene più – e poi si smontano quei pannelli, si tolgono quelle pareti, si ridipingono i muri e si costruisce un nuovo percorso per Turner Inspired, nell'anno in cui Leonardo si affaccia a Milano e Turner è appena uscito dalle sale. Interessato a tutto, perfino ai soffitti, Wiseman è quindi completamente assente: non si sente, non si percepisce, non ostruisce le conversazioni tra gli ospiti, le letture degli esperti, non giudica né stravolge i punti di vista, non provoca, quasi non respira: e così noi siamo lui, presenti in questo lungo lasso di tempo (le tre ore della pellicola, ma i mesi e mesi di preparazione ad essa) uscendone illuminati e desiderosi di tornare, se ci siamo già stati, perché come coi quadri, dopo che li si è studiati, si cambia la percezione ottica di ciò che si vede.

sabato 11 aprile 2015

innovazione.



N-Capace
id., 2014, Italia, 80 minuti
Regia: Eleonora Danco
Sceneggiatura originale: Eleonora Danco
Voto: 7/ 10
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«Sai che siamo condannati a diventare come i nostri genitori?» domanda Eleonora Danco a uno dei “suoi” ragazzi di Terracina – ma gli chiede anche di non rispondere, perché tanto a dirci quel «sì» ci pensa il film intero. Attingendo un po' alla propria esperienza di performer e teatrante (attrice e autrice), un po' al Surrealismo (ma io direi più alla Metafisica, De Chirico in primis), molto ai Comizi D'amore pasoliniani, la Danco torna nei luoghi in cui è cresciuta a ricordare un mercato di Pontaccio che non c'è più – e che tenta di abbattere con un piccone – e quelle attese insostenibili fra il pasto e l'ora in cui ci si poteva tuffare in mare per fare il bagno. «Mamma, mamma, quanto manca alle undici?, quando arrivano le undici?», ma la madre non c'è: c'è un padre, che al solo ricordo della moglie si commuove – un padre che è la figura più restia alle risposte, che pretende il silenzio su certe questioni, che si rifiuta a differenza di tutti gli altri di interpretare un ruolo diverso, dire cose che non pensa, che non prova. Perché il film (documentario?) di questo è fatto: domande e risposte e qualche inframezzo compositivamente surreale. Agli ultra-settantenni e agli under-diciotto sono posti quesiti sulla vita e la morte, l'aldilà, i Santi e Dio, sul primo bacio, il primo rapporto sessuale completo, il lavoro che si fa, quello che si vorrebbe fare, l'istruzione, la lettura di un libro, l'emozione davanti a un quadro – e davanti alle loro risposte il pubblico in sala si sganascia come ci si può sganasciare solo della genuinità di certe spontaneità caricate del dialetto romano, mentre la regista, onnipresente anche quando non inquadrata, resta impassibile, non giudica – come una sua signora, seduta nel campo, che non si permette di giudicare se stessa né gli altri davanti alla porta del paradiso e dell'inferno. E così si scopre che nonostante i mezzi secoli abbondanti tra un ragazzo che ha lasciato la scuola e fa il pizzettaro o una ragazza che ha studiato «da parrucchiera» (ma le facevano fare anche Italiano, Storia eccetera) e una vecchina che a sei anni la mettevano a raccogliere le olive come mestiere, «ma per noi era un gioco», non c'è tanta differenza; tra una vedova il cui marito alto due metri la costringeva al sesso di pomeriggio altrimenti mazzate e qualche truzzello del paese che ti riempie di regali ma poi ti tratta di merda, non c'è nessuna differenza. E nel raccontare le proprie esperienze, i propri pareri, tutti gli “attori” sono a proprio agio davanti a una telecamera di cui sentiamo la presenza, nonostante costretti spesso a urlare frasi apparentemente ingiustificate, a vestire i panni di astronauti fra le verdure, antichi romani nella piazzetta, a sedersi su un letto per strada e guardare per terra, con le buste della spesa. Fra loro, la regista vaga, carica del peso del tempo, fulcro cardine del film («arrivo a ottant'anni poi spero di tagliare i fili»), caricata del senso di fallimento, di smarrimento, di perdita della propria conoscenza; si chiama Anima In Pena e si scontra ripetutamente con un padre che chiuderebbe anche in un ospizio, che per anni tutte le domeniche ha rassettato le tombe dei parenti come se fossero i mestieri da fare in casa. «La capacità del film è quella di seguirmi fino in fondo, non farmi corrompere: provo orrore a parlare di attualità perché ti frega sempre, si sbriciola in un attimo; l'intensità del contemporaneo è diversa dall'attualità, è uno sbilanciamento umano» dice al 32esimo Torino Film Festival del novembre scorso, dove era in concorso e ha ricevuto una menzione speciale; «noi tutti siamo due elementi: capaci e incapaci, da qui il titolo». L'altra capacità di questo film è riuscire a creare un microcosmo universale nonostante non esca dal proprio recinto geografico, la provincia romana, nonostante indaghi solo un campione di persone accomunate, come possono essere gli adolescenti che hanno rinunciato, tutti, all'istruzione, preferendo le fiction in TV, gli spuntini di mezzanotte e il lavoro da manuale sotto il muratore: ma è un microcosmo in cui si torna, da adulti, cambiati, e ci si accorge che non è cambiato niente.

venerdì 10 aprile 2015

la pecora nera.



Humandroid
Chappie, 2015, USA/ Messico/ Sudafrica, 120 minuti
Regia: Neill Blomkamp
Sceneggiatura originale: Neill Blomkamp & Terri Tatchell
Cast: Sharlto Copley, Dev Patel, Hugh Jackman, Sigourney Weaver,
Ninja, Yo-Landi Visser, Jose Pablo Cantillo, Johnny Selema,
Brandon Auret, Anderson Cooper, Jason Cope,
Voto: 5.1/ 10
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Johannesburg, 2006. Dopo il blockbuster hollywoodiano Elysium fatto apposta per soddisfare gli schermi d'oltreoceano torniamo indietro nel tempo, ancora prima di District 9, e torniamo ancora in Sudafrica, e cominciamo ancora con montaggi epilettici di servizi televisivi, registrazioni locali di telecamere interne, video amatoriali a spalla, documentari coi sottotitoli. I vecchi fasti?, l'incanto dura poco. Siamo in un passato futuro in cui la polizia, per fronteggiare l'alto tasso di criminalità cittadina, è affiancata da una squadriglia di robot umanoidi creata dal geniale scienz-informatico indiano Dev Patel che in segreto aspira più in alto, a fornire una coscienza a queste “macchine”, a non renderle puri congegni che esercitano i compiti legali assegnati – nonostante la sovrintendenza di Sigourney Weaver, ormai fissa presenza in tutti i film sci-fi anche di sfuggite inutili (come questa), miri al puro profitto e/o rendimento tarpandogli le ali – a lui e a Hugh Jackman, i cui glutei desiderosi di fuoriuscire dai pantaloni cachi catalizzano l'attenzione di tutte le sue (poche) scene: egli ha costruito un robot decisamente più ingombrante e meno antropomorfo che, da solo, potrebbe fungere da neo-carroarmato con il controllo umano dallo studio – a differenza degli humandroid di Patel che si muovono da soli. Da un'altra parte ma nella stessa città i Die Antwood vivono in questa sorta di capannone dismesso circondati dall'immaginario pop 90s con cui hanno riempito i loro video musicali (topi inclusi), con le cui musiche riempiono questo film – e povero Hans Zimmer, compositore, fuori luogo quasi quanto loro nell'architettura del progetto. Ninja & Yo-Landi, cui restano rigorosamente i nomi “di battesimo” e che vestono tutta una serie di merchandising inspiegabile dentro al film (la Barbie, la maglia di Chappie), accompagnati dal terzo gangster Amerika, cercano modi di racimolare i soldi con cui pagare il capo-banda Hippo ché altrimenti ci rimettono la pelle. Vedono il telegiornale in televisione e decidono di volere uno di quei robot-poliziotto, rapiscono Patel e si ritrovano all'improvviso a dover gestire il suo prototipo, un essere di quelle fattezze ma con coscienza propria, con personalità autonoma, un bambino cui insegnare cos'è l'anima e la morte, come si dipinge e come ci si comporta nel mondo: Chappie. Se, da una parte, la mamy nullafacente in “casa” con svariati orologi da polso e un'altalena appesa al nulla gli leggerà la fiaba della Pecora Nera, dall'altra il papy lo costringerà a sfasciare macchine, minacciare persone e rubare denaro – cosa che comporterà non pochi problemi all'interno dell'azienda costruttrice. Abbandonate ogni coinvolgimento politico, di segregazione razziale, l'idea del campo di concentramento e l'innovazione registica – tutte cose che erano del District 9 di cui prima. Dimenticate anche quel protagonista, Sharlto Copley, perché, nonostante qui sia il protagonista, è scomparso nascosto dalla motion-capture dietro Chappie e doppiato poi in italiano. L'originalità del film d'esordio, che invece di robot parlava di alieni (che non potevano essere ripresi in quanto il prossimo progetto di Neill Blomkamp è appunto Alien), incontra la produzione major dell'opera seconda e si riduce a un ibrido fatto di cose buone e cose cattive, momenti grotteschi che guardano ai Guardiani Della Galassia e rese dei conti finali alla Avengers o, meglio, Transformers. D'altro canto film-feticcio del regista sudafricano è appunto Robocop, cui fa fare un salto indietro portandolo all'età dell'istruzione di Pinocchio – e gli piace concludere al contrario, capovolgendo il desiderio: se invece di voler essere tutti umani, diventassimo tutti robot? La sostanza, sotto, non manca; i temi da affrontare e approfondire, anche sociali, anche etici, ci sono. Il problema è che si scontrano con la malavita kitch impossibile da prendere sul serio, un Jackman che parla da solo (impossibile da prendere sul serio) e un drone impossibile da non amare che però, una volta inquadrato, sappiamo perfettamente dove ci porterà.

si chiama girasole.



Il Padre
The Cut, 2014, Germania/ Francia/ Polonia/
Italia/ Canada/ Turchia, 138 minuti
Regia: Faith Akin
Sceneggiatura originale: Faith Akin & Mardik Martin
Cast: Tahar Rahim, Simon Abkarian, Makram Khoury,
Hindi Zahra, Kevork Malikyan, Zein Fakhoury, Dina Fakhoury,
Trine Dyrholm, ArsinéeKhanjian, Akin Gazi, Shubham Saraf
Voto: 5.8/ 10
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1915. Nazaret Manoogian, giovane fabbro nell'impero Ottomano delle minoranze, dal nome che gli calza a pennello, è amorevole marito e padre di due gemelle alle quali parla come solo nei film abbiamo visto si può parlare; tornando da scuola dopo i richiami dell'insegnante di geografia, una gru si fa vedere nel cielo: è simbolo di un lunga partenza – dice lui – che li vedrà tutti e tre viaggiatori. Fra questi due simboli territoriali profezia s'avvera: la polizia turca fa irruzione, una notte, in casa degli armeni di religione cristiana per prelevare i maschi e costringerli – dicono – ad arruolarsi nell'esercito; in realtà saranno costretti ai lavori forzati, a spaccare le pietre per farne una strada come i migliori lavori forzati cinematografici ci insegnano. Verrà data agli schiavi la possibilità di conversione religiosa all'islamismo: a chi non cede si taglia il collo. Poi toccherà alle donne e ai figli, di essere deportati e marciare nel deserto. Il genocidio del popolo armeno è stato argomento già affrontato, fra le altre forme, dal romanzo di Antonia Arslan da cui i fratelli Taviani trassero il film La Masseria Delle Allodole: cruento, dolorosissimo, spietato – tutti ingredienti che a Il Padre mancano – Il Padre, che ha motivo di chiamarsi così dopo un'ora e un quarto, dato che prima calza a pennello il titolo originale The Cut, taglio alla famiglia del protagonista e alla sua gola, che lo costringe al mutismo. Scampando miracolosamente alla tortura, infatti, Nazaret decide di tornare nel suo paese per cercare la sua famiglia, scoprendo che le figlie sono sopravvissute, date al popolo beduino e finite addirittura in America. Ne seguirà un on-the-road movie dalle citazioni artistiche (composizioni e tonalità di Delacroix con soggetti delle pitture ottocentesche della prima contaminazione esotica; una pietà invertita lunga un giorno; ma anche inserimenti espliciti di Charlie Chaplin prima in un lungometraggio, Il Monello, poi in un manifesto) anche se per tutto il tempo non possiamo fare a meno di pensare a Lawrence D'Arabia o forse meglio a David Lean in generale, Zivago incluso. La fattura da proto-kolossal con addirittura sei paesi produttori non si addice tanto all'(ex) indie Faith Akin, di cui riconosciamo soltanto il commento sonoro fatto di horrorish chitarre elettroniche in ripetizione quasi maniacale; il regista del trapianto geografico e delle origini, fedele a questo tema già da La Sposa Turca (che pure parlava di quel Paese, ma attraverso una sorta di ghetto auto-costruito in Germania, seconda patria dell'autore), si perde totalmente dietro la messa in scena pura esposizione dei fatti senza giudizio (con un punto di vista, certo), ma anche senza trasporto – distaccato lui per primo, a partire da una cartina-sommario dopo la quale vedremo le città-capitoli, a cavallo tra il didascalismo e la più piatta banalità. E non è colpa dell'inspiegabile lingua inglese se il profeta Tahar Rahim (di origine franco-algerina) non esploda sullo schermo: il suo errabondo e sofferente personaggio, come la Cheryl Strayed di Wild, con cui condivide la pecca, s'imbatte solo in persone buone, pronte a donare cibo e acqua e un letto per dormire, mentre i cattivi sono cattivi nella loro più tradizionale costruzione – anche se, facendo un parallelismo coi film in sala contemporaneamente, è The Search il parente più stretto, che tra i genocidi ha scelto quello ceceno per mano dei russi raccontando l'odissea tragica di una ragazza che cerca di orfanotrofio in orfanotrofio il fratello sparito – con The Search condivide anche il tiepido applauso di un festival: quello era a Cannes, questo a Venezia. Storia già distante da noi, per tempo e geografia, si riduce all'impossibilità di empatia perché non mostra nemmeno un pensiero, un'emozione del suo silenzioso protagonista; l'acqua che manca, il dolore per il troppo camminare, la fame, lo scetticismo religioso – tutti aspetti riportati con piglio manualistico senza devastanti scene di dolore fisico, di agonia: eppure avrebbero potuto esserci, eppure la violenza esplicita non manca. Su tutte: l'immagine della cognata che gli muore fra le braccia in più di ventiquattr'ore, e lo lascia algido, totalmente privo di espressioni, è quasi paragonabile all'asciutta conclusione che non regge l'architettura del polpettone.

la steppa.



L'ultimo Lupo
Wolf Totem, 2015, Cina/ Francia, 121 minuti
Regia: Jean-Jacques Annaud
Sceneggiatura non originale: Jean-Jacques Annaud,
John Collee, Alain Godard e Lu Wei
Basata sul romanzo Il Totem Del Lupo di Jiang Rong (Mondadori)
Cast: Shaofeng Feng, Shawn Dou, Ankhnyam Ragchaa,
Yin Zhusheng, Basen Zhabu, Baoyingexige
Voto: 6.6/ 10
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Negli anni Sessanta della Rivoluzione Culturale cinese l'amministrazione di Mao spedisce giovani studenti verso le praterie “meno civilizzate”, affinché educhino i pastori insegnando loro a scrivere e leggere cinese – ammorbidendo il loro scetticismo ad assoggettarsi ai principi del nuovo governo – traendo in cambio l'istruzione al lavoro mentre l'esercito sovietico si fa sentire. Lo studioso Chen Zhen, così, lascia Pechino per trasferirsi in Mongolia, con un bastimento carico carico di libri, dove troverà «gente che mangia carne mentre lui mangia riso», una gerarchia che soggiace al Naturale e all'Esoterico alla quale lui per primo dovrà soggiacere, prendendo come figura cardine un capofamiglia che chiamerà padre. Abbandonando le letture, s'immergerà in paesaggi spettacolari dentro ai quali scoprirà, tra le altre cose, su tutte, l'equilibrio che regola il mondo, in cima al quale (equilibrio, ma anche mondo) i mongoli mettono il lupo: creatura venerata perché inarrivabile, temuta e rispettata, oggetto di lunghe osservazioni al binocolo e discorsi a tavola. Ma: accusati di “frenare” l'avanzata del progresso cinese, i lupi subiscono un genocidio a partire dai loro cuccioli, lanciati in aria (e lasciati cadere) in nome del dio Tengri, mentre gli adulti vengono portati brutalmente dentro agli zoo. In questo intervento dello straniero ignorante, i mongoli si inseriscono con fermezza per ristabilire il naturale ordine della steppa: meno lupi vuol dire più gazzelle, animali crudeli perché mangiano l'erba, che è vita; meno lupi vuol dire più scoiattoli e marmotte, che sono il male dell'agricoltura; meno gazzelle vuol dire più fame per i lupi, che si lanceranno contro le pecore sostentamento dei villaggi. I mongoli si inseriscono silenziosamente nella catena alimentare cercando di aiutare le altre creature traendone giovamento – ma solo dopo aver studiato a fondo e appieno gli animali loro vicini, per non stravolgere l'abitudine di nessuno; il regista in primis è affascinato dall'intelligenza del lupo, e lo osserva lui più da vicino del suo protagonista nascosto dietro le fronde – e quando il suo protagonista è costretto a smettere l'osservazione per troppa lontananza o pericolo, lui beffardo prosegue inosservato spingendosi sempre oltre, concedendosi panoramiche e primi piani documentaristici. Ecco: sempre a metà fra film di finzione e documentario, la pellicola si sforza, attraverso immagini mozzafiato (merito delle incontaminate nature mongole) e una musica epica, a toccare i picchi del blockbuster immersivo, a partire da una trama che potrebbe apparire come favola ecologista, semplicista, dagli ovvi valori morali, ma che può essere letta coraggiosamente come un abbandono delle pagine scritte per partecipare attivamente alla vita: gli insegnanti giunti a insegnare ne escono insegnati, scoprendo ciò che spaventa per evitare di temerlo. Il giudizio morale sull'equilibrio terreno piante-animali-uomini è lasciato allo spettatore, a partire dagli interventi dei personaggi, Chen Zhen soprattutto, che strapperà al suo habitat un cucciolo di lupo decidendo di allevarlo «come esperimento», per conoscerlo meglio, togliendogli l'odore del branco, l'apprendimento alla caccia, il riconoscimento nell'ululato, disubbidendo alle regole nomade che sono rimaste le sole a preservare un rapporto sano con il territorio; «il film scivola così nel sentimentalismo e la storia di Chen Zhen e del cucciolo di lupo ha il sapore dell'apologo del Piccolo Principe e della volpe addomesticata», scrive Silvia Angrisani su Vivilcinema. Dopo Il Nome Della Rosa e Sette Anni In Tibet, come si legge sulle locandine, Jean Jacques-Annaud trasporta in immagini uno dei più letti e amati libri della Cina, Il Totem Del Lupo, edito da noi da Mondadori, mescolando produzioni cinese e francese e ricavandone una bella censura asiatica – in compenso è il film più illegalmente visto in quel Paese; bisognerebbe citare, a onor del vero, L'orso e Due Fratelli, nella carriera del regista, che pure partivano dall'analisi di animali, e che non immergevano così a fondo la figura dell'uomo. Stando sopra con la telecamera, ma anche dentro, si ricava una goduria soprattutto degli occhi, soprattutto per chi ha amato una delle prime scene, nevose, de La Bella E La Bestia, dove il lupo veniva dipinto unilateralmente, a differenza di quest'altro esempio.

lunedì 6 aprile 2015

guardami.



Third Person
id., 2013, Belgio/ USA/ Francia/ UK/ Germania, 137 minuti
Regia: Paul Haggis
Sceneggiatura originale: Paul Haggis
Cast: Liam Neeson, Olivia Wilde, Adrien Brody, Mila Kunis,
James Franco, Maria Bello, Kim Basinger, Loan Chabanol,
Katy Louise Sounders, Oliver Crouch, Riccardo Scamarcio,
Vinicio Marchioni, Moran Atias, Vincent Riotta
Voto: 4.7/ 10
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Premio Pulitzer (per il giornalismo), Liam Neeson praticamente abita in una camera d'albergo parigina, nella penombra, a combattere col demone del secondo romanzo – dopo che il primo, decretato «audace», «corposo», aveva scatenato le gioie e i contratti del suo primo editore. A distrarlo per il gioco delle parti arriva(no le mascelle di) Olivia Wilde, audace e corposa nei suoi costosi abitini, giornalista di moda e/ o gossip, anch'ella in combutta con un manoscritto che sa già essere bellissimo. Reputazione da mantenere, non si fanno (quasi mai) vedere insieme: tant'è che lui le paga il biglietto aereo per la Francia con le miglia e lei prende una camera nello stesso albergo ma al piano di sotto. Giocano a stuzzicarsi, farsi i dispetti, insultarsi non si sa mai fino a che punto – ma poi la tenerezza ha sempre la meglio. Anche se: lui è sposato, con Kim Basinger (due scene in tutto), distrutta da un dolore passato ma non troppo, legato alla piscina. Come Maria Bello, avvocato newyorkese che non riesce a tuffarsi; annega i dispiaceri allora nel caso legale di Mila Kunis, cui dovrebbe essere legata anche da parentela perché il caso, sottolinea più volte, non l'avrebbe accettato – la quale ha fatto non si capisce bene cosa a un bambino, probabilmente suo figlio, suo e di James Franco (quattro scene in tutto), artista celebre dell'action painting con una casa dall'ascensore interno e una fidanzata sempre accondiscendente. A differenza della Kunis, sola e squattrinata, con una soap opera alle spalle e adesso il mestiere di cameriera d'albergo – ma a New York, non a Parigi! Intanto a Roma Adrien Brody, truffatore di figurini d'autore per ricalcarne abiti falsi a buon mercato, italofobico ma costretto nella capitale, beve birra calda in pieno pomeriggio nel “ristorante” del burino Riccardo Scamarcio, che in base alla clientela chiede i soldi prima di versare, come nel caso di Moran Atias, bella gitana sbadata, che lascia per terra una borsa con dentro cinquemila euro. Colpo di fulmine: e Brody è disposto a chiedere un prestito (alla Banca di Foggia) (…) di venticinquemila perché la mezza sconosciuta fatale riprenda sua figlia dalle grinfie del tatuato Vinicio Marchioni. Già candidato all'Oscar per la sceneggiatura di Million Dollar Baby, lo scrittore Paul Haggis s'improvvisò anche regista l'anno dopo e con Crash fece il botto, portandosi a casa due statuette (più quella al montaggio), una delle quali rubata al super-favorito Brokeback Mountain – e si aprì per lui un sentiero spianato di aspettative che, diciamo, non deluse negli anni successivi con Nella Valle Di Elah (2007) e The Next Three Days (2010). Third Person esce da noi con due anni di ritardo: risale al 2013; non fa riferimento certo al Terzo Uomo di Reed – in effetti non si capisce a cosa faccia riferimento; utilizza un titolo che vuole ricalcare proprio quel primo Crash, ribaltando il gioco degli intrecci verso il puro sentimento: i personaggi sono tutti, come al solito, persone sole con dietro dolori, accomunati da questo fantomatico figlio dolente, accomunati forse, nell'arrabbattata conclusione, dalla fantasia di un unico scrittore che non è stato in grado di costruire delle vere connessioni fra le vicende che, effettivamente, a volte non si colgono e a volte si contraddicono (ripeto: un albergo è di NY e uno di Parigi), cui si aggiunge una tagline («guardami») incomprensibile. Ma pare che Haggis per primo sapesse che stava girando un pastiche, per essere generosi, tant'è che il finale era stato modificato e poi sostituito con l'originale. Se la ride, guardando da casa, Guillermo Arriaga: sceneggiatore di Babel, che pure viaggiava su binari geografici lontanissimi, esperto di storie umane silenziose e intimiste, abilissimo nell'incasellare i pezzi giusti al momento giusto: pure lui da sceneggiatore (del neo-Oscar Alejandro González Iñárritu) (uno fra tutti: Amores Perros) era diventato regista, con una storia che oltre allo spazio sfidava il tempo, dal titolo The Burning Plan e dall'incasso purtroppo triste; come Haggis si concedeva un'ultima scena musicale in cui si svelava l'arcano ma, al contrario, Haggis se ne concede molte altre in corso, in cui non ci viene effettivamente rivelato niente, nemmeno ciò che non sarebbe catartico scoprire, forse perché oscuro allo sceneggiatore in primis.