giovedì 31 gennaio 2013

ma le tigri vengono di notte.



Les Misérables
id., 2012, UK, 158 minuti
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura non originale: William Nicholson
Basata sul musical Les Misérables di Alain Boublil & Claude-Michel Schönberg
Basata sul romanzo I Miserabili di Victor Hugo (Einaudi)
Cast: Hugh Jackman, Russel Crowe, Eddie Redmayne, Anne Hathaway,
Helena Bonham Carter, Sacha Baron Cohen, Samantha Barks,
Amanda Seyfried, Aaron Tveit, Daniel Huttlestone
Voto: 8.3/ 10
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Candidato a 8 Premi Oscar:
film, attore, attrice non protagonista, canzone originale,
mixaggio sonoro, scenografia, trucco & acconciature, costumi
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In principio era Il Discorso Del Re e Il Discorso Del Re era presso l'Inghilterra. In principio, in realtà, erano serie televisive poco utili ai fini di una carriera e poi un primo grande film con Hilary Swank (Red Dust) di cui non ci ricordiamo né la trama né gli altri attori.
Venne un uomo dall'Inghilterra e il suo nome era Tom Hooper. Due film per la TV di medio-successo e un film per il cinema in cantiere con Colin Firth reduce dal debutto alla regia di uno stilista. Non gli avremmo dato nemmeno due soldi, e invece vinse quattro Oscar.
Dal principio, quindi, rispetto ad adesso, c'è di diverso il budget. E l'aspettativa del pubblico. E il nostro eroe Tom Hooper la pensa giusta e cosa fa?, si tuffa nell'unica cosa che può fare: trasportare sullo schermo (per la ventunesima volta) il musical più replicato di Broadway (che nacque in Francia e crebbe a Londra) che gli permette di riciclare quella regia decentrata e asimmetrica che lo aveva caratterizzato due anni fa. Ma non si ricicla (completamente): anche perché ha davanti a sé così tanta roba, così tanta storia, così tanti attori e costumi e scene e canzoni che non può dedicarsi a lunghe inquadrature perché le due ore e mezzo che già paiono ora essere infinite sembrerebbero altrimenti eterne. Si piega alla musica già esistente (e alla solita canzone originale che per tradizione si infila nei musical per il cinema, la candidata all'Oscar Suddenly) per cui è ora introspettivo ora epico ora frammentato con un montaggio serrato che inquadri tutti gli interpreti sparsi per la Francia. Resta, in ogni caso, sempre colossale: perché ci sono i film colossali come quelli degli eroi Marvel e ci sono i film colossali con gli elfi di Peter Jackson e poi ci sono i film colossali così: che montano una sull'altra tutte le porte e le ante e le sedie sfasciate che il popolo ha lanciato dalla finestra per costruire la barricata dove i libertini si nasconderanno carichi di polvere da sparo e ideali tradizionali. Colossali nei costumi, tantissimi, uno per ognuno, ognuno per ogni personaggio della storia. Colossali nella quantità di comparse canterine e non e di nomoni hollywoodiani disposti a solfeggiare (Russel Crowe ha preso sei mesi di lezioni di canto prima delle riprese).
In principio, a questo proposito, potremmo dire anche che era una cerimonia degli Oscar, quella del 2009, presentata da Hugh Jackman «australiano che interpreta australiani in film che si chiamano Australia» che ad un tratto, con sorpresa generale, prese dalla prima fila Anne Hathaway e la fece cantare. Divinamente. Da quel giorno, si sa, Anne Hathaway ha una voce della Madonna. E se la sua I Dreamed A Dream fosse alla fine del film, queste sarebbero le due ore e mezzo meglio spese della vostra vita: la scena madre, un primo piano immobile tutto voce e interpretazione e lacrime, una performance tanto breve quanto certa vincitrice dell'Oscar. Ma, ahinoi, la Hathaway muore qui praticamente subito lasciando in eredità alla sudicia Francia dei poveri una bambina bionda e bellissima il cui padre chissà dov'è, e il protagonista di questa storia, che ha scontato venti immeritati anni di lavori forzati per aver rubato del pane, ora sindaco della città, prende a cuore la situazione della pargola e la cura fino all'adolescenza, quando incontrerà l'uomo della sua vita grazie alla bambina con cui era solita passare le giornate in casa degli eccentrici Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter che fa sempre la stessa, solita, uguale, ricopiata parte negli stessi soliti, uguali, ricopiati costumi (Il Discorso Del Re fu unica eccezione). Ma è la Francia della rivoluzione, dei bambini con le pistolette in mano che giocano alla guerra, ed è la Francia dei miserabili arricchiti grazie a un nome cambiato, un cognome taciuto, che devono sempre nascondersi nell'ombra.
Qualche parola detta e tutte le altre cantante. Continuamente cantate. Irrimediabilmente cantate. Non si risparmia nemmeno un brano dal repertorio originale. Tutto è messo in scena in modo maestoso, al punto da chiedersi: come può funzionare questa cosa a teatro da cinquant'anni? Se già si ha mal-digerito Chicago, e soprattutto Moulin Rouge!, i più commerciali musicals di Hollywood, e soprattutto se si è usciti in anticipo dalla sala con Sweenie Todd, allora questo non è il film che fa per voi. Anche se vi mostra il lato più tenero di Eddie Redmayne, l'interprete originale Samantha Barks, la melma e gli splendori dei monti alpini, le bandiere rosse e gli ideali attivi e Amanda Seyfried angelica usignola: avrete voglia di darvi il bracciolo della poltroncina in testa fino allo svenimento.

Producers Guild Awards - vincitori.



E sono stati dati anche i Producers Guild Of America Awards, i premi che i produttori americani assegnano ogni anno da 24 anni al film, cartone animato e documentario meglio prodotti nell'anno solare.
Dopo un gruppo di nominations che di molto poco si discostano dagli Oscar (non compare, qui, il cinque volte candidato Amour), ha trionfato il film che ormai trionfa sempre nelle cerimonie più mondane, ma che in quelle di nicchia e più elevate viene costantemente battuto da Zero Dark Thirty della Bigelow. Argo accontenta il suo regista Ben Affleck e il suo produttore George Clooney (assente dalle scene quest'anno) e il suo amico sceneggiatore Grant Heslov (autore degli script di Good Night, And Good Luck. e Le Idi Di Marzo ma anche attore e regista) e vince il premio più ambito con la solita ovazione, mentre la sorpresa coglie il versante animato perché la Disney, con i suoi soliti tre film candidati, viene stracciata dal piccolo ParaNorman della Laika che, a questo punto, inizia ad avere le sue speranze di portare il primo Oscar nella neonata casa di produzione (quella di Coraline). Di seguito oltre ai vincitori anche i candidati e, dopo l'interruzione, il premio al documentario, Searching For Sugar Man che diventa quindi il documentario più premiato dell'anno seguito subito dopo da The Gatekeepers, il più probabile contendente ai prossimi Oscar.

Miglior Produzione per un Film di Finzione
Premio Darryl F. Zanuck
 Argo  (Warner Bros.): Ben Affleck, George Clooney e Grant Heslov
Beasts Of The Southern Wild (Fox Searchlight Pictures)
Django Unchained (The Weinstein Company)
Les Misérables (Universal Pictures)
Vita Di Pi (Fox 2000 Pictures)
Lincoln (Touchstone Pictures)
Moonrise Kingdom (Focus Features)
L'orlo Argenteo Delle Nuvole (The Weinstein Company)
Skyfall (MGM/ Columbia Pictures)
Zero Dark Thirty (Columbia Pictures)

Miglior Produzione per un Film d'Animazione
Ribelle - The Brave (Walt Disney Studios Motion Pictures)
Frankenweenie (Walt Disney Pictures)
 ParaNorman  (Focus Features): Travis Knight & Arianne Sutner 
Le 5 Leggende (Paramount Pictures)
Ralph Spaccatutto (Walt Disney Studios Motion Pictures)

un rumore innaturale.



Lincoln
id., 2012, USA, 150 minuti
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura non originale: Tony Kushner
Basata sul romanzo Team Of Rivals di Doris Kearns Goodwin
Cast: Daniel Day-Lewis, Sally Field, Tommy Lee Jones,
David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt, Hal Holbrook,
John Hawkes, Jakie Earle Haily
Voto: 7.9/ 10
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Candidato a 12 Premi Oscar:
film, regia, sceneggiatura non originale, attore, attrice non protagonista,
attore non protagonista, montaggio, fotografia, costumi, scenografia,
colonna sonora originale, mixaggio sonoro
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Anche quest'anno Steven Spielberg non riesce ad essere assente agli Oscar. Dopo le cilecche di tutte le cerimonie precedenti (l'anno scorso War Horse su 6 nominations non ha vinto niente; stesso anno Tintin una nomination e niente; nel 2005 Munich 5 nominations e niente; prima ancora La Guerra Dei Mondi 3 nominations e niente; Prova A Prendermi 2 nominations e niente; Minority Report una nomination e niente; A.I. 2 nominations e niente) (e bisogna andare indietro al 1998 per contare i 5 Oscar vinti da Salvate Il Soldato Ryan tra cui quello personale alla regia) e proprio per le suddette cilecche è stato infilato in una categoria, quella della Miglior Regia, completamente potata dei possibili vincitori per cui se la gode contro un austriaco e uno appena trentenne. Perché questo Lincoln è stato elogiato già dalla sua prima proiezione in patria proprio per il suo essere uscito contemporaneamente a Zero Dark Thirty che ha scatenato le bufere, e ha rappresentato, ecco, ciò che l'America vuole vedere: un film ai limiti del documentario, e non ai limiti del fascismo. Infatti, dopo aver plagiato le menti dei bambini con l'epopea gerrigliera di War Horse raccontando l'amicizia tra un soldato e il suo cavallo che passa dalle truppe americane a quelle tedesche con qualche morto e senza nessuno stupro, Spielberg annulla se stesso e ciò che ha sempre fatto nella vita, e cioè del cinema, il cinema vero, quello dove la camera da presa rende lo spettacolo in sala, quello con le panoramiche di mondi inesplorati e creature che non esistono e musiche storiche e picchi emotivi e si cela dietro una sceneggiatura ai limiti dello storicismo (di colui che scrisse Angels In America in tutte le sue declinazioni, Tony Kushner, super-favorito nella categoria agli Oscar) di cui è molto difficile cogliere ogni dettaglio e ogni battuta e ogni riferimento politico se non si conosce, ancora una volta, l'America e il suo passato, e si cela soprattutto dietro la schiera di attori, nomi immensi del cinema dei decenni scorsi e probabilmente di quelli che verranno, e fa in modo che Daniel Day-Lewis («il più bravo di tutti» riporta Vanity Fair) si doni a noi in tutto il suo splendore e in tutta la sua esagerata altezza, con una voce italiana (di Pierfrancesco Favino) ai limiti del macchiettistico, fa in modo che Sally Field (la Norma Rae che Anne Hathaway ha ricordato sul palco dei Golden Globes) prenda anima e corpo di una moglie che «passerà alla storia come una donna pazza», che Tommy Lee Jones renda ironiche le scene più politicamente profonde e ci porti verso un finale che forse non ci aspettavamo, e recupera dal quasi-dimenticatoio gli ex candidati Jakie Earle Haily (per un film bellissimo che si chiama Little Children che non arrivò mai in Italia) e John Hawke (per Un Gelido Inverno) e Hal Holbrook (per Into The Wild) dimostrando che almeno in questo, nella capacità di saper gestire gli attori, di sceglierli al meglio, in questo è ancora capace (ricordiamo che per War Horse prese Jeremy Irvine che per carità, un musetto tanto caruccio ma abbiamo avuto la conferma delle sue doti in Grandi Speranze). E così, di fianco al regista che non si vede, che si concede anche l'attore del momento, il Joseph Gordon-Levitt in sala anche con l'altro film dell'anno, Looper, a nascondersi per bene è pure il suo storico compositore, John Williams, che con altre due candidature toccherà la soglia delle 50 (cinquanta!) nominations e tutti gli rideremo dietro perché ne ha vinti solo cinque.
C'è bisogno di raccontare la trama? Siamo alla fine della guerra che ha scorticato l'America dal di dentro e siamo anche alla fine della presidenza di Abramo Lincoln, al suo secondo e ultimo mandato. Il presidente tanto amato dal popolo di cui Spielberg sottolinea l'amore per gli aneddoti anche immotivati, il presidente che mise mano al tredicesimo emendamento, rendendo così questo film degno successore di Django perché dove quello parlava cruentemente di ciò che la schiavitù fa, questo parla di ciò che non dovrebbe fare, e ce lo racconta tra le aule di tribunale e gli uffici di delegati, sempre tra completi impeccabili e pizzi addosso alle signore. È ancora il cinema da-nominations-agli-Oscar di Spielberg ed è ancora un auto-elogio dell'America. Ma a differenza di tutti i precedenti, questo non pare neanche un film. A tenerci tesi, in sala, c'è solo una scena, ben costruita, solo una piccola parte, quella del voto; tutto il resto, è puro materiale per gli amanti della battuta fine e delle cronache estere.

lunedì 28 gennaio 2013

Screen Actors Guild - vincitori.



Qualche sorpresa ha segnato la consegna dei 19esimi Screen Actors Guild Awards, i così detti SAG che premiano le performance di attori e attrici e stunt nel cinema e nella televisione, qualche sorpresa per il piccolo schermo (30 Rock vince l'attrice Tina Fey e l'attore Alec Baldwin rubando le statuette a Modern Family, e per le serie drammatiche Breaking Bad batte Homeland) ma niente di nuovo, o quasi, sul piano cinematografico.
L'unica sorpresa potrebbe essere il premio non dato a Philip Seymour Hoffman per The Master, Oscar ormai quasi certo (per un film totalmente ignorato) per una performance che qui è stata messa in secondo piano dal navigato Tommy Lee Jones che, oltre all'altra certezza, il Daniel Day-Lewis di Lincoln, porta un secondo premio in casa Spielberg. Sul versante femminile, di certo c'è la Anne Hathaway de Les Misérables, tanto amata nel suo ruolo canterina e generalmente poco frequentatrice di queste premiazioni (se non per la parentesi Rachel Sta Per Sposarsi) mentre il ruolo da protagonista se lo contendono le due attrici dell'anno, la Jennifer Lawrence de Il Lato Positivo e la Jessica Chastain di Zero Dark Thirty, e in questo caso vince la prima, super-favorita agli Oscar perché unica possibilità di dare un premio al film di David O. Russel (su otto nominations). Ma comunque, la sua figura la fa Argo: il film dell'anno, che nonostante non abbia nessun attore candidato singolarmente se non Alan Arkin, vince il premio più ambito, quello per il cast.
Mentre scrivo, viene aggiornata la pagina del sito ufficiale con i video dei discorsi ai microfoni tenuti dai vincitori nella serata di ieri sera. Lì troverete anche i premi dati alla televisione e, di seguito, tutti quelli per il cinema.


Miglior Cast in un Film
 Argo 
Ben Affleck, Alan Arkin, Kerry Biche, Kyle Chandler,
Rory Cochrane, Brian Cranston, Christopher Denham,
Tate Donova, Clea Duvall, Victor Garber, John Goodman,
Scoot McNairy, Chris Messina

Marigold Hotel
Judi Dench, Celia Imrie, Bill Nighy, Dev Patel, Ronald Pickup,
Maggie Smith, Tom Wilkinson, Penelope Wintoln

Les Misérables
Isabelle Allen, Samantha Barks, Sacha Baron Cohen,
Helena Bonham Carter, Russel Crowe, Anne Hathaway,
Daniel Huttlestone, Hugh Jackman, Eddie Redmayne,
Amanda Seyfried, Aaron Tveit, Colm Wilkinson

Lincoln
Daniel Day-Lewis, Sally Field, Joseph Gordon Levitt,
Hal Hollbrook, Tommy Lee Jones, James Spader, David Strathairn

L'orlo Argenteo Delle Nuvole
Bradley Cooper, Robert De Niro, Anupam Kher,
Jennifer Lawrence, Chris Tucker, Jaki Weaver

sabato 26 gennaio 2013

per Dio, per la nazione.



Zero Dark Thirty
id., 2012, USA, 157 minuti
Regia: Kathryn Bigelow
Sceneggiatura originale: Mark Boal
Cast: Jessica Chastain, Joel Edgerton, Chris Pratt, Jason Clarke,
Kyle Chandler, Jeremy Strong, James Gandolfini
Voto: 9.2/ 10
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Candidato a 5 Premi Oscar:
film, sceneggiatura originale, attrice,
montaggio, montaggio sonoro
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Il film, ci viene detto all'inizio, è una ricostruzione più o meno fedele basata «su testimonianze» reali. Prima polemica: certi membri dell'Intelligence americana hanno rivelato un po' troppo allo sceneggiatore Boal che ha ricostruito troppo fedelmente la vicenda (che però – attenzione! – è sceneggiatura originale). Con più di cinque ore di girato, i montatori Goldenberg & Tichenor (il primo montatore anche di Argo) hanno sforbiciato la pellicola quasi documentaristica sotto il comando della tanto elogiata Bigelow che ha reso quindi il prodotto più cinematografico possibile, addirittura troppo: perché questo continuo parlare di Storia, di docu-fiction, di trasposizione del reale, distoglie il pubblico da ciò che sta in realtà guardando: un film. Il solito film americano con la C.I.A., con una protagonista determinata contro cui tutti alzano le sopracciglia, che ostinatamente sottolinea la sua ragione e, ovviamente, poi l'ha vinta. Per cui, per questa carica di realismo (non realtà) l'uscita del film è stata posticipata fino a dopo l'elezione alla Casa Bianca – perché nella pellicola c'è un piccolo Obama che parla in televisione, e la scelta di ciò che dice ha suscitato altre polemiche. Con le nominations ai Golden Globe e il riscatto della regista che per The Hurt Locker non aveva ricevuto nessuna candidatura (e poi 6 Oscar) le prime recensioni sono fioccate (contemporanee al buonista Lincoln) ed ecco i paragoni: quello è il solito film di Spielberg tutto merletti e questo è un film-non film che parla di una cosa troppo recente. La cosa, recente, dovrebbe rendere orgogliosi gli americani, che tanto ci hanno (giustamente, per carità) fracassato le palle con l'11 settembre: quell'episodio li vedeva sconfitti e questo li vede vincitori. Ma no: certa stampa inglese di sinistra l'ha decretato «ai limiti del fascismo»; la C.I.A. è intervenuta (personalmente?) per evidenziare come la scena d'apertura, la tortura su un prigioniero pakistano, sia troppo esagerata o esageratamente dura, che certe pratiche torturatorie non vengono mica usate più.
Bene, in tutto questo, allo spettatore medio, allo spettatore italiano che non ha capito niente di Syriana, che non sta ad ascoltare cosa dice Obama che passa in TV quattro secondi in una scena, che non ha idea di come funzioni la C.I.A., che differenza ci sia con l'Intelligence e quanto sia alto il patriottismo americano, il film sembrerà un film normale, e non una docu-story, un film di spionaggio «meno bello di Argo» (con cui condivide anche il compositore che pare riciclare gli spartiti de L'uomo Nell'ombra) perché meno popolano, meno popolare, fatto non per il pubblico ma per il cinema, il cinema quello vero che, guarda un po', Kathryn Bigelow ha scoperto (e noi abbiamo scoperto lei) quando ha lasciato la fede nuziale e l'aiuto di James Cameron e ha raccolto dalla strada uno sconosciuto Mark Boal che tutto ciò che aveva fatto nella vita era stato scrivere il soggetto di Nella Valle Di Elah. Insieme, hanno raccolto tutto questo «materiale» di cui sopra che ha permesso di ricostruire questa (dolorosa) (ambigua) (accusata) storia che ha coperto dieci anni di operazioni americane durante le quali basi segrete e rifugi nel deserto del Medio Oriente non sono bastati ad avere informazioni su attentati andati a buon fine (e c'è l'errore del numero d'autobus inglese) e mandanti di quegli attacchi. Viene quindi mandata là la giovanissima Maya, una Jessica Chastain (attrice dell'anno scorso e, a vederla nel primo e secondo film in classifica, anche di questo) di cui non sappiamo niente, se non che è stata chiamata «per un motivo che non è permesso rivelare» nell'organo segreto nazionale quando ancora era al liceo, ma in fondo questa è la sua prima vera operazione. Convinta di aver capito dove si nasconda Osama Bin Laden, cerca di convincere chi la circonda, senza molti successi. E il femminismo delle inquadrature si contrappone alla carica virile del film precedente, mostrandoci però che la Bigelow è tanto abile a gestire una solitudine femminina quanto a scavare nell'animo patrizio con la magistrale, sopraffina, impeccabile scena finale della missione, in cui i militari si guardano a vicenda elencando la gente che hanno dovuto ammazzare, cercando di convincere più loro stessi che gli altri. Ne segue un giusto finale, che dopo un film a tratti “facile” e quasi “usuale” nelle immagini (la Chastain non ha poi un così grandioso personaggio) resta sempre alto a livello di tensione (ricordo: racconta di dieci anni) e lascia poi un vuoto tra il petto e la gola perché non c'è spazio a nessuna celebrazione, nessuna gloria. Ciò che si doveva fare è stato fatto.

Анна Каренина.



Anna Karenina
id., 2012, UK, 129 minuti
Regia: Joe Wright
Sceneggiatura non originale: Tom Stoppard
Basata sul romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj
Cast: Keira Knightley, Aaron Taylor-Johnson, Jude Law,
Domhnall Gleeson, Alicia Vikander, Olivia Williams, Emily Watson
Voto: 9/ 10
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Candidato a 4 Premi Oscar:
colonna sonora originale, fotografia, scenografia, costumi
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“Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro” esordisce persino Vladimir Nabokov in Ada O Ardore (Adelphi, 2000) a dimostrazione di come la fama di quel suo compatriota romanzo sia mondiale e intramontabile, già portato al cinema tredici volte (due volte, una muta e una sonora, con Greta Garbo) e altrettante in TV, e tutte le volte a ripetere che «è meglio il libro», che «è sempre meglio il libro». E così per quest'ennesima trasposizione di cui non sentivamo assolutamente il bisogno, che tanto finisce pure 'sta volta che è meglio il libro, Joe Wright, il regista di Espiazione e Orgoglio E Pregiudizio (uno a cui, come alla Knightley, piace insomma ri-leggere cose antiche, e non mi sorprenderebbe scoprire che la prossima collaborazione sarà per Madame Bovary) – e attenzione, il manifesto non riporta i flop Hanna e Il Solista – fa ciò che nessuno, purtroppo, fa mai: interpreta. Rinnova. Cambia. S'ingegna. E come si vede dal manifesto, come si vede dalla prima, apparentemente banale, scena, infila tutto in un teatro. Tutta Mosca è nel teatro. Tutta San Pietroburgo. E quando uno se ne va da San Pietroburgo, se ne va dal teatro. E con l'incipit capiamo tutto: capiamo che le scenografie saranno meglio di quelle di Ferretti & Lo Schiavo per Hugo Cabret, capiamo che l'ennesima colonna sonora classicheggiante del nostro Dario Mrianelli è bella più delle precedenti, capiamo che questa volta, a differenza dei precedenti, ci sarà un gusto estetico diverso, poetico nel muovere la telecamera, nell'incastrare gli elementi e i personaggi in questo teatrino delle marionette in cui riesce a starci, addirittura, il treno intero, addirittura l'ippodromo, l'opera, il teatro dove Anna (la Keira Knightley che ormai non vediamo in jeans da diec'anni) ama far vita mondana a discapito della reputazione del marito Jude Law, barbuto e con gli angoli della bocca sempre in giù, ma tanto buono, tanto caro.
La storia, ci è nota (immagino) (spero): moglie regale con figlio, Anna Arkadievitch Karenina parte tra la neve per raggiungere la sorella che questa volta, ha deciso, lascerà il marito dopo l'ennesimo tradimento. La convince ancora una volta a non demordere, a tenere saldo il legame, perché l'amore vince sovrano anche su queste minuzie. E si imbatte, prima in treno e poi a un ballo al quale aveva deciso di non partecipare, in quello che potrebbe essere il futuro marito di sua cugina Kitty, giovane e bionda e inglese ma che abbiamo visto nel candidato all'Oscar A Royal Affair (Alicia Vikander). Scena magistrale: il ridicolo ballo del tempo incanta tutti i presenti lasciando Anna e Andrej da soli, al centro della sala, sotto lo sguardo in realtà di tutti, mentre la telecamera gira, gira, e conduce ancora una volta a un treno, in fuga da una tentazione che però correrà poco dopo a cavallo. Lo scandalo è dietro l'angolo e il danno è praticamente fatto, ché tra un pacato e barbuto Jude Law e un giovane e biondo Aaron Johnson (che qui prende anche il cognome della compagna e regista Sam Taylor, 46enne) (lui ha 22 anni) non c'è paragone: si ameranno un po' con sensi di colpa un po' senza, un po' all'aperto un po' al chiuso, ricordando sempre che “l'aperto” e “il chiuso” sono sempre dentro a questo teatro, in cui per guardare i fuochi d'artificio occorre aprire il tetto.
Compaiono, due volte a testa, in due piccoli camei, due regine della recitazione inglese, che sempre meno si concedono alle sale e alle telecamere se non per ruoli sporadici (una in realtà è adesso al cinema col tremendo A Royal Weekend): Emily Watson la “pazza delle campane” de Le Onde Del Destino che pregava Dio e si rispondeva e poi Olivia Williams, la first-lady ne L'uomo Nell'ombra e professoressa accondiscendente in An Education.
Certo, è presto per parlare, come hanno fatto regista e attrice, di «messa in discussione del film in costume», perché un film in costume in realtà questo è, un po' claustrofobico, estremamente minuzioso negli accessori e nelle ricostruzioni e soprattutto nei meravigliosi (appunto) costumi: niente a che fare con Dogville, perché anche il teatro è qui artisticamente dignitoso e se ne occupa tanto il palco quanto la platea. E per quanto la prima parte sia affrontata con molta più poesia della seconda, che verte tutta sulla presunzione e quasi ingenuità di Anna e i suoi tormenti, arriva la scena finale che ci rinnova l'emozione provata in principio: la più bella scena di chiusura degli ultimi tempi, che sottolinea come tutto ciò che abbiamo visto sia fittizio (ma lo fa diversamente da Persona), e i nostri sentimenti verso i personaggi sono destinati a morire.

giovedì 24 gennaio 2013

dulcis in fundo.



La Bottega Dei Suicidi
Le Magasin Des Suicides, 2012, Francia, 108 minuti
Regia: Patrice Leconte
Sceneggiatura non originale: Patrice Leconte
Basata sul romanzo Il Negozio Dei Suicidi di Jean Teulé (Vertigo)
Voci originali: Bernard Alane, Isabelle Spade, Kacey Mottet Klein
Voci italiane: Pino Insegno, Fiamma Izzo, Luca Baldini
Voto: 6.8/ 10
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Francia: una cittadina non meglio definita se non dal suo grigiore, conta un tentativo di suicidio ogni quaranta minuti e solo il 20% di questi va a “a buon fine”; in pubblico, è vietato farlo: per cui niente lanci sotto ai camion, niente pistole infilate in bocca. Si rischia una multa, e quando il cittadino irrispettoso ci resta secco in parchi e piazze ecco la vettura della polizia pronta ad accostare il cadavere e infilargli, in bocca o tra le dita rattrappite, il biglietto dell'ammenda, che chissà chi pagherà, mentre il cianotico corpo rimane lì.
Il cinismo di questo dettaglio è un po' il cinismo che copre gran parte della prima metà del film: un vecchino, che coglie il tentativo di buttarsi sotto all'autobus di un magro disperato, lo salva dal rischio di non farcela e trovarsi a carico poi la penale da pagare e lo conduce nella coloratissima e ridente Bottega dei Suicidi dove si è trapassati o rimborsati, dove c'è una vasta scelta di corde con cappi già annodati, serpenti, prese elettriche, veleni, spade. Ad accogliere la clientela, con una prima già tremenda canzone, la famiglia Tuvache, composta da madre (dal polmone canterino della nostra Fiamma Izzo), padre (Pino Insegno), due figli nati (col broncio) e uno in arrivo.
E si contano già gli antenati di questo film, alla cui base c'è un libro di Jean Teulé (edito in Italia da Vertigo) e un regista che io conobbi da piccolo con a L'amore Che Non Muore e che incontrò la fama tanto in Francia quanto in America con Ridicule (candidato all'Oscar) e quella italiana con Il Marito Della Parrucchiera. Ma Patrice Leconte, il regista, sa di essersi addentrato in un settore difficile e a lui ignoto – quello dell'animazione, per il quale la Francia conta un autore amato da mezzo mondo per la sua silenziosa poesia di introspezione e colori (il Sylvain Chomet de L'illusionista e Belleville) e qualche altra meteora di passaggio ogni tanto (Felicioli, Gagnol), per non parlare della tradizione a fumetti, celebrata in terra francofona con accuratezza di stampe e di rilegature. Per cui, i disegni cercano di farsi valere, soprattutto per come sono riempiti e non tanto per come sono mossi. Ma la tradizione disneyana del film-musical con quattro canzoni di cui almeno due certamente si candideranno all'Oscar può valere per la Disney, che conta librettisti teatrali e vincitori di Tony e Grammy a scrivere musiche e testi, non vale qua: le canzoni, così tante che se ne perde il conto, anche se alcune solo accennate, sarebbe meglio che non ci fossero. Sarebbe meglio che non ci fosse anche questo nuovo figlio che poi arriva, biondo e sdentato e col sorriso stampato in faccia, felice di vivere, generoso verso una sorella che vede bellissima e alla quale regala una scusa per spogliarsi davanti alla finestra (trovata inutile quanto quasi volgare).
Nell'autobus che prende quotidianamente per andare a scuola, Alain (il pischello) occupa gli ultimi posti con i compagni felici mentre il mortorio vige sovrano dentro e fuori dalla vettura: chi attraversa col rosso, chi si lancia dal tetto, persino i piccioni s'ammazzano mentre i topi cantano. I cinque allegri ragazzi vivi pensano a uno stratagemma per portare la gioia nel mondo, e trovano la soluzione in un'auto.
Colpito pesantemente dalla censura che in Italia l'ha vietato ai minori di anni 18 (quindi chi lo va a vedere, un cartone animato, sopra ai 18 anni? Mia nonna non di certo. E chi lo distribuisce, un cartone animato vietato, che non è erotico ma anzi pieno di canzonette ciniche, in Italia?), uscito a dicembre, ha trovato spazio in una decina circa di sale in tutto il Paese. Adesso, le sale sono scese a quota cinque. Il marasma della censura, in cui s'è infilato anche il regista indignato («il film è un inno alla vita!»), ha portato gruppi di curiosi a migrare verso queste sale maledette e cupe più simili a un aereo che a un cinematografo per scoprire cosa lo Stato non ci vuole far vedere; e sono tornati tutti a casa delusi.

giovedì 17 gennaio 2013

Alexandre Dumas era nero.



Django
Django Unchained, 2012, USA, 165 minuti.
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura originale: Quentin Tarantino
Cast: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio,
Kerry Washington, Samuel L. Jackson, Walton Goggins
Voto: 7.9/10
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Candidato a 5 Premi Oscar:
film, sceneggiatura originale, attore non protagonista,
fotografia, montaggio sonoro
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Non completamente: Alexandre Dumas, lo scrittore francese de Il Conte Di Montecristo e la trilogia I Tre Moschettieri, era nero solo in parte, per un quarto, in quanto figlio di un mulatto. Ma Tarantino che ama le esagerazioni esagera anche la melanina perché gli serve una frase ad effetto in questo film di frasi ad effetto e melanina.
Dopo lo zuccheroso The Help e il trucido The Paperboy, l'America sforna un altro capitolo della passata condizione razziale e va ancora più indietro, alla Guerra di Secessione, e ancora più a Ovest, dove Clint Eastwood era solito sfoderare la pistola sulle musiche di Ennio Morricone. E basandosi su un Django tutto italiano interpretato da Franco Nero (che viene chiamato qui a parlare nella sua lingua natale), il Quentin Tarantino che tutti sappiamo amante dei B-movies, dello splatter e dei piedi delle donne si sposta (coerentemente) su un nuovo binario, quello del western senza troppi spaghetti ma con molti morti ammazzati, il western dei saloon in cui oltre a spaccarsi le bottiglie si spaccano anche i crani, degli schiavi appesi per i piedi a cui viene tagliato via il pisello. Ci era piaciuto così tanto, l'ultima volta, con il geniale Bastardi Senza Gloria (che aveva fatto conoscere al mondo il poliglottismo e la recitazione di Christoph Waltz) e ci era piaciuto molto perché quel film praticamente era fatto di quattro sequenze in tutto, quattro sequenze lunghissime (mamma mia, la prima), estenuanti, ma che ci tenevano impalati davanti allo schermo. C'erano molti personaggi, separatamente intrecciati. Qui invece c'è una trama fin troppo scorrevole, una struttura narrativa semplicissima perché lineare e cronologica, uno schiavo nero come molti schiavi neri eppure diverso, che viene comprato da un cacciatore di taglie perché lo aiuti a riconoscere (ed ammazzare) tre fratelli banditi sulle cui teste c'è una grossa taglia. I due, Jamie Foxx e ancora una volta Christoph Waltz (che è quasi più protagonista del protagonista) inizieranno un'amicizia che non vediamo ma supponiamo fraterna, per lo stupore generale delle genti nel vedere un nero a cavallo. Il suddetto nero, abile nel fingere di essere uno schiavista e non un Gandhi, racconta di essersi sposato con un'altra povera schiava frustata e marchiata e di averla persa perché data ad altri proprietari, e convince il compare (guai a dire padrone) di andarla a recuperare, pagare per lei, farla diventare una donna libera. Waltz, pieno di bontà e comprensione, acconsente, e così si finisce tutti quanti in casa di Leonardo DiCaprio. Eccola la scena lunga, estenuante: quella della cena. Ed ecco il Tarantino che avevamo lasciato, che troviamo pure poco dopo, in un Vajont di sangue e schizzi e pallottole contro la carta da parati, le scale, i fiori bianchi fuori dal taschino.
Fuori dalla trama, c'è la sua regia: un'imitazione pari pari di quei film anni '70 con le scritte rosse sull'immagine, con gli zoom sui protagonisti sorridenti, con la musica che ripete il nome del protagonista – costruita, qua, su materiale vecchio e nuovo: sulle musiche non originali di Morricone e quelle create appositamente come la base per la canzone di Elisa, un po' insipida, al contrario del brano, per esempio, di John Legend. E dentro alla trama c'è Tarantino stesso, che si concede una parte piccola piccola giusto alla fine. E intorno a lui ci sono tutti questi attori bravissimi, primo su tutti Samuel L. Jackson nel suo più snervante ruolo, quello orwelliano di un nero che si comporta come un bianco (davanti agli altri neri).
Due inaspettate vittorie ai Golden Globes (sceneggiatura e attore non protagonista) non sono bastate a lavare l'amaro dalla bocca di Jamie Foxx, che al microfono ha detto «ottimo lavoro, ragazzi» ai candidati DiCaprio e Waltz. Per lui, nessuna nomination. E l'amaro in bocca ce l'abbiamo anche noi.

martedì 15 gennaio 2013

il volo (e la caduta).



Flight
id., 2012, USA, 138 minuti
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura originale: John Gatins
Cast: Denzel Washington, Nadine Velazquez, Tamara Tunie,
Bruce Greenwood, John Goodman, Melissa Leo
Voto: 7.2/ 10
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Candidato a 2 Premi Oscar:
attore, sceneggiatura originale
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«Corri Forrest!» è una di quelle frasi che si sentono sempre urlare nel momento in cui qualcuno, in qualsiasi momento, dovunque, comincia o continua a scappare. La parabola della scatola dei cioccolatini, le lacrime delle maestre che fanno vedere il film agli studenti delle elementari e medie.
Esistono, dunque, registi che fanno questo genere di film e altri registi. Questo, che si chiama Robert Zemeckis, aveva cominciato la sua carriera dalla cima di una montagna (i film glieli produceva Steven Spielberg e glieli scriveva Bob Gale, quello che s'è inventato i personaggi di Ritorno Al Futuro) arrivando a diversi generi di muscugli (fiction e animazione: Chi Ha Incastrato Roger Rabbit?; mélo e nonsense demenziale: La Morte Ti Fa Bella; fantascienza e comedy: Ritorno Al Futuro) per pellicole che l'avevano pure portato spesso agli Oscar, fino al botto internazionale di Forrest Gump che di Oscar ne ha vinti sei (tra cui quello alla Regia) e poi Contact per concludere le sperimentazioni sci-fi commerciali, e poi la discesa. Tutti i film successivi sono stati fatti per quel pubblico che s'era emozionato con il giovane Tom Hanks, per cui l'adulto Tom Hanks viene preso e buttato su un'isola cercando di sopravvivere, un treno va diretto verso il Polo Nord per incontrare Babbo Natale, il Bewolf che si studia in Letteratura Inglese prende vita e muscoli e armatura. Un disastro a livello di critica, sebbene l'ultimo A Christmas Carol abbia incassato non poco (e abbia avuto una splendida locandina). Per cui, ci voleva un altro Forrest che corresse verso qualcosa, e quindi che cosa?, verso il risanamento, verso la vita placa che tutti conducono, la normalità, un Forrest nero e alcolizzato che sbattesse la testa contro il pericolo e si prendesse la responsabilità delle sue bugie e finalmente si emancipasse da ogni dipendenza. Ah!, che tema originale!, che situazione poco ortodossa, poco monotona! La storia di un drogato che quando le cose si mettono male, ma male sul serio, per sé e per la sua famiglia, smette di drogarsi. Che novità!
Ma in questo caso il drogato Denzel Washington è più un bevitore che uno sniffatore e ovviamente è uno tosto, uno arguto, uno che fa il pilota d'aerei e se il mezzo si perde il motore e l'ala va in fiamme sa bene come farlo atterrare nel primo campo disponibile senza (o quasi) ammazzare i passeggeri. È uno che sa, lo sa di essere un bravo pilota, uno dei migliori, «famoso per la puntualità», per cui se parte una causa legale alla scoperta dei motivi del disastro aereo, il suo alcolismo e le tre bottigliette di vodka scomparse e la coca trovata in corpo non hanno peso giudiziario.
In questo tragitto verso una redenzione che già sappiamo benissimo come andrà a finire (ed in effetti, il finale, ha un dettaglio anche carino), tragitto non per via aerea ma per terra – che, ammetto, ci sono momenti che ci tiene davvero in piedi, nel senso che siamo curiosi di capire come andrà a finire – tre sono i fattori interessanti: la scena della bufera, dell'aereo che si ribalta, della hostess che si sballotta, delle immagini sfocate post-schianto; il discorso che un malato di cancro fa tra le scale di un ospedale; questa dipendenza che si cerca di ammazzare ma non ci si mette davvero l'anima per una presunzione interna, unico aspetto davvero realistico del film. Ce ne aggiungo un quarto: Melissa Leo, che il suo bell'Oscar l'ha già vinto (Denzel Washington ne ha vinti due) che sebbene stia lì per cinque minuti cinque, ci regala un'immagine diversissima da quella che ce l'ha fatta conoscere (il bellissimo Frozen River). Il regista no, non ce lo metto: perché, il regista, c'è?

lunedì 14 gennaio 2013

Golden Globes 2013 - vincitori



Non era neanche finita la cerimonia di premiazione che subito i TG flash americani hanno cominciato a parlarne, lei è diventata trend topic sia col cognome che senza su Twitter e comparivano video appena registrati su YouTube: il discorso di Jodie Foster, premiata col Cecil B. DeMille Award alla carriera, che oltre ad aver orgogliosamente dichiarato di avere cinquant'anni (e da trentasei è sullo schermo) ha anche preparato la platea al suo «discorso di coming-out» in cui avrebbe rivelato qualcosa che non ha mai rivelato nella sua vita e che è giunta l'ora di dire: è single. Poi, scherzando, ha colto l'occasione per interrogarsi (e interrogarci) sul motivo per cui i personaggi dello spettacolo diventano protagonisti di reality show, sull'importanza e il senso della privacy, sottolineando la difficoltà con cui si conduce una vita privata. A questo punto il discorso prende una svolta che fa commuovere il pubblico perché si affronta il tema del cinema indipendente, quello che si fa per emozionare, non per far soldi, i ruoli che si interpretano per la loro bellezza che sono sempre meno, motivo per il quale potrebbe lasciare le scene (insieme alla malattia della madre).
Il secondo grande avvenimento di questi 70esimi Golden Globes è stata la presenza quasi nulla di Bill Clinton che è stato poi chiamato da una delle due conduttrici, Tina Fey, «il marito di Hillary», e proprio le due conduttrici (la Fey e Amy Poheler) hanno mantenuto la promessa di rendere la cerimonia una sorta di Saturday Night Live di satira cinematografica («Taylor Swift sta' lontana dal figlio di Jamie Foxx»). La Swift, candidata per la Canzone Originale, ha dovuto vedere quel premio andare ad Adele, senza nascondere il disappunto durante il discorso di ringraziamento della più celebre cantante inglese, mentre Michael Danna, il compositore di Little Miss Sunshine, vince la Colonna Sonora alla sua prima nomination, unico premio per Vita Di Pi.
Nessuna sorpresa ai piani alti: Argo è il Miglior Film Drammatico con un gioioso Ben Affleck che vince anche la Migliore Regia (foto) riscattando la non-nomination di tre giorni fa agli Oscar, dall'altra parte è stato Les Misérables a vincere come Film Comedy o Musical – premio che forse sarebbe dovuto andare a Il Lato Positivo, che si accontenta della Migliore Attrice. Il musical di Tom Hooper basato sul romanzone di Victor Hugo fa vincere anche Hugh Jackman come Miglior Attore e Anne Hathaway come Miglior Attrice Non Protagonista aumentando la probabilità di quest'ultima di raggiungere il suo primo Oscar, mentre è chiaro che il Miglior Attore sarà, come qui, Daniel Day-Lewis per la sua metamorfosi in Lincoln. Curioso il successo di Quentin Tarantino: Miglior Sceneggiatura (l'unica completamente originale candidata) e Miglior Attore Non Protagonista, di nuovo, per Christoph Waltz. Mentre torna a casa a bocca asciutta Kathryn Bigelow se non per la sua protagonista Jessica Chastain. La Poheler, all'inizio della cerimonia, ha detto di capire bene perché la Bigelow fa film sulle torture dato che è stata sposata per tre anni con James Cameron. Eppure quattro anni fa i Globes premiarono Avatar e neanche candidarono The Hurt Locker.
Un altro premio dovuto e uno regalato: il primo è per il nostro Film Straniero, Amour, il secondo per Ribelle - The Brave, che batte indicibilmente Ralph Spaccatutto e regala l'ennesimo premio alla Pixar.
Tutti i vincitori, evidenziati in blu, di seguito e dopo il salto, e per la lista dei premi televisivi (in cui di routine vince Homeland per il drama e a sorpresa il bel Girls per la comedy) rimando al sito ufficiale.


Miglior Regia
 Ben Affleck  per Argo
Kathryn Bigelow per Operazione Zero Dark Thirty
Ang Lee per Vita Di Pi
Steven Spielberg per Lincoln
Quentin Tarantino per Django Unchained

Miglior Sceneggiatura
Mark Boal per Operazione Zero Dark Thirty
Tony Kushner per Lincoln
David O. Russell per Il Lato Positivo
 Quentin Tarantino  per Django
Chris Terrio per Argo

sabato 12 gennaio 2013

Eddie Awards - nominations.



Dietro il nome un po' frivolo di Eddie Awards si nasconde il Sindacato dei Montatori Americani per il Cinema, che premia il Miglior Montaggio cinematografico di film drammatici, commedie, d'animazione e documentari.
Giunta alla 63esima edizione, la premiazione si svolgerà sabato 16 febbraio anche questa all'International Ballroom del Beverly Hilton Hotel con la conduzione di David Cross, durante la quale saranno premiati anche due personaggi alla Carriera e uno come Cineasta dell'Anno, ma questi nomi verranno annunciati la prossima settimana.
Come abbiamo visto l'anno scorso, il Montaggio è una categoria essenziale per diagnosticare chi vincerà il Miglior Film agli Oscar, anche se non si direbbe; in questo caso i candidati all'Academy Award sono quattro film drammatici e una commedia qui presenti; ne deriva che Il Lato Positivo è sicuramente il favorito nella categoria comedy mentre i montatori di Zero Dark Thirty reduci dalla vittoria del Critics' Choice Award se la devono vedere con Lincoln, Vita Di Pi e Argo.
Dopo l'interruzione, i candidati al miglior montaggio per un documentario e per un film d'animazione.

Miglior Montaggio per un Film Drammatico
William Goldenberg per Argo
Tim Squyres per Vita Di Pi
Michael Kahn per Lincoln
Stuart Baird per Skyfall
Dylan Tichenor & William Goldenberg per Operazione Zero Dark Thirty

Miglior Montaggio per un Film Comedy o Musical
Cris Gill per Marigold Hotel
Melanie Ann Oliver & Chris Dickens per Les Misérables
Andrew Weisblum per Moonrise Kingdom
Jay Cassidy & Crispin Struthers per Il Lato Positivo
Jeff Freeman per Ted

Critics' Choice - vincitori.



I primi premi ad essere consegnati seguono le nominations agli Oscar di un giorno e aprono la stagione dei pronostici, e fanno sorridere, soprattutto perché il Miglior Film e la Migliore Regia vanno a colui che come regista non è stato candidato, e cioè Ben Affleck, per il suo Argo che ha messo d'accordo critica e pubblico – e che avevo già previsto potesse avere successo.
Assegnati dalla Broadcast Film Critics Association, i 18esimi Critics' Choice Movie Awards premiano, oltre alle categorie “classiche” anche i film a tema, d'azione o di fantascienza o horror, per cui Jennifer Lawrence si porta a casa due trofei come Migliore Attrice (in un action-movie, The Hunger Games e in una commedia, Il Lato Positivo, nuovo titolo nazionale per L'orlo Argenteo Delle Nuvole) e la saga di Twilight vince come miglior franchise. Ma, fatta eccezione per questo triste dettaglio, si vedono già i germi di ciò che si preannuncerà: Anne Hathaway ancora una volta miglior Non Protagonista per Les Misérables, Philip Seymour Hoffman per The Master, Daniel Day-Lewis Miglior Attore per un Lincoln che vince anche la Colonna Sonora e la Sceneggiatura Adattata e Jessica Chastain Miglior Attrice nella categoria più difficile dell'anno (anche lì, come agli Oscar, ci sono l'Emmanuelle Riva di Amour, Quvenzhané Wallis di Beasts Of The Southern Wild, Naomi Watts per The Impossible e la Lawrence). Palesi i premi tecnici a Vita Di Pi (Fotografia e Effetti) e quelli artistici per Anna Karenina (Scenografia, Costumi). Vince Skyfall per il Film d'azione, l'Attore d'Azione e soprattutto la Canzone Originale spianando la strada all'inglese Adele, 24 anni appena, che dopo 8 Grammy, 3 Brit Awards, una nomination ai Golden Globe e una agli Oscar, si appresta a diventare una delle grandi “entertainer” al pari di Barbra Streisand e Frank Sinatra.
Per la lista completa dei vincitori, in tutte le categorie (che vedono anche Cloud Atlas, Django e Looper) rimando al sito ufficiale mentre di seguito, e dopo il salto, candidati e vincitori dei premi più importanti.


Miglior Film
 Argo 
Beasts Of The Southern Wild
Django Unchained
Vita Di Pi
Lincoln
The Master
Les Misérables
Moonrise Kingdom
Il Lato Positivo
Operazione Zero Dark Thirty

questa vita, la precedente.



The Master
id., 2012, USA, 144 minuti
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura originale: Paul Thomas Anderson
Cast: Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams,
Laura Dern, Jesse Plemons, Ambyr Childers
Voto: 8.7/ 10
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Candidato a 3 Premi Oscar:
attore protagonista, attore non protagonista, attrice non protagonista
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Pochi film iniziano in questo modo.
Affidandosi ancora una volta (dopo Il Petroliere) alla bravura compositiva del Johnny Greenwood dei Radiohead (che però quella volta non poté gareggiare per un Oscar che sarebbe stato certo, a causa della non totale originalità della colonna sonora), Paul Thomas Anderson già dall'inizio ci immerge nel suo cinema esteticamente elegante, algido, perfetto. Con un Joaquin Phoenix che si guarda intorno, elmetto in testa, dietro a un cespuglio, e poi si concede a bambole gonfiabili fatte di sabbia e alle masturbazioni non così celate agli occhi dei compagni. Compagni tutti maschi, perché siamo su una costa tra marinai che hanno fatto la Seconda Guerra. Attraverso scene anche lunghe, ma che certo non sono narrativamente accessibili a tutti, capiamo che quest'ossessione per il sesso e il corpo femminile e la penetrazione deriva da uno stress causato dalla lunga astinenza durante il conflitto; è una menomazione psichica alla quale sono costretti quasi tutti i coinvolti, alla quale si aggiunge, per Phoenix, uno zoppicamento perenne, una cicatrice in faccia, un occhio mezzo chiuso, mezza bocca immobile. È un Joaquin Phoenix che tocca livelli di quasi perfezione, che nel più bizzarro e psicologicamente complesso ruolo della sua carriera non si fa offuscare dalla stazza (e dall'immensa bravura) di Philip Seymour Hoffman che butta giù pozioni alcoliche fatte con qualsiasi cosa ricordando le vite passate, urlandole alla folla, pubblicandole in dubbiosi libri. È lui il “master” del titolo: colui che non accettando la condizione di vivere sotto un capo supremo, s'è fatto egli stesso capo, capo della famiglia e di gruppi di credenti (o creduloni), praticando cure per (certi tipi di) leucemia e repressione della rabbia; per questo il loro incontro, tra Hoffman/ Lancaster Dodd e Phoenix/ Freddie Quell provocherà scintille e si trasformerà in una sorta di rapporto padre-figlio fatto di alti e bassi, altissimi e bassissimi, ma un totale rispetto reciproco e una devozione (maggiore da una delle due parti) per cui quando qualcuno parla male del genitore con cui ho appena litigato, lo faccio fuori perché solo io posso urlargli contro.
Tra i due litiganti la terza gode, che per la quarta volta viene candidata all'Oscar (in soli sei anni, e sempre come Attrice Non Protagonista) nonostante la sua sia una parte meteoritica, molto inferiore alle precedenti (sicuramente avrebbe dovuto vincere per Il Dubbio) e di nuovo, dopo Il Dubbio, torna a lavorare con Hoffman solo che mentre in quel film gli faceva causa senza prove, qua lo appoggia con totale fiducia: Amy Adams moglie del capo-mastro accoglie e promuove le teorie del marito credendoci lei quasi più di lui che le partorisce, aiutandolo nelle terapie, mantenendo i piedi per terra quando la relazione con un ubriacone ninfomane sta diventando poco razionale.
E sebbene il Tom Cruise che Anderson lanciò quando era infuocato grazie a Magnolia (sicuramente inarrivabile a livello di costruzione narrativa) non ha gradito molto questa ricostruzione della nascita di una setta para-Scientology, il regista e sceneggiatore (che non è stato candidato né per l'una né per l'altra categoria) non scivola nella pericolosa fossa per cui pare che se la rida facendo innervosire senza rispondere effettivamente il maestro ma evita di affrontare il tema dello sperperamento di denaro a cui ha costretto i suoi adepti.
Ne consegue un film difficile, molto cerebrale, che si guarda coi sensi, con le orecchie soprattutto, che si guarda con gli occhi in quarta fila per cogliere le simmetrie e le bellezze di certe immagini tutte a fuoco, i discorsi e le domande ripetute venti volte. Ma, c'è un ma. Come se non sapesse lui per primo (Anderson) in che modo va a finire la storia, pare che la storia non finisca, o meglio: si conclude e si consuma, ma alla fine usciamo dalla sala convinti di aver dimenticato qualcosa sulla poltroncina.

giovedì 10 gennaio 2013

Academy Awards - nominations.



E così, è accaduto l'impossibile: partendo dall'annuncio delle candidature, non più dato da dietro al leggio da un'ex candidato/a insieme al direttore dell'AMPAS (attualmente Hawk Koch, eletto l'anno scorso), fino alla nomination per il Miglior Film Straniero, premio che agli americani interessa molto poco, che vede l'assenza di Quasi Amici – così come in tutte le altre categorie, nonostante le dicerie.
Puntando alla comicità che ha caratterizzato gli ultimi Golden Globes (saranno condotti, a fine mese, dalle mattatrici Tina Fey e Amy Poehler del Saturday Night Live) gli Oscar 2013 chiamano a sé l'amatissima Emma Stone e il Seth MacFarlane creatore de I Griffin nonché voce di quel capofamiglia e regista di Ted che scopre, durante la lettura dei candidati, di avere una nomination per la Canzone Originale – categoria che non era mai stata data alle sei e mezzo del mattino, ora americana, ma sempre alla sera, con la seconda mandata di premi.
E se tra le canzoni ci si aspetta sempre qualche presenza di troppo (chi ha mai sentito parlare del film Chasing Ice?), dove mancano Elisa & Ennio Morricone ma dove troviamo l'Adele di Skyfall e Suddenly, le due certezze, non ci si aspettava questa potente assenza tra i migliori registi: l'ex vincitrice Kathryn Bigelow, data per certa vincitrice, viene schiacciata dai suoi colleghi maschi, tra cui l'inatteso David O. Russell e l'insperato Benh Zeitlin per il suo Beasts Of The Southern Wild che si rivela il film indipendente dell'anno candidato anche alla Sceneggiatura, al Miglior Film e soprattutto all'Attrice Protagonista, Quvenzhané Wallis di soli 9 anni, che si rivela la più giovane candidata di sempre nella stessa categoria di Emmanuelle Riva, di 85, la più anziana. Il suo Amour, grazie a Dio, è sia tra i Film Stranieri che tra i Film e basta, è tra le Migliori Regie e Sceneggiature. Manca tra i registi anche Paul Thomas Anderson, sebbene il suo The Master abbia avuto le nominations a tutt'e tre i fantastici attori, e sul fronte dell'animazione la sorpresa è Pirati! che ruba il posto a Le 5 Leggende, dato per scontato candidato e possibile vincitore.
Con 12 nominations, come previsto, è comunque Lincoln di Spielberg ad avere la meglio dopo la disdetta dell'anno scorso con War Horse, che pure aveva il botto ma era tornato a casa con niente; essendo un filmone in costume che, oltre alle candidature tecniche prese anche da Les Misérables (scenografia, costumi, trucco, mixaggio sonoro) ottiene anche quelle importanti per dialoghi e regia.
Entrambe le Biancaneve dell'anno ottengono la nomination ai costumi (Biancaneve E Il Cacciatore anche quella agli effetti visivi), Lo Hobbit si accontenta di 3 (scenografia, costumi, effetti) I Simpson per la prima volta sono tra i cortometraggi animati, ma per la lista completa delle categorie rimando al sito ufficiale dell'Academy.
I premi saranno consegnati la notte del 24 febbraio, come ogni anno, dal Kodak Theatre di Los Angeles. E adesso cominciano le previsioni. Di seguito, e dopo il salto, tutti i candidati annunciati quest'oggi, nello stesso ordine.

Attore non Protagonista
Christoph Waltz in Django
Phillip Seymour Hoffman in The Master
Robert De Niro in L'orlo Argenteo Delle Nuvole
Alan Arkin in Argo
Tommy Lee Jones in Lincoln

Directors Guild Awards - nominations



Fondata, tra gli altri, da John Ford e William C. deMille, la Directors Guild of America è una corporazione che conta oggigiorno più di quattordicimila membri e ha premiato per la miglior regia cinematografica dal 1936 a oggi personaggi che hanno poi sempre (tranne una decina di volte) ritirato l'Oscar per la stessa abilità. E se per Ben Affleck è qui la prima volta, gli altri quattro sono tutti ex vincitori: la Bigelow è alla sua seconda nomination (ha vinto nel 2010 con The Hurt Locker), Tom Hooper ha vinto l'anno successivo con Il Discorso Del Re, ma era stato già candidato in precedenza per la regia di una miniserie televisiva, e poi Ang Lee e Steven Spielberg sono proprio di casa: il primo conta ora la quarta nominations (due volte, per La Tigre E Il Dragone e Brokeback Mountain, ha vinto) e Steven Spielberg oltre a dieci candidature e tre vittorie, vanta anche un premio alla carriera (del 2000). Salta all'occhio l'assenza di Paul Thomas Anderson e del suo omonimo Wes, di Haneke per Amour e di David O. Russell per un film che aveva cominciato a fare incetta di candidature indie (L'orlo Argenteo Delle Nuvole) ma che ha perso peso col trascorrere dei mesi.
Tra questi candidati, colui che con meno probabilità arriverà agli Oscar è sicuramente Tom Hooper, mentre Kathryn Bigelow e Spielberg hanno la strada spianata.
I candidati alla regia del miglior documentario saranno annunciati il 14 gennaio, mentre i premi verranno consegnati sabato 2 febbraio nel Ray Dolby Ballroom di Hollywood, dove Milos Forman (Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo, Amadeus) ritirerà il Premio alla Carriera.
I candidati ai 65esimi Directors Guild of America Awards sono:

Regia di Film
Ben Affleck per Argo
Kathryn Bigelow per Operazione Zero Dark Thirty
Ang Lee per Vita Di Pi
Tom Hooper per Les Misérables
Steven Spielberg per Lincoln

mercoledì 9 gennaio 2013

Cinema Audio Society Awards - nominations



La Cinema Audio Society ha annunciato le candidature per le sei categorie in cui si dividono i 49esimi premi per il montaggio e mixaggio sonoro di questa stagione cinematografica; oltre al cinema, sarà premiata la televisione, e per accedere al PDF completo delle candidature basta cliccare qui.
Di seguito, invece, le due categorie per i film classici e quelli animati. Troviamo ormai sempre la stessa solfa, ma è curioso vedere come i film d'azione o fantasy (Il Cavaliere Oscuro, Vita Di Pi) siano stati scalzati da Lincoln, mentre è palese ritrovare Lo Hobbit e Les Misérables. Mentre sul versante animazione compare per la prima volta quest'anno Lorax, che ruba il posto a ParaNorman, mentre la Disney immancabile schiera tutt'e tre le sue pellicole.

Film di Finzione
Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato
Les Misérables
Lincoln
Skyfall
Operazione Zero Dark Thirty

Film d'Animazione
Ribelle - The Brave
Frankenweenie
The Lorax
Le 5 Leggende
Ralph Spaccatutto

Visual Effects Society Awards - nominations.



Persino gli Effetti Speciali Visivi, da undici anni, hanno le loro premiazioni. E se le danno in ben 24 categorie tra film per la televisione e per il cinema (che si dividono in: “visual effects-driven”, tradotto qui con “fantasy, di fantascienza o sci-fi” ma che in realtà indica i film già su carta pensati per la post-produzione visiva; “feature motion pictures” e cioè i film, commedie o musicals o drammatici, che siamo abituati a vedere da cent'anni), spot televisivi, videoclip, serie e telefilm... Per tutte queste categorie, rimando al sito ufficiale, dove si potranno trovare anche le altre candidature per il cinema che riguardano la creazione di ambienti e luoghi completamente costruiti digitalmente (la caverna dei goblins ne Lo Hobbit, l'oceano in Vita Di Pi, la foresta di Ribelle), la fotografia digitale in film di finzione (Lo Hobbit, The Avengers, Total Recall e Spider RMan), la ricostruzione di modellini per film di non fiction (l'albergo in The Impossible), la composizione di questi ultimi, fino alle simulazioni animate e non dei personaggi fittizi. Insomma nell'era del digitale le candidature aumentano e ogni candidatura riguarda tre, quattro o più persone, addette ai movimenti magari di un solo personaggio del film. E compaiono a sorpresa coloro che hanno fatto sparire le gambe a Marion Cotillard in Ruggine E Ossa, segno che questo film francese ha trovato largo consenso oltre l'oceano.
Gli 11esimi Annual Visual Effects Society Awards saranno consegnati martedì 5 febbraio in una cerimonia di premiazione che renderà omaggio ad Ang Lee, che con il suo digitalissimo Vita Di Pi ha la strada sicura verso questa nomination agli Oscar. Di seguito e dopo l'interruzione, le candidature principali per il cinema.

Effetti Visivi
in un film fantasy, di fantascienza o sci-fi
Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato
Prometheus
Vita Di Pi
The Avengers
Battleship

Effetti Visivi
in un film di finzione
Un Sapore Di Ruggine E Ossa
The Impossible
Argo
Flight
Operazione Zero Dark Thirty

Writers Guild Awards - nominations.



Ed è la volta degli sceneggiatori, che quattro anni fa quasi bloccarono la cerimonia degli Oscar (ma dei Golden Globes sì).
I 65esimi Writers Guild Awards saranno consegnati domenica 17 febbraio in due cerimonie che si svolgeranno contemporaneamente, una a New York e l'altra a Los Angeles, alla presenza di tutti i candidati che sono poi parte dei membri del Sindacato. E dal momento che il Sindacato nomina a questi premi solo i membri di se stesso, sono fuori da questa categoria Amour (che, pare, e spero, potrebbe ottenere nominations grasse agli Oscar, tipo la regia e la sceneggiatura e gli attori), Django Unchained del Tarantino già vincitore per Pulp Fiction e poi candidato per Bastardi Senza Gloria, Les Misérables che essendo un pappone in costume ben diretto punta al record in tutte le categorie e poi il piccolo piccoli Beasts Of The Southern Wild che, essendo così piccolo, chissà se ce la farà. Manca anche, film che si sta facendo notare adesso, The Impossible, che è stato appena candidato al Goya perché di produzione spagnola.
Ci sono, invece, il superfavorito Mark Boal per Zero Dark Thirty, già sceneggiatore e vincitore dell'Oscar per The Hurt Locker, compagno della Bigelow, e c'è il povero Paul Thomas Anderson, quarta volta che viene qui candidato (cinque volte all'Oscar) e chissà come gli andrà dopo non avercela fatta con Magnolia; mentre nell'altra categoria se la contendono Chris Terrio (Argo), Tony Kushner (Lincoln) e David O. Russell (L'orlo Argenteo Delle Nuvole). Molte meno probabilità ha Noi Siamo Infinito, che tra l'altro abbiamo appena recensito e che è ancora senza data certa di uscita in Italia.
Di seguito i candidati per la Migliore Sceneggiatura Originale e Non, e dopo l'intervallo i candidati al documentario.

Sceneggiatura Originale
John Gatins per Flight
Rian Johnson per Looper
Paul Thomas Anderson per The Master
Wes Anderson & Roman Coppola per Moonrise Kingdom
Mark Boal per Operazione Zero Dark Thirty

Sceneggiatura Non Originale
Chris Terrio per Argo
David Magee per Vita Di Pi
Tony Kushner per Lincoln
Stephen Chbosky per Noi Siamo Infinito
David O. Russell per L'orlo Argenteo Delle Nuvole

Producers Guild Awards - nominations.



Secondo “sindacato” di cineasti: quello dei produttori. Se il precedente riguardava una categoria specifica, artistica, una competenza in particolare, qua si parla del film intero: è, questa, la gente che poi ritira l'Oscar al Miglior Film, che mette i soldi nella pellicola. E verrà celebrata il 26 gennaio, quando verranno consegnati questi Produce Guild Of America Awards al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills, giunti alla loro 24esima edizione. Tra gli altri, sarà premiato alla Carriera per la produzione televisiva J.J. Abrams. Per conoscere le nominations alla televisione rimando al sito ufficiale.
Per quanto riguarda il cinema, invece, ci sono, dietro queste compagnie di produzione, nomi come George Clooney (che, insieme a Ben Affleck che se lo dirige, produce Argo), Ang Lee e Steven Spielberg che si finanziano le rispettive pellicole Vita Di Pi e Lincoln, Wes Anderson (Moonrise Kingdom), l'italiana Barbara Broccoli (Skyfall) e la coppia Kathryn Bigelow e Mark Boal, lei regista e lui sceneggiatore, oltre che produttori (insieme a Megan Ellison) di Zero Dark Thirty. E la Weinstein Company conta due pellicole, le più interessanti dal punto di vista indipendente, Django di Quentin Tarantino e L'orlo Argenteo di David O. Russell.
Sul versante dell'animazione, trionfa anche quest'anno la Disney, con tre pellicole su cinque: due sono di casa propria (Pixar e Motion Pictures Studios) e l'altra è diretta da Tim Burton, Frankenweenie. La spunta anche ParaNorman a discapito dei mainstream L'era Glaciale e Madagascar.
Di seguito i canditati principali e, dopo l'interruzione, le nominations ai documentari.

Miglior Produzione per un Film di Finzione
Premio Darryl F. Zanuck
Argo (Warner Bros.)
Beasts Of The Southern Wild (Fox Searchlight Pictures)
Django Unchained (The Weinstein Company)
Les Misérables (Universal Pictures)
Vita Di Pi (Fox 2000 Pictures)
Lincoln (Touchstone Pictures)
Moonrise Kingdom (Focus Features)
L'orlo Argenteo Delle Nuvole (The Weinstein Company)
Skyfall (MGM/ Columbia Pictures)
Zero Dark Thirty (Columbia Pictures)

Miglior Produzione per un Film d'Animazione
Ribelle - The Brave (Walt Disney Studios Motion Pictures)
Frankenweenie (Walt Disney Pictures)
ParaNorman (Focus Features)
Le 5 Leggende (Paramount Pictures)
Ralph Spaccatutto (Walt Disney Studios Motion Pictures)

sabato 5 gennaio 2013

i lati positivi della timidezza.



Noi Siamo Infinito
The Perks Of Being A Wallflawer, 2012, USA, 102 minuti
Regia: Stephen Chbosky
Sceneggiatura non originale: Stephen Chbosky
Basata sul romanzo Ragazzo Da Parete di Stephen Chbosky (Frassinelli)
Cast: Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller,
Dylan McDermott, Kate Walsh, Patrick de Ledebur,
Nina Dobrev, Nicholas Braun, Johnny Simmons
Voto: 7.7/ 10
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Negli anni '90 di David Bowie registrato su cassetta e dell'America del Super Bowl unificatore c'è un ragazzino, il solito ragazzino, il sempre uguale ragazzino che passa dalle scuole “middle” alle scuole “high” e ne è terrorizzato, ne è angosciato al punto che conta i quasi millecinquecento giorni che lo separano dal diploma; lui che sarà matricola a cui i grandi strapperanno le copertine dei libri, ruberanno i compiti svolti, lui che ha nello stesso liceo una sorella che non gli offre la sedia a mensa e un paio di amici che non gli offrono neanche il saluto. Lui che si chiama Charlie e se ne sta tutto il tempo da solo nell'angolo vuoto e sa che fu Shakespeare a inventare il box-office ma non alza la mano in classe per dirlo. E qui c'è un professore, il solito professore, il sempre uguale professore di Letteratura Americana che trova nell'aula l'alunno più capace e con più problemi e gli fa leggere Il Buio Oltre La Siepe e Walden Ovvero La Vita Nei Boschi, a lui solo, che vorrebbe fare indovinate un po' lo scrittore, a lui che non vediamo mai leggere e le uniche cose che gli vediamo scrivere sono lettere a un amico (esistente?, immaginario?).
Questo perché il libro da cui è tratto, Ragazzo Da Tappezzeria, titolo che cerca di avvicinarsi – certo più del film – all'originale che intende per “wallflower” colui che alle feste sta con la schiena al muro e si confonde con la carta da parati, è un romanzo epistolare come la tradizione romantica vuole, con queste lettere che Charlie (lì è uno pseudonimo) scrive a questa figura misteriosa raccontandogli molto più nel dettaglio la sua vita e i suoi stimoli a vedere il Saturday Night Live, il Rocky Horror Picture Show, leggere Il Giovane Holden. Questo, ancora, perché l'autore del libro è lo stesso che ha scritto il film ed è lo stesso che se l'è prodotto e diretto, meglio di così quindi non si poteva fare, e si chiama Stephen Chbosky (e in America ha pubblicato con Mtv mentre in Italia con Frassinelli, la stessa di Cloud Atlas) e non è proprio al debutto alla regia ma al cinema ha lavorato molto poco (ha scritto la versione cinematografica del musical Rent) e per la TV ha creato Jericho.
Mette insieme, quindi, i soliti ingredienti delle solite mezzo-commedie americane con i ragazzi popolari del liceo e le turbe sentimentali e magari qualche problemuccio in casa, ma in qualche incredibile modo basta infilare nella testa del ragazzino un paio di allucinazioni depressive per un amico/zia passato/a a miglior vita, l'amore per gli Smiths e un bacio omosessuale per far salire di gradino la “solita” minestra americana. Che rimane, comunque, imperfetta: il rapporto col professore è inesistente e/o inspiegato, così come le sue lezioni e questo sogno di diventare scrittore; lo sviluppo narrativo del fidanzamento a caso a discapito del grande amore è cosa trita, il comportamento di questo disadattato è molto poco reale; eppure Logan Lerman è bravo assai, e ha un faccino tanto tenero, e si vede bene che non esce oggi dalle scuole medie ma potrebbe farcelo accettare. Sa essere imbranato e spontaneo ma non rende nelle scene drammatiche, e si fa togliere l'attenzione tutta da Emma Watson, che certamente lo batte in fama ma forse non in originalità interpretativa. Insieme a lei, ad aver perso l'accento british, c'è Ezra Miller, colui di cui Tilda Swinton l'anno scorso si vergognava, mostro partorito senza amore e diabolico già da piccolo. Meravigliosamente, Miller era azzeccatissimo là, in ...E Ora Parliamo Di Kevin, con questa faccia da Conte Dracula giovane, e lo è qua, coi capelli sbarazzini dei figli dei fiori che vogliono l'uguaglianza sessuale.
Pare insomma che, questo prodotto commerciale spinto anche da Mtv sia destinato più alla generazione che negli anni '90 nasceva piuttosto che a chi ci frequentava il liceo, con un bel finale (che spiega i titoli di testa) ricoperto di glassa e con un sacco di porte aperte o aperte in fretta o chiuse al volo, restando nell'ora e mezzo, sennò il film «è troppo lungo» e nessuno resta al cinema tre ore «se non è Batman o Lo Hobbit».