domenica 28 dicembre 2014

la ritirata.



Lo Hobbit:
La Battaglia Delle Cinque Armate
The Hobbit: The Battle Of The Five Armies, 2014, USA, 144 minuti
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura non originale: Fran Walsh, Philippa Boyens,
Peter Jackson e Guillermo del Toro
Basata sul romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien (Adelphi)
Cast: Martin Freeman, Ian McKellen, Richard Armitage, Ken Scott,
Graham McTavish, William Kircher, James Nesbitt,
Stephen Hunter, Dean O'Gorman, Aidan Turner, John Callen,
Peter Hambleton, Jed Brophy, Mark Hadlow, Adam Brown,
Orlando Bloom, Evangeline Lily, Lee Pace, Cate Blanchett,
Stephen Fry, Benedict Cumberbatch
Voto: 5.8/ 10
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Come se non fosse passato un anno nel mezzo, il film riprende da dove la storia s'era interrotta: «io sono fuoco» aveva detto Smaug, «io sono morte», e fuoco e morte semina per l'isola di Pontelagolungo mentre il popolo cerca di mettersi in salvo attraverso barchette e pontili; solo Bard ha il coraggio di mettere al riparo i figli e fronteggiare il drago, scoprendo il punto debole della sua pelle e la giusta freccia che potrebbe portare tutti in salvo. Siamo a cosa, minuto nove?, e il drago non c'è più: un'ora di attesa la scorsa volta per assistere all'ingegno digitale umano e a una performance vocale di Benedict Cumberbatch da manuale e adesso si consuma tutto nel primo quarto d'ora in modo che il castello – dove la lucertola riposava – e il tesoro che contiene possano essere in mano ai nani che l'hanno raggiunto e che ne rivendicano la proprietà. Ma l'oro genera mostri nel sonno della ragione e Thorin sta perdendo il raziocinio davanti all'esteso possedimento: Bilbo Beggins, lo hobbit del titolo che se il film non si chiamasse Lo Hobbit probabilmente non ci accorgeremmo nemmeno che è nel film, e se non fosse per la locandina, argutamente coglie lo sfacelo imminente e ruba l'Arkengemma affinché le stirpi altre (elfi, umani) possano pacificamente giungere a un accordo sul da farsi. Sarà guerra, da cui il sottotitolo per questo capitolo finale, e le cinque armate si sfideranno sotto al castello maledetto, sotto a un volo di aquile e corvi e soprattutto per quasi due ore. Basta trama, basta personaggi, solo martelli e alci, lance e frecce, orchi e spaccaterra per assistere, morto dopo morto, alla minuziosa fatica che stabilisce chi avrà diritto a varcare la soglia del portone. La rimpatriata iniziale, ricordata nelle ultime scene senza qualche componente, è ormai completamente dispersa e mezza stecchita e ha fatto scattare la scintilla in una donna elfo inventata rispetto al romanzo di partenza e criticatissima perché impossibilitata all'innamoramento. Se la tensione tra i due era solo sfiorata, durante la scampagnata, questa volta è non solo resa palese ma anche rimarcata, sottolineata, con un dialogo finale da far accapponare la pelle per l'orrore, mentre Evangeline Lily chiede a Lee Pace come mai un lutto d'amore faccia così male, pateticismo che nemmeno dentro a Colpa Delle Stelle. Il pressappochismo sentimentale del tutto gratuito è inframezzato dalle scenette-videogioco della prima volta, quando la divisione in tre capitoli del libercolo di partenza non era così sofferta, non era stata così diluita e spalmata: vedevamo lunghe sequenze pseudo-comiche riprese soprattutto dall'alto a mo' di schermo del computer davanti a World Of Warcraft. Anche l'ironia, la comicità qui fa cilecca alla grande: le due battute di spirito di Bilbo, due di numero, si inseriscono in travestitismi e frecciatine che rasentano la povertà di sceneggiatura, che sguazza e si adagia troppo sulle scene belliche anch'esse inaccettabili per Fisica e Fortuna: orchi di quattro metri che cadono a terra colpiti da una pietruzza lanciata da un nano, personaggi che s'abbracciano e conversano al centro di un campo di guerra dove una distesa di cattivi cade al primo colpo di spada: nessuno dei nostri eroi è mai beccato né cade fracassandosi il cranio anzi allo sgretolarsi di un ponte riesce a non finire nel vuoto saltando da una pietra in rovina all'altra, perché si arrivi a una conclusione affrettata e dal sapore inglese di Alice Nel Paese Delle Meraviglie più che del Signore Degli Anelli che pure spesso cita. L'ultima battuta del libro, scalata qua alla penultima scena, insegna che i grandi cambiamenti possono scaturire anche dalle più piccole creature, come gli hobbit, o come gli anelli. La saga fantasy che ha stravolto i canoni del cinema, e il regista poverello che s'è caricato il peso di questo successo, sono stati fatti oggetto di blockbuster e hanno pensato troppo in grande, aumentando i film a tre e diluendoli fino allo stremo dell'interesse umano per due ore e mezzo di durata ciascuno, e sognando in grande invece che in piccolo come bene invece predicano, hanno concluso la non-trilogia come peggio non si poteva fare.

venerdì 26 dicembre 2014

che sussurrava ai cavalli.



St. Vincent
id., 2014, USA, 102 minuti
Regia: Theodore Melfi
Sceneggiatura originale: Theodore Melfi
Cast: Bill Murray, Jaeden Lieberher, Melissa McCarthy,
Naomi Watts, Chris O'Dowd, Terrence Howard
Voto: 6.9/ 10
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La candidata all'Oscar (per la parte che le ha cambiato la vita dopo la lunga esperienza in Gilmore Girls) Melissa McCarthy si trasferisce con il figlio (all'azzeccato debutto cinematografico) in una nuova, tipica casetta americana fatta di due piani, giardino esterno, steccato e vicino. Gli uomini del trasloco sbattono con il camion contro un albero apparentemente centenario, da cui un ramo cade e si schianta contro una macchina d'epoca parcheggiata, mentre il recinto s'inclina e si spacca. Non il modo migliore per presentarsi al neighborhood, soprattutto se il soggetto proprietario della merce in sfacelo è un Bill Murray ubriacone, lurido, misantropo, scontroso, perennemente arrabbiato, approfittatore, spendaccione e col vizio del gioco oltre che delle ladies night – una delle quali ha messo incinta costringendola a non poter più strusciarsi al palo per guadagnare il poco di cui vivere, ed è una Naomi Watts dall'accento russo trasformata magicamente, credibilissima nel ruolo a partire dagli improbabili vestiti. Murray, che è il Vincent del titolo e l'incarnazione del film, minaccia la denuncia alla compagnia di traslochi e vuole in cambio uno steccato nuovo, visto che l'albero non si può rimontare, e la McCarthy gli dà questo e altro, e l'altro sarebbe il figlio Oliver, brillante quanto magro ed isolato bambino-spugna che coglie la separazione dei genitori che si fa sempre più dura e la necessità, per la madre, di lavorare fino a tardi in quanto la scuola che ha da pagare non sia proprio economica. È una scuola fissata con la santificazione di cui vediamo solo le lezioni di religione e di educazione fisica: nel primo caso don Chris O'Dowd ci illumina sui credi del mondo, nel secondo caso il bullismo impazza e gli insulti pure. Costretto a stare dal vecchio, cattivo, antipatico vicino mentre la madre è ancora a lavoro, Oliver imparerà l'autodifesa, le scommesse all'ippodromo, le case di riposo per anziane malate dove la moglie di Vincent è ricoverata. Scoprirà un altro lato dell'uomo più burbero del quartiere che tanto burbero non è, e se lo fa è solo perché ne ha passate tante. Da Scrooge al Grinch, per restare in tema natalizio, quanti ne abbiamo visti di personaggi scontrosi che già dal principio sappiamo cambieranno nel tragitto; lo scarto di valutazione sta sempre in quel mentre, nei modi in cui si passa dal cattivo al buono – per quanto non si tratti di cattiveria, né la metamorfosi sia totale: i titoli di coda ci dimostrano che Vincent in realtà non migliora neanche molto, con un pargolo in casa e un bambino che gli vuole bene affianco. Prende a cuore la situazione di Oliver ma chiede sempre qualcosa in cambio, a causa dei soldi che infinitamente gli mancano, al primo litigio mette una pietra sopra – lui e il sacerdote della scuola sono la fonte dell'umorismo e del cinismo di questa commedia come tante ma forse più sfacciatamente divertente. «I fondatori di questa nazione non erano proprio ambientalisti» dice Vin, che ne ha una per tutti, e in questa frase sta forse la volontà di parlare di stranieri e americani, giovani e vecchi, divorziati e anziani padri, senza filtri e senza pregiudizi, per una tavolata bizzarra che nessuno si sarebbe aspettato eppure fa sentire l'idea di famiglia. Un largo scivolone nella commozione a tutti i costi verso la fine, per spiegare il titolo della pellicola, che in America non può mancare mai, ma comunque un piacevole film non di-Natale ma in sala al momento giusto.

giovedì 25 dicembre 2014

it's a very merry muppet christmas movie.


Prix Louis Delluc - vincitori.



Sils Maria, forse il più bel film dell'anno e sicuramente anche il più sottovalutato, batte il veterano Jean-Luc Godard e la sua folle riflessione sul cinema e sugli strumenti del narrarlo al Premio Louis-Delluc 2014, il più prestigioso riconoscimento francese per l'industria cinematografica e, verrebbe da dire a questo punto, anche il più credibile. L'Eva Contro Eva di Olivier Assayas, storia di un'attrice e del ruolo che deve interpretare dopo vent'anni dalla prima volta, e del ruolo che ha sempre interpretato davanti al suo pubblico e del ruolo che ricopre la sua assistente – intelligentissimo, psicologicamente approfondito, narrativamente maturo, in lingua inglese ma di produzione francofona come il precedente Qualcosa Nell'aria, ingiustamente ignorato dal Festival di Cannes dove Adieu Au Langage aveva ricevuto il Premio della Giuria, ha la meglio anche su Saint Laurent, scelto per rappresentare la Francia agli Oscar di quest'anno, e Timbuktu, l'inviato all'Academy dalla Mauritania. Tra le opere prime, nonostante (anche qui) la Camera d'Or sia stata assegnata al trio di registi dietro il tanto celebrato quanto stroncato Party Girl, vince il dolcissimo Les Combattants di Thomas Cailley, storia di formazione di una coppia in cui lei fa la figura del maschiaccio più di lui che costruisce gazebo, che spero arrivi in Italia per sovrastare la colpa delle stelle. Di seguito tutti i candidati e i due vincitori.

Prix Louis-Delluc
miglior film
Addio Al Linguaggio di Jean-Luc Godard
Au Bord Du Monde (On The Edge Of The World) di Claus Drexel [documentario]
Bird People di Pascale Ferran
Eastern Boys di Robin Campillo
Saint Laurent di Betrand Bonello
Sils Maria di Olivier Assayas
Timbuktu di Abderrahmane Sissako
Tre Cuori di Benoît Jacquot

Prix Louis-Delluc
miglior opera prima
Les Combattants di Thomas Cailley
Mercuriales di Virgil Vernier
Mille Soleils (A Thousand Suns) di Mati Diop
Mouton (Sheep) di Gilles Deroo & Marianne Pistone
Party Girl di Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis
Tonnerre di Guillaume Brac

Power Ravengers.



Big Hero 6
id., 2014, USA, 102 minuti
Regia: Don Hall, Chris Williams
Sceneggiatura originale: Jordan Roberts, Daniel Gerson, Robert L. Baird
Basata sui personaggi di Man Of Action
Voci originali: Ryan Potter, Scott Adsit, Daniel Henney, T.J. Miller,
Jamie Chung, Damon Wayans Jr., Genesis Rodriguez, James Cromwell,
Alan Tudyk, Maya Rudolph
Voci italiane: Arturo Valli, Flavio Insinna, Stefano Crescentini,
Simone Crisari, Rossa Caputo, Davide Perino, Ludovica Bebi,
Edoardo Siravo, Virginia Raffaele
Voto: 7.6/ 10
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Nell'anno di Turin e Hawking e Swartz al cinema, la Disney (senza Pixar) abbandona la fede cieca nella magia con la quale si ritorna alla famiglia (leggi: Frozen) e si affida alla famiglia come strumento di traduzione della tecnologia. In una città che si chiama San Fransokio e che mescola pagode orientali a celeberrimi ponti, gli abitanti apparentemente occidentali nascondono tratti fisionomici alla Mulan, ma già dalle prime scene è chiaro che Mulan appartiene a un passato non remoto ma trapassato proprio: il dettaglio minuzioso dei volti, i volumi delle espressioni ma soprattutto i panorami, che si intravedono appena nelle scene di corse per le strette strade, o che esplodono in campi totali aerei da action movie che si rispetti – il progresso celebrato in Brave tocca anche la casa di produzione gemella che si è distinta sempre per le trame più che per gli strumenti. Questa volta non c'è un protagonista che si sente diverso dalla massa, né siamo in una nebulosa fatta di fiaba, magia o passato nostalgico. Hiro (assonanza col titolo) è totalmente calato nel presente: bimbo prodigio, ha finito il liceo a tredici anni e aspirerebbe già a una carriera universitaria se non preferisse lottare coi robot comandati nei cunicoli della città fra scommesse illegali. Ha un fratello che frequenta la “scuola dei nerd” con estremo successo, e lo sappiamo quando ci viene presentato il Baymax tanto più celebre dell'effettivo protagonista: è una sorta di infermiere portatile all'avanguardia, munito di defibrillatore quanto di lecca-lecca post medicazione, dall'aspetto rassicurante e coccoloso ma è pur sempre un robot che può essere implementato con scheda ritoccata per fargli, per esempio, conoscere il karate o farlo, per esempio, volare: ed ecco la frecciatina al Dragon Trainer osannato dalla critica, a cui il duo Hiro-Baymax sembra dire: lo sappiamo fare anche noi, ma meglio – perché la telecamera si comporta come se fossimo sulle montagne russe o addirittura sopra questa bizzarra città paradossale. Si aggiungono al folle volo altri quattro compagni di ventura (del fratello) da cui, nel titolo, il numero 6 (e il titolo, ragazzi, sembrerebbe la cosa più originale di tutto il film); strizzatina d'occhio, a questo punto, ai Power Rangers che hanno sempre mischiato oriente e occidente, progresso tecnologico minimo e trovate kitch tra le tutine bicolore e i cattivi mascheroni da bocche perdenti liquidi. Anche qui troviamo un costume-mascotte, al personaggio che sarebbe senza-potere, se di poteri si trattasse, allo studente che non frequenta, l'adulto della scuola, il poveraccio che vive in realtà in una reggia. Un personaggio a cui non viene dato abbastanza spazio eppure forse il più caratterizzato e il meno banale del gruppetto. Il quale (gruppetto), si accolla il solito triste onere di salvare il mondo, la città prima e tutte le anime poi, avendoci preso gusto, in un finale alla Fantastici 4 o alla Avengers a cui – ancora – si strizza l'occhio nell'era dei supereroi e della Marvel al cinema. In soldoni: è un film un po' ruffianetto che porta in sala tutto quello che in sala c'è già, ma in un unico nastro di pellicola, con i dovuti momenti drama disneyani di commozione latente e senza il personaggio icona (penso a Olaf o, per restare in tema, Mushu) che avrebbe potuto essere la zia Cass a cui presta la voce, addirittura!, Virginia Raffaele. La spinta al contemporaneo che la Disney s'è data si intravede già dal tradizionale corto di apertura, Winston: immagini piatte contro il 3D che verrà dopo e un esercizio di stile su un quasi totale pianosequenza mascherato da tagli (temporali): un cane è il soggetto di un rapporto animale-cibo ma anche uomo-donna che gli si sviluppa attorno e che grazie a lui si sviluppa. Abituato a polpette, spaghetti, pancetta e uova avanzati dai pasti, con l'avvento della donna in casa vedrà trasformati i propri pasti in salutari apporti di proteine e fibre spalmati tra sedani e cavoletti. Un ironico saluto al veganesimo incipiente.

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L'amore Bugiardo
Gone Girl, 2014, USA, 149 minuti
Regia: David Fincher
Sceneggiatura non originale: Gillian Flynn
Basata sul romanzo omonimo di Gillian Flynn (Rizzoli)
Cast: Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris,
Tyler Perry, Carrie Coon, Kim Dickens, Patrick Fugit,
David Clennon, Lisa Banes, Missi Pyle
Voto: 7.8/ 10
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Nick e Amy portano avanti la splendida tradizione di regalarsi, ad ogni anniversario, il materiale che si festeggia: il cotone al primo anno, la carta al secondo, per il quinto – che è di legno – la sorpresa è la di lei scomparsa. Tornato a casa dal bar di cui è proprietario e in cui lavora la gemella, dall'ontologico nome “Il Bar”, Nick trova un tavolo ribaltato, un vetro rotto, e la moglie in nessuna stanza. Giunge la polizia che a questi indizi trova aggiunti macchioline di sangue, le buste con le filastrocche per la caccia al tesoro che lei aveva organizzato al marito, delle mutandine rosse, un diario di segreti letti fuori campo, una cartella clinica con gravidanza, una serie di acquisti on-line con carta di credito... E davanti a tutto questo Nick resta sbalordito, senza avere l'idea su come la moglie passasse le giornate, senza saperne il gruppo sanguigno, o che abbia una stretta amica nel quartiere. Riviviamo insieme ai giorni dell'abbandono gli episodi che hanno segnato la nascita e la formazione di questa coppia e scopriamo lui, mezzo rozzo e dalle modeste ambizioni, con un rapporto morboso gemellare e un padre rinchiuso in un ospizio a causa della demenza senile, e scopriamo lei, algida e bionda e magrissima e dai capelli impeccabili, i vestiti impeccabili, la casa impeccabile, i genitori onnipresenti che l'hanno resa una celebrità come personaggio dell'infanzia, impeccabile anzi mitico. Sembra la coppia di cui tutti vorrebbero essere metà, che tutti invidiano alle feste e in mezzo alla strada, ma allora perché Nick – totalmente incapace di gestire la stampa o gli investigatori – appare così colpevole pur non avendo accuse contro? Il suo alibi già traballante affonda quando si scopre un longevo tradimento con una delle sue studentesse... La trovata del colpevole o innocente di cui non abbiamo risposta per mezzo film è vecchia come il mondo e sir Hitchcock ci ha dimostrato come possa bastare a raccontare una storia in un film che si chiama Il Sospetto e che racchiude magistralmente il suo titolo. Interpretato da un Ben Affleck impacciato, un filo burino, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato, che lascia la telecamera di Argo post-Oscar e si mette (a nudo) davanti alla macchina da presa, Nick è il tipico personaggio che non deve apparire né buono né cattivo, né colpevole né innocente, di cui lo spettatore deve costantemente dubitare e contro il quale e a favore del quale deve schierarsi a intermittenza. Intento non portato a termine, soprattutto perché, al secondo o terzo dei colpi di scena che in questo film certamente non mancano, l'ex sconosciuta Rosamund Pike (cercatela in An Education o meglio La Versione Di Barney) ruba la scena, la fagocita, facendoci quasi dimenticare degli altri attori. Ricompare lei e la tensione esplode, la trama galoppa, il nostro interesse si fonde sulla poltrona chiedendoci continuamente come andrà a finire, aspettando trepidantemente la fine. David Fincher è maestro di quest'arte e film come Zodiac e Uomini Che Odiano Le Donne (non voglio citare l'abusato Fight Club) ce l'avevano dimostrato; il problema questa volta è che fa affidamento a un buon romanzo dando libertà alla sua scrittrice di trasportare su schermo quella sceneggiatura: bisogna avere fede e pazienza perché il film migliori; dopo un incipit debolissimo, la prima mezz'ora è tremenda, in-credibilmente surreale: sono surreali i dialoghi, visibilmente costruiti, tra questi due fratelli di cui lei soprattutto (Carrie Coon) è sovra-tono ed è surreale il personaggio della detective Kim Dickens, inaccettabilmente ridente e scherzante al primo sopralluogo; sono costruiti e finti i dialoghi primi di questa coppia affiatata, arguta, brillante, in cui ci si fa una sequela assurda di complimenti oltre che di regali, messi lì a sottolineare il capovolgimento imminente che però ci si aspetta. Grazie a Dio, tutto si dimentica presto, e la conclusione è ancora meglio delle supposizioni che si fanno durante la pellicola. Anche qui però lo scivolone: l'ultimo quarto d'ora frettolosissimo dimostra come sullo schermo sia più difficile lasciare con evanescenza e l'amaro in bocca lo spettatore elettrizzato. Peccato anche per Reznor & Ross, la cui colonna sonora – comunque magistrale – è molto meno valorizzata che in The Social Network.

venerdì 19 dicembre 2014

Oscar 2015 - film stranieri.



Complotto! Xavier Dolan e il suo capolavoro Mommy sono fuori anche dagli Oscar dopo la delusione cocente dei Golden Globes; l'annunciato film dell'anno è ormai messo fuori gioco per non entrare in competizione col vincitore annunciato Ida (nella foto la scena più bella), chiaramente tenuto senza rivali in una shortlist (che esce con qualche settimana di anticipo rispetto agli scorsi anni) che forse odora di complotto al Festival di Cannes in generale: non ci sono i fratelli Dardenne col loro verista Due Giorni, Una Notte, di cui però Marion Cotillard dovrebbe essere la rappresentante fra le attrici; non c'è la Palma d'Oro Il Regno D'inverno, inspiegabilmente dimenticato da tutti date forse le più di tre ore di pellicola (e il grado d'attenzione che richiedono); non c'è White God, il film ungherese vincitore nell'Un Certain Regard e unanimemente acclamato. Non ci siamo neanche noi, che a proposito di Cannes avremmo dovuto mandare all'Academy Le Meraviglie e non Il Capitale Umano, ma forse avremmo fatto la stessa fine. Tra i nove film scelti, quattro dei quali candidati al Golden Globe (mai forse c'è stata così tanta somiglianza tra i due premi) non c'è neanche l'israeliano Viviane, che sicuramente merita più dell'olandese legal-drama Lucia de B. (chiamato anche Accused) sulla vera storia dell'infermiera accusata di pluriomicidio. The Liberator, biopic sul sudamericano rivoluzionario Simon Bolivar e Corn Island, tenacia resistenza di un contadino che con sua nipote combatte le conseguenze di una guerra civile durata vent'anni, si inseriscono nel cerchio sacro di Storie Pazzesche (l'avevo detto che Almodóvar portava fortuna), l'assurdo Turist e l'umano Mandariinid di cui avevamo già la quasi certezza. Le nominations definitive saranno annunciate il 15 gennaio.

Storie Pazzesche di Damián Szifrón (Argentina)
Tangerines (Mandariinid) di Zaza Urushadze (Estonia)
Corn Island di Gigi Ovashvili (Georgia)
Timbuktu di Abderrahmane Sissako (Mauritania)
Lucia de B. di Paula van der Oest (Olanda)
Ida di Paweł Pawlikowski (Polonia)
Leviathan di Andrey Zvyagintsev (Russia)
Turist di Ruben Östlund (Svezia)
The Liberator di Alberto Arvelo (Venezuela)

il film israeliano.



Viviane
Gett: Le Procès De Viviane Amsalem, 2014, Israele/ Francia, 115 minuti
Regia: Ronit Elkabetz & Shlomi Elkabetz
Sceneggiatura originale: Ronit Elkabetz & Shlomi Elkabetz
Cast: Ronit Elkabetz, Simon Abkarian, Sasson Gabai,
Gabi Amrani, Dalia Beger, Shmil Ben Ari, Rami Dadon
Voto: 9/ 10
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Candidato al Golden Globe:
miglior film straniero
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Da tre anni Viviane Amsalem non vive col marito, col quale litiga di continuo, arrivando a lanciare piatti e far preoccupare i vicini; da dieci ha iniziato seriamente a pensare di lasciarlo; dal giorno in cui si sono sposati è incerta sulla giustizia nella coppia. Ed è di giustizia che, tutto il tempo, si parla: perché Viviane adesso è in tribunale, un tribunale rabbinico israeliano, a chiedere a tre giudici il divorzio dall'uomo che «non ama più»; ed è la giustizia che la costringe ancora a lui, e la giustizia che lui evoca su una coppia che si spegne quando solo uno dei due membri perde l'amore. Mentre nella vita di tutti i giorni, occidentale, americana, si piange perché si viene lasciati ancora carichi di sentimenti, qui Viviane rasenta la follia costretta a dividere ancora la fede totalmente prosciugata della pazienza, del trasporto sentimentale, ma non della tenacia: ci vorranno circa quattro anni per raggiungere un accordo, perché il marito Elisha non si presenta ripetutamente in aula, i testimoni amici della coppia si contraddicono data la poca imparzialità, in punto di disdetta un avvocato si aggrappa a una teoria becera, vengono date punizioni sul ritorno in tribunale. Noi spettatori assistiamo a questo calvario estenuante seduti di fronte ai volti che ci guardano, che ci parlano, chiusi continuamente in queste quattro mura mai claustrofobiche, stretti fra questi pochi individui mentre vedremo poi come fuori la vita avanza, procede, la vita delle persone libere, e nonostante siano passati quattro anni pare che il tempo si sia fermato sempre in queste stanze. Viviane chiede soltanto di poter togliersi un'etichetta che non le appartiene più, quella di moglie, quella di moglie di Elisha, il quale non accetta e non si piega all'acconsentimento del divorzio fino all'ultimo minuto. E per la legge israeliana è lui ad avere il coltello dalla parte del manico – le donne non possono che tacere, a meno che poi non esplodano in monologhi strepitosi come quelli a cui assistiamo: due, tre forse di una potenza sovrumana, il primo grottesco e paradossale, divertentissimo, l'ultimo commovente, lo straziante urlo d'aiuto di chi non ha nessuna colpa ma si vede giustiziato. Viviane è il capitolo conclusivo di una trilogia sul ruolo e la figura della donna schiacciata dalla legge israeliana, firmato questa volta dalla sua interprete Roni Elkabetz, regista e sceneggiatrice, sorella di Shlomi. Impossibile non pensare all'iraniano premio Oscar Una Separazione. Non perché sia in lizza per l'Academy anche questo, ma perché i due partivano da un intento praticamente opposto: lì era una separazione il soggetto fondamentale, e nel susseguirsi di vicende il nostro punto di vista cambiava continuamente schierandoci ora col marito ora con la donna che lo accusa interferendo nella burocrazia, la nostra posizione non è mai fissa fino a quando non sappiamo per chi tifare; in questo caso invece il fulcro è Viviane: ci viene presentata, in tribunale, per ultima, nonostante tutti la guardino, e per ultima si metterà a parlare, alla fine, e anche se ogni tanto il sospetto che stia mentendo o che abbia un amante o che il suo gioco sia un po' sporco potrebbe assalirci, dalla locandina all'ultima scena sappiamo che è per lei che siamo in sala.

martedì 16 dicembre 2014

European Film Awards - vincitori.


Se è vero che gli European Film Awards portano fortuna – ma anche se non lo è – abbiamo ormai la certezza che Ida sia il film straniero dell'anno: come fu per La Grande Bellezza che l'anno scorso trionfò in quasi tutte le categorie, quest'anno il film polacco si porta a casa la statuetta alla migliore pellicola, alla sceneggiatura, alla regia e alla fotografia battendo gli altri film stranieri dell'anno: Leviathan che sta riscuotendo immenso successo all'estero e la Palma d'Oro già dimenticata Il Regno D'inverno, con Turist di cui sentiremo molto parlare. Nessuna sorpresa se Il Capitale Umano torna in patria a mani vuote; ma non è totale sconfitta per l'Italia: Pif (in foto) viene incoronato regista della migliore commedia europea con La Mafia Uccide Solo D'estate, una soddisfazione che scavalca il bel Le Week-End inglese, e poi Alessandro Rak batte i candidata alla nomination per l'Oscar Minuscule e Jack E La Meccanica Del Cuore con il poetico (e imperfetto) L'arte Della Felicità su un tassista e il suo esistenzialismo e la spazzatura napoletana durante la pioggia. Erano già stati dati il premio alla musica di Under The Skin e al montaggio di Locke, il cui Tom Hardy perde la targa di miglior attore contro l'immenso Timothy Spall di Mr. Turner; sale sul palco invece, finalmente, per la prima volta, Marion Cotillard, che nel 2007 quando ogni premio le arrivò in mano grazie a La Vie En Rose, fu ignorata per la queen Helen Mirren. Le auguriamo di raggiungere anche la seconda nomination all'Oscar dato che si sobbarca Due Giorni, Una Notte interamente da sola e sulle deboli spalle.
Di seguito e dopo l'interruzione tutti i vincitori e i candidati.

film 
Ida di Pawel Pawlikowski (Polonia & Danimarca)
Il Regno D'inverno di Nuri Bilge Ceylan (Turchia, Francia e Germania)
Leviathan di Andrey Zvyagintsev (Russia)
Nymphomaniac Director's Cut - Volume I & II di Lars von Trier (Danimarca, Germania, Francia e Belgio)
Turist (Force Majeure) di Ruben Östlund (Svezia, Danimarca, Francia e Norvegia)

commedia
Carmina Y Amén di Paco León (Spagna)
Le Week-End di Roger Michel (UK)
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto (Italia)

il film estone.



Mandariinid
id., 2013, Estonia/ Georgia, 87 minuti
Regia: Zaza Urushadze
Sceneggiatura originale: Zaza Urushadze
Cast: Lembit Ulfsak, Elmo Nüganen, Raivo Trass
Giorgi Nakhashidze, Mikhail Meskhi
Voto: 8.1/ 10
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Candidato al Golden Globe:
miglior film straniero
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Estonia, Lituania e Lettonia – si studia in Geografia alle scuole medie: tre piccoli stati in un'unica pagina di cui si dicono le cose che si dicono di tutti gli stati, l'agricoltura, per la presenza del mare, il settore terziario. Non vanno con più originalità le cose sotto il profilo cinematografico: l'Estonia partecipa attivamente agli Oscar solo dal 2004, dieci anni con questo, avendo precedentemente mandato solo due film all'Academy (nel 1992 e nel 2001) che non riuscirono ad entrare nemmeno nelle shortlist di gennaio. Mai una statuetta e mai una nomination per un Paese che si rivela quest'anno al festival di Varsavia, di Seattle, ai Satellite Awards e addirittura ai Golden Globes (rubando, forse, la candidatura a Mommy) e ci rivela uno spaccato della propria storia, doloroso ma ottimistico. 1992, ci viene detto coi titoli di testa, visto che non lo studiamo in Storia alle scuole medie: l'Abkhazia sta lottando per separarsi dalla Georgia con una guerra cieca che colpisce dall'alto e dall'entroterra, che colpisce chiunque passi davanti alle camionette, civili e militari. Ospitano le conseguenze di un assalto, nei propri giardini, il vecchio Ivo e l'amico Markus, isolati dalla città in questo pezzo di campagna: il primo (Lembit Ulfsak, copia conforme di Michael Haneke) lavoratore del legno, che costruisce cassette per i mandarini e il secondo che i mandarini li coltiva in altura, e adesso li deve cedere all'esercito – entrambi imparziali rispetto alla lotta armata, entrambi lontani dalla natìa Estonia. Tra le vittime fuori casa trovano un ceceno e un georgiano: si sbarazzano dell'automobile, degli altri corpi, e portano in casa i superstiti, sopravvissuti a malapena, uno dei quali ha una scheggia di bomba nella testa, e che sono in conflitto tra loro perché delle fazioni opposte, costretti a convivere sotto il tetto del saggio e buon Ivo che pretende nessuna morte all'interno della dimora. I mandarini del titolo quindi non sono quelli che erano di Simone de Beauvoir: sono il simbolo della resistenza durante la guerra; più volte Ivo rimprovera l'amico Markus (a cui è legato da affettuosa sincerità) che non si fa agricoltura durante i conflitti ma testardamente quell'altro alleva i propri frutti con la dovizia e l'ingenuità non di Candido ma di chi non si spiega, non si accorge proprio, che il Paese rischia di essere bombardato in ogni momento. E lo spazio è solo quello del cortile di casa, e gli interpreti sono solo questi quattro stranieri tra loro, costretti a subire le calate degli alleati sospettosi. Basta una piccola finestra su questa storia e su questo Paese perché ci venga resa appieno la condizione, la tensione, il sentimento di quel tempo. Un film UNICEF che sottolinea l'inutilità di qualche (di ogni?) lotta armata quando basterebbe il dialogo, il rapporto col nemico, ma ancora meglio che sottolinea la stupidità delle motivazioni che sono alla base di queste guerre, soprattutto se sono motivazioni che scaturiscono dai confini geografici imposti o dalla casuale provenienza territoriale. La tensione non estrema prosegue ed esplode verso un finale commovente quanto amaro sulla giustizia che c'è e non c'è, sul candore e l'ospitalità ciechi che non vengono ripagati, e richiudiamo infine questa finestrella che quasi a torto il regista Zaza Urushadze ci ha aperto davanti, guardando ai Paesi Baltici non più con l'occhio frettoloso e pressappochista di ciò che abbiamo studiato alle scuole medie.

venerdì 12 dicembre 2014

Golden Globes 2015 - nominations.



Birdman (O L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza) conduce le aspettative di questi 72esimi Golden Globes con 7 nominations in tutte le più importanti categorie, per una doppietta del regista Alejandro González Iñárritu, celebratissimo col potente esordio Amores Perros, volato poi a Hollywood per 21 Grammi e Babel e tornato alla lingua madre per Biutiful – sempre candidandosi a qualche Oscar e ora autore della commedia dell'anno (da noi il 5 febbraio 2015); buon per lui che non è contro Boyhood, l'altro film dell'anno, 5 nominations in categorie drammatiche e il Miglior Film e l'Attrice Non Protagonista praticamente certi. In dubbio è invece la Regia: per la prima volta nella storia la Foreign Press Association che stila le candidature ha nominato una regista afroamericana, Ava DuVernay, per il mediocre Selma su Martin Luther King e la marcia verso i diritti civili: a sorpresa tra i migliori film, gli attori e la canzone. Con 5 candidature anche L'enigma Di Un Genio, che risponde al nome di Alan Turing, contro le 4 de La Teoria Del Tutto, leggi Stephen Hawking: due delle menti più brillanti del secolo si sfidano per la musica e tutti gli attori – a noi piacciono un sacco Eddie Redmayne e soprattutto Felicity Jones ma questo è l'anno di Benedict Cumberbatch: la categoria è tutta aperta però, perché il super-favorito Michael Keaton è dall'altra parte contro il Joaquin Phoenix di Vizio Di Forma, il film super-assente in questa lista. Chi altro manca: sicuramente Mommy tra i Film Stranieri (e il Canada ne aveva mandati tre!), manca la Francia nella stessa categoria (che ne aveva mandati sei!) e manca la Palma d'Oro Il Regno D'inverno. E manchiamo noi, ma la cosa non ci sorprende. Manca giustamente Interstellar, che si accontenta della Migliore Musica di Hans Zimmer, dove manca la straordinaria Mica Levi. Torniamo a chi c'è: L'amore Bugiardo, assente da tutti i premi della critica, colleziona tre nomine, ma non quella al Film; Julianne Moore prontissima a tornare sul palco dopo il premio televisivo per Game Change, quest'anno doppiamente candidata per Still Alice e il tremendo Maps To The Stars, dove è magnifica (ma qualcuno si spiega perché è nelle commedie?); Pride, inspiegabilmente Miglior Film e nient'altro; Helen Mirren tanto per cambiare (nel 2007 vinse due Globes per due regine); Annie, remake del musical degli anni '80, stroncato dalla critica e con una candidatura alla undicenne Quvenzhané Wallis per scusarsi di quella mancata de Le Terre Selvagge; e infine, immancabile, per la ventinovesima volta, l'onnipresente Meryl Streep che si trascina Emily Blunt con Into The Woods.
Presentati per la terza volta consecutiva da Tina Fey e Amy Poehler campionesse d'ascolti, i Golden Globes 2015 si svolgeranno l'11 gennaio in diretta televisiva dal Beverly Hilton Hotel, dove saranno dati i premi anche alla televisione (grandi assenti lì: The Big Bang Theory, Modern Family, Mad Men) di cui potete vedere i candidati qui. Di seguito e dopo il salto, le nominations cinematografiche.

miglior film
drama
Boyhood
Foxcatcher
The Imitation Game - L'enigma Di Un Genio
Selma
La Teoria Del Tutto

miglior film
comedy o musical
Birdman (O L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza)
Grand Budapest Hotel
Into The Woods
Pride
St. Vincent


giovedì 11 dicembre 2014

SAG Awards 2015 - nominations.



Il più interessante – il più glamour sindacato cinematografico è quello sicuramente degli attori: attori e attrici che si candidano e si premiano agli Screen Actor Awards, le statuette che l'80% delle volte anticipano il più celebre Oscar. Sono venti ogni cento i membri che fanno parte anche dell'Academy e queste candidature sono il primo grande passo verso la notte di febbraio: Birdman, senza sorprese, si mantiene avanti con la candidatura al cast, all'attore Michael Keaton praticamente ormai vincitore certo, all'attrice non protagonista Emma Stone e al non protagonista Edward Norton. Gli stanno dietro, con tre candidature a testa, Boyhood (e la sua frontrunner Patricia Arquette), La Teoria Del Tutto coi mini mostri sacri Felicity Jones e Eddie Redmayne e The Imitation Game che in italiano si chiamerà L'enigma Di Un Genio. Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe arrivata a calcare questi palchi Jennifer Aniston (per Cake), insieme alla navigata navigatissima Meryl Streep (sedicesima candidatura) per l'ennesimo fairy film targato Disney. Tutti contenti per Jake Gyllenhaal che non si pensava fino alla fine ce la facesse ma ancora di più per Julianne Moore, undicesima nomination dopo l'unica vittoria l'anno scorso per il televisivo Game Change. Premio alla carriera per Debbie Reynolds, la Kathy di Cantando Sotto La Pioggia, la Berenice di In & Out. Di seguito e dopo l'interruzione tutti i candidati.

performance
di un cast in un film
Birdman (O L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza):
Zach Galifianakis, Michael Keaton, Edward Norton, Andrea Riseborough,
Amy Ryan, Emma Stone, and Naomi Watts
Boyhood:
Patricia Arquetta, Ellar Coltrane, Ethan Hawke, and Lorelei Linklater
Grand Budapest Hotel:
F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Ralph Fiennes, Jeff Goldblum,
Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Tony Revolori, Saorise Rona,
Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, and Owen Wilson
The Imitation Game:
Matthew Beard, Benedict Cumberbatch, Charles Dance, Matthew Goode,
Rory Kinnear, Keira Knightley, Allen Leech and Mark Strong
La Teoria Del Tutto:
Charlie Cox, Felicity Jones, Simon McBurney, Eddie Redmayne, David Thewlis, and Emily Watson

mercoledì 10 dicembre 2014

il film argentino.



Storie Pazzesche
Relatos Salvajes, 2014, Argentina/ Spagna, 122 minuti
Regia: Damián Szifrón
Sceneggiatura originale: Damián Szifrón
Cast: Liliana Ackerman, Luis Manuel Altamirano García,
Alejandro Angelini, Damián Benítez, Cristina Blanco, Gustavo Bonfigli,
César Bordón, Pablo Bricker, María Laura Caccamo
Voto: 8.2/ 10
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Estromesso dagli Oscar (e più o meno giustamente) da ormai otto anni, dopo che Volver (assolutamente ingiustamente) non fu neanche nominato al Miglior Film Straniero, Pedro Almodóvar ci riprova come produttore, e celebratissimo capofila del suo El Deseo, suo e di suo fratello, passa prima da Cannes e poi ritorna all'Academy con un film non spagnolo ma argentino (tiè!), un film a episodi come non se ne vedevano da anni, un film che pare gli sia stato cucito pressoché addosso – aggiungendoci una punta di virilità. Si chiama Relatos Salvajes perché gli episodi di cui prima (relatos) sono appunto selvaggi, non a caso in inglese è stato tradotto con wild, a differenza del nostro italiano pazzesche che non rende l'idea. Sono selvaggi i titoli di testa e i comportamenti di questi esseri umani, fotografati nei momenti in cui si perde il controllo, la calma, la razionalità, la pazienza: c'è un aereo in cui tutti sono legati da un unico grado di separazione che è anche il comandante di cabina ricordando la situazione sui generis de Gli Amanti Passeggeri; una cameriera dal passato un po' critico con una cuoca dal passato criticissimo che stabiliscono la giusta punizione al loro unico cliente in una sera di pioggia; un abbiente guidatore che sorpassa in malo modo un burino, insultandolo più volte, e poi ritrovandoselo di fianco quando dovrà cambiare la ruota: questo è l'episodio dalla costruzione più asciutta, sarà forse per l'azione e la tensione, ma non fa calare mai la tensione; un triste e monotono lavoratore che vede la propria auto trainata dal carro attrezzi e la propria moglie chiedere il divorzio mentre le istituzioni sembrano fare di tutto per estorcergli denaro, beffeggiandosi della sua condizione; un tamponamento con due vittime e l'assassino fuggito che deve essere coperto dalla famiglia e soprattutto dall'avvocato disposti a tutto pur di mantenere la facciata aristocratica intatta; una coppia di novelli sposi che trasforma la festa di nozze in un ring quando viene a galla un tradimento e uno zampino troppo premuroso della suocera – e questo è invece l'episodio più grottesco e forse meglio riuscito, per quanto sia pazzesco più pazzesco degli altri, ma brilla d'ironia continua nel disagio del momento e presenta due personaggi ben fatti tra tanti. Eppure davanti ai film a episodi si è sempre scettici, nonostante la tradizione italiana ne sia piena (mi vengono in mente Boccaccio '70 o L'amore In Città, per citare qualche titolo d'autore, ma forse è a I Mostri che questo assomiglia di più, indagando sui diversi costumi sociali), e c'è sempre quel desiderio infimo che alla fine si scopra che le parti siano tutte collegate tra loro, a partire da quell'aereo primario che era corale, davanti al quale ogni spettatore in sala ha riso. Spoiler: non lo sono. «Un film che pare gli sia stato cucito addosso», dicevo, riferendomi ad Almodóvar, perché con la solita scioltezza a cui ci ha abituati passa dal grottesco più estremo alla serietà, al dramma e al comico senza mai sfiorare il mélo ed essendo sempre credibile, continuando a raccontare. La lotta tra i due autisti nelle strade sterrate delle periferie argentine è assurda, forse inverosimile, e si conclude in un modo in-credibile, eppure non c'è verso di farci staccare gli occhi dallo schermo. Per questo, e per la buona accoglienza a Cannes 2014, è il film che rappresenta l'Argentina a questi Oscar (e Golden Globes). Argentina che vinse nel 2009 la statuetta, seconda volta dal 1961, ricevendola proprio da Almodóvar che presentava quel premio (immeritatissimo). Porterà fortuna?

sabato 6 dicembre 2014

Grammy 2015 - visual media nominations.



Frozen dovunque: per i brani musicati, per le performance canore degli attori e per Idina Menzel capofila del musical campione d'incassi (in USA) e della colonna sonora più venduta del lustro (in USA) di cui vedremo tra qualche anno un sequel e ancora prima un corto animato (in apertura alla Cenerentola di Kenneth Branagh). Si mormorava che Let It Go sarebbe finita anche tra la canzone e la produzione dell'anno, ma si mormorava anche che questo sarebbe stato l'anno (l'ennesimo) di Beyoncé – e così non è stato. Pop, pop in tutte le categorie per i 58esimi Grammy Awards di cui, in puntate separate e con un concerto natalizio finale, sono state annunciate le nominations: le infinite nominations che vanno dalla musica più commerciale all'opera, la classica, l'ingegneria del suono, il booklet, il video: qui l'elenco ufficiale completo. Per televisione e cinema, al solito, data la data di emissione, si va a ripescare qualcosa dall'anno prima: ancora Disney con Saving Mr. Banks di Thomas Newman, ancora Gravity dopo l'Oscar e poi Alexandre Desplat per il film di Wes Anderson, il duo Reznor-Ross ormai feticcio di David Fincher; la soundtrack di glorie passate de I Guardiani Della Galassia invece spicca nella categoria delle canzoni non originali insieme al biopic su James Brown e agli altri anni '70 di American Hustle. La bella I See Fire finalmente trova giustizia con Ed Sheeran scrittore e cantante che per il terzo anno di fila ottiene candidature americane; se la deve vedere con i Lego, inspiegabilmente super-quotati sia qui che nella categoria del film d'animazione per gli altri premi. I vincitori saranno annunciati in una serata non trasmessa in televisione, prima del 9 febbraio 2015. Di seguito, dopo il salto, i candidati.

moonlight in Paris.



Magic In The Moonlight
id., 2014, USA, 97 minuti
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura originale: Woody Allen
Cast: Colin Firth, Emma Stone, Marcia Gay Harden,
Simon McBurney, Hamish Linklater, Eileen Atkins, Jacki Weaver
Voto: 5.5/ 10
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Colin Firth assume sembianze orientali per i suoi spettacoli di magia berlinesi dalle scenografie curate e ben fatte, e dall'aspetto irriconoscibile: dietro le quinte è un continuo lamentarsi, urlare, rimproverare – è il suo carattere dispotico e schietto, dall'arte oratoria eccelsa, che lo pone in questa posizione di comando involontario, data anche la fama internazionale che ha accumulato. Pare sia esperto pure in smascheramenti di ciarlatani, personaggi che millantano capacità mistiche che in realtà non hanno, maghi da strapazzo che non si dicono illusionisti ma illuminati, trascendentali, e vogliono far credere a pubblico e stampa di entrare in contatto coi morti, di sentir voci, spostare tavoli col pensiero. Ultima fiammella in questa categoria è Emma Stone, la fidanzatina d'America dopo Crazy, Stupid, Love. e The Help e Spider-Man già dimenticata ma con i connotati, appunto, di fidanzatina: occhioni grandi e liquidi, braccia magre magre, un piacevole difetto di pronuncia e molta classe nel muoversi. Siamo, in fondo, negli anni '30 a cui i fantasmi di Midnight In Paris aspiravano, e i deliziosi costumini cuciti addosso agli attori e i giardini illuminati dal sole che tramonta sono pennellate di eleganza e sobrietà nell'immagine. Per cui la Stone è quasi impossibile da smascherare, come si può credere che un visino tanto caro, che presto andrà in sposa a un ereditiere miliardario, che ha una madre devota ai suoi affari (Marcia Gay Harden) e che si occupa dell'apertura di un centro spiritico sulle sue doti (con la sempre splendida Jacki Weaver), come si può credere che sia un'imbrogliona? Chi la conosce decanta le sue doti: coglie provenienze e abitazioni passate di ogni sconosciuto, indovina anche cosa abbia fatto e da dove sia partito Colin, ma lui è scettico, devoto al raziocinio, all'intelletto umano, a Nietzsche e al lume scientifico. Assiste a cerchi spirituali, conversazioni con l'aldilà, e colpito più dalla figura slanciata e dal sorriso timido di lei che dalla dote soprannaturale finisce col crederci ciecamente, finendo con lo sponsorizzarla alla massa e ai giornalisti, dicendosi «felice» e «colpevole di scetticismo per tutta una vita». In teoria ha a casa una quasi-moglie che lo aspetta, ritratto di lui al femminile, pugno di ferro e intraprendenza, che ha fatto la proposta di matrimonio invece di riceverla. Firth però brilla di fianco e di fronte a tutti, perché capace di sciorinare vocaboli e battute argutissimi, un linguaggio – che è di Allen – che si fa ironico essendo caustico, che non è nevrotico ma piglia il fattore più positivo dell'insulto: è totalmente incapace di non far rimanere male le persone, è incapace anche di dimostrare il suo amore senza ferire, umiliare, prendere in giro. Sa di essere colto e intelligente e lo fa notare continuamente, mentre la Stone continuamente ammette di non capire i libri che legge. Eppure sono poche le trovate che sul serio fanno ridere perché i battibecchi a due rasentano sempre la serietà di ogni scena. La trama scorre lineare e senza intoppi, semplicissima, semplicistica. Ci viene presentato uno spaccato molto corto di questa storia verso la cui fine tendiamo totalmente privi di tensione, di sorpresa, di aspettative. La riuscita (se c'è) è data dal minestrone di fattori passati a cui il cinema di Woody Allen ci ha abituati: a partire dal prestigio, che gli piace proprio, che anche solo chi l'ha scoperto tardi se n'è accordo con Sccop, con L'uomo Dei Tuoi Sogni ma soprattutto con Lo Scorpione Di Giada; gli scambi di coppia, i rapporti conflittuali che diventano sentimentali, gli imbroglioni da svelare e poi la musica nostalgica da cabaret che qui non è nostalgica perché è contestualizzata, ma è sempre la solita. Niente di più di quello che ci si aspettava dopo la buona riuscita di Blue Jasmine: abbiamo imparato, per stessa ammissione dell'autore, che questa regola dell'un-film-all'anno funziona uno sì e molti no, per cui questo possiamo aspettare di vederlo in televisione e aspettiamo il prossimo, già finito di girare, e con la stessa attrice.

venerdì 5 dicembre 2014

l'architecture.



La Sapienza
id., 2014, Francia/ Italia, 105 minuti
Regia: Eugène Green
Sceneggiatura originale: Eugène Green
Cast: Fabrizio Rongione, Christelle Prot, Ludovico Succio,
Arianna Nastro, Hervé Compagne
Voto: 7.4/ 10
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Studente di Storia dell'Arte negli anni '70, Eugène Green si avvicinò alla figura di Francesco Borromini col desiderio di fare, un giorno, un film biografico sul quasi-più famoso architetto barocco di Roma. Passavano gli anni e Green si avvicinava al palcoscenico, chiamava la sua compagnia Théâtre de la Sapience e cominciava ad avvicinarsi al mestiere di cineasta: sarà del 2001 il primo Toutes Les Nuits, primo di una nutrita filmografia che è stata celebrata nelle Onde del Torino Film Festival del 2001. La maturazione l'ha portato a distaccarsi completamente dal cinema storico e in costume, perché in esso «l'attore recita psicologicamente, si muove pensando a come muoversi e quindi non con naturalezza», mentre il suo approccio registico è «privo di intelletto: perché l'intelletto blocca il flusso di energia dall'interno». Per cui Borromini c'è, ma è un fantasma (attenzione all'uso del termine) del passato che si fa spazio e luce tra gli architetti del presente. Eppure la pecca maggiore di questa pellicola dal titolo splendido, dove Sapienza non è soltanto la chiesa ma anche la massima arte, anche la cultura che vi è dietro la metafora costante di ogni scena, è proprio l'interpretazione dei suoi attori, dei suoi due attori giovani soprattutto, perché agli adulti non si può dir niente: Christelle Prot è perfetta, sarà perché il ruolo le è stato scritto addosso; Fabrizio Rongione invece, volto cardine del cinema naturalista dei fratelli Dardenne, è qui un tronco monoespressivo e serio, algido, che non sa dove mettere le mani, impenetrabile ma anche un po' trascinato. Sono un marito e una moglie che non si toccano, non si sfiorano, non si guardano nemmeno. Un lutto del passato li ha fatti allontanare, irrigidire, e adesso conducono le proprie vite come se fosse un favore stare insieme, in silenzio a cena, a casa, nelle notti insonni. Dopo un premio ricevuto per le architetture progettate e un discorso magnifico, lui decide di partire e rimettere mano a un vecchio progetto, un libro su Borromini. Lei lo accompagnerà, per i luoghi della nascita e poi della massima esposizione del rivale di Bernini, contro il quale rappresenta la progettazione mistica piuttosto che quella razionale, un lato che nella carriera e nell'approccio del protagonista manca totalmente. Un incontro fortuito, lo svenimento di una ragazza per strada, li porterà a formare due coppie involontarie, le donne e gli uomini, due a Roma e due a Strese, due a parlare di arte e due di psiche, scavando nei fantasmi del passato per ritrovarsi migliorati, anche se il personaggio di Ludovico Succio, effettivo diplomando dell'anno scorso verso gli studi veneti, appare come strumento per raggiungere la grazia. «Il cinema è la migliore espressione d'arte per raccontare l'Architettura», sostiene il regista; ne scaturiscono visite guidate (dalla telecamera) attraverso le facciate dei più bei siti romani e torinesi, visite chirurgiche, che analizzano ogni volta, ogni soffitto, ogni ellisse della cupola. L'accompagnamento è la voce fuori campo che ci racconta un pezzo di Storia: per questo, forse, il film è una di quelle pellicole che si fa vedere una volta sola, didattica ma non didascalica. La sceneggiatura, che risale al 2007, conta anche una ciliegina culturale nella figura che il regista interpreta alla fine, fantasma venuto da lontano a placare gli animi presenti: la sua lingua non è il francese ma l'aramaico, e teme per sé e le sue genti che questo si estingua, cosa che effettivamente sta succedendo. Il film è colto, ricco come un'opera barocca deve essere: ricca di intelletto e di pancia, dove tutto è lì per essere visto ma si vede meglio se si hanno gli strumenti per decifrarlo. L'apparente bizzarria dei dialoghi, campi e controcampi frontali e vicinissimi, e le simmetrie continue e costanti che non permettono la comparsa dello zucchero sui tavoli del caffè, contraddicono l'intento del regista: ma il modo di recitare «dei barbari, dove barbara è quella società tra il Messico e il Canada» ci ha abituati a uno stile finto, costruito. Non sembra naturale neppure questo, in effetti, ma in fondo siamo in un film barocco alla Borromini, quando un film barocco alla Bernini sarebbe sicuramente La Grande Bellezza.

Oscar 2015 - documentari.



Nell'anno dei film stranieri che battono a mani basse gli americani, la shortlist dei 15 documentari in lizza per la nomination agli Oscar 2015 è quasi completamente firmata USA. Esce dal gruppo Wim Wenders che con il figlio del fotografo José Salgado firma un celebrato documentario, Il Sale Della Terra, sul rapporto tra l'uomo, l'immagine e la devozione alla natura utilizzando molto materiale di repertorio per una co-produzione francese, brasiliana e in parte italiana. Sono poi Jodorowsky's Dune e Virunga che respirano aria extra-americana, ma la vittoria lo scorso anno di 20 Feet From Stardom su The Act Of Killing ci dimostra che a prescindere dal tema e dalla potenza del film, l'Academy resta industria legata al proprio territorio. Joshua Oppenhaimer battuto l'anno scorso qui nemmeno c'è, con la seconda parte della sua inchiesta sul genocidio indonesiano. Spunta però il leggero e spensierato Alla Ricerca Di Vivian Meier, ora edito da Feltrinelli in Italia, con la sua bizzarra storia sempre a partire da una fotografa, contro The Internet's Own Boy sul suicidio precoce di Aaron Swartz. La gara è però tutta fra il divertente, doloroso, biografico Life Itself – storia della vita del critico cinematografico Roger Ebert – e il mezzo tedesco Citizenfour, diretto da una donna, sul controllo delle nostre vite da parte del governo attraverso più paesi. Le nominations degli 87esimi Academy Awards saranno annunciate il 15 gennaio 2015.

Art And Craft di Sam Cullman, Jennifer Grausman e Mark Becker (USA)
The Case Against 8 di Ben Cotner & Ryan White (USA)
Citizen Koch di Carl Deal & Tia Lessin (USA)
Citizenfour di Laura Poitras (Germania & USA)
Alla Ricerca Di Vivian Maier di John Maloof & Charlie Siskel (USA)
The Internet's Own Boy: The Story Of Aaron Swartz di Brian Knappenberger (USA)
Jodorowsky's Dune di Frank Pavich (USA & Francia)
Keep On Keepin' On di Alan Hicks (USA)
The Kill Team di Dan Krauss (USA)
Last Days In Vietnam di Rory Kennedy (USA)
Life Itself di Steve James (USA)
The Overnighters di Jesse Moss (USA)
Il Sale Della Terra di Juliano Ribeiro Salgado & Wim Wenders (Francia, Brasile e Italia)
Tales Of The Grim Sleeper di Nick Broomfield (USA & UK)
Virunga di Orlando von Einsiedel (UK & Congo)

i am. i will.



Hunger Games:
Il Canto Della Rivolta - Parte I
The Hunger Games: Mockingjay - Part I, 2014, USA, 123 minuti
Regia: Francis Lawrence
Sceneggiatura non originale: Peter Craig, Danny Strong e Suzanne Collins
Basata sul romanzo omonimo di Suzanne Collins (Mondadori)
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth,
Woody Harrelson, Donald Sutherland, Philip Seymour Hoffman,
Julianne Moore, Willow Shields, Sam Claflin, Elizabeth Banks, Stanley Tucci
Voto: 6.8/ 10
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I settantacinquesimi ed ultimi Hunger Games – cerimonia celebrativa in cui ogni Distretto mandava due tributi ex sopravvissuti dopo il tour di successo della coppia Katniss/ Peeta – si erano interrotti perché Jennifer Lawrence aveva scagliato la sua freccia verso il cielo, interferendo nel campo magnetico che regolava l'arena e la città intera di Capitol City. L'avevamo lasciata, la Lawrence, mezza esausta, in un letto chissà dove a scoprire che quell'atto era stato l'inizio di una ribellione, contro la quale si erano schierate molte delle persone che abbiamo conosciuto nei film precedenti, e adesso la ritroviamo a fare il riassunto delle puntate precedenti a se stessa. Peeta è rimasto là, dove l'industria della televisione e dell'apparenza regna sovrana; lei si rifugia nel Distretto 13, che si credeva estinto, e invece ben capitanato dalla nuova leva Julianne Moore presidentessa al fianco del deceduto Philip Seymour Hoffman miracolosamente presente nelle scene in cui serve. La ribellione che da questi sotterranei parte ha bisogno di un leader, e il leader deve essere la ghiandaia imitatrice del titolo originale, Mockingjay: Katniss accetta di capitanare i rivoltosi e le servono una regista in erba, due telecamere sempre presenti, un manager, una curatrice della sua immagine, un nuovo costume disegnato da Lenny Kravitz prima che morisse: siamo tornati alla satira del ventunesimo secolo con cui la trilogia si nutre e che sbeffeggia: il kitch, lo sperpero del denaro, i piani alti e i piani bassi, i lavoratori catalogati dal meno al più umile, e la diretta, che tutto decide e attorno alla quale tutto ruota. Mentre i film precedenti giocavano tantissimo dentro questo aspetto, ironizzando su una realtà non ancora raggiunta ma volto vicina, questa volta il peso amaro si sente molto meno, e se sono meno le telecamere davanti alle quali bisogna ben apparire sono molti di più i monitor e i televisori: Katniss scopre che Peeta è vivo solo attraverso uno schermo, così Peeta scopre Katniss, e i distretti scoprono della rivolta, e il presidente Snow scopre Katniss. Le persone quasi non comunicano fisicamente perché fisicamente c'è sempre di mezzo l'esercito pronto a sterminare. Il genocidio è qui estremo, molto più cieco, e serve a rimpiazzare gli Hunger Games che non vengono celebrati: niente più preparazione all'arena né attesa né tensione durante i giochi: questo film non ha niente. Prodotto commerciale per raddoppiare gli incassi, il terzo capitolo è stato diviso inutilmente in due parti – ma i due film sono stati girati insieme – per cui questo serve solo da tramite verso il prossimo, per il quale c'è da aspettare un anno. È un film di passaggio il cui apporto narrativo rasenta lo zero, e ripropone le solite solfe – l'indecisione della protagonista sul ragazzo che preferisce, visto che Liam Hemsworth questa volta ha molto più spazio e Josh Hutcherson molto meno, e quasi l'ammazza strozzandola; la falsità dei conduttori televisivi e dell'industria che li regge; l'omertà verso certi episodi e l'ignoranza in cui certi popoli vengono fatti vivere, ignari per esempio che la propria città sia stata rasa al suolo. Pellicola celebrativa della Lawrence e dei suoi legami familiari (ridicola la scena del gatto da salvare), si basa su un'attrice-del-momento a cui viene messa in bocca anche una ingiustificata (ma splendida) canzone, tra le tante canzoni che formano la solita colonna sonora d'impatto commerciale che riesuma addirittura Grace Jones (ma nei titoli di coda c'è solo Lorde). Al solito le due ore valgono anche solo per Elizabeth Banks che col passare degli episodi rivela ogni volta volti sempre nuovi e umani del suo personaggio; qui, ridotta a condividere con la plebe gli spazi e i vestiti, ci regala i monologhi d'ironia più alta, le battute più riuscite, facendoci dimenticare del suo ruolo nel primo film – che era un film da ovazione, ma poi come si sa il regista è cambiato e questa volta gli sceneggiatori pure e a dita incrociate aspettiamo il prossimo novembre.

giovedì 4 dicembre 2014

Golden Globes 2015 - i film stranieri.



La regola è che: il film abbia almeno il 51% dei dialoghi in una lingua diversa dall'inglese, che venga proiettato nel suo Paese (o nei suoi Paesi se è una co-produzione) in un periodo che va dall'1 novembre dell'anno precedente al 31 dicembre dell'anno in corso e che abbia una proiezione per la Hollywood Foreign Press Association, la Stampa Estera Americana che ogni anno sceglie e assegna i Golden Globes. Questa volta, sono 53 i film selezionati per rappresentare i diversi stati alla competizione: non vige l'obbligo degli Oscar di scremare le pellicola a una per Paese – per cui la Francia si ritrova con sei possibilità in lizza di cui due raccontano di Yves Saint Laurent (ma solo quella col titolo corto concorre per l'Academy) insieme al maestoso Venere In Pelliccia di Polanski. Ancora: i documentari non possono essere inseriti in questa categoria e i film stranieri non possono essere candidati alla migliore pellicola, né musical né comedy né drama – ma attori, registi eccetera sì, nelle rispettive categorie. L'Italia è rappresentata da Il Capitale Umano con scarsissime probabilità di successo (dopo la vittoria inaspettata dell'anno scorso). I mostri sacri Mommy dal Canada (che manda altri due film), Il Regno D'inverno turco, Leviathan dalla Russia e Ida dalla Polonia se la devono vedere coi più piccoli Storie Pazzesche argentino ma prodotto dalla spagnola El Deseo di Almodóvar, il bislacco Turist svedese e l'emergente Gett dall'Israele. L'estromissione di Due Giorni, Una Notte lascia intendere la certa candidatura di Marion Cotillard a migliore attrice, a seguito anche dei numerosi riconoscimenti che in questo periodo sta ottenendo. Le risate più sonore: giungono dalla tripletta tedesca, che contiene due film sui vampiri. Le nominations ai 72esimi Golden Globes saranno annunciate giovedì prossimo, 11 dicembre, e la cerimonia di premiazione si svolgerà l'11 gennaio 2015. Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i film stranieri in competizione.

martedì 2 dicembre 2014

la marcia dei pinguini.



I Pinguini Di Madagascar
Penguins Of Madagascar, 2014, USA, 92 minuti
Regia: Eric Darnell & Simon J. Smith
Sceneggiatura originale: John Aboud, Michael Colton e Brandon Sawyer
Soggetto: Alan J. Schoolcraft e Brent Simons
Basata sui personaggi di Eric Darnell & Tom McGrath
Voci originali: Tom McGrath, Chris Miller, Christopher Knights, Conrad Vernon,
John Malkovich, Benedict Cumberbatch, Peter Stormare, Andy Richter
Voci italiane: Luigi Ferrario, Gerolamo Alchieri, Franco Mannella,
Alberto Angrisano, Marco Mete, Paolo Buglioni, Oreste Baldini
Voto: 8.4/ 10
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Come è successo per Scrat de L'era Glaciale e per i planes di Cars – e mi viene in mente anche il vecchio tentativo fallito di Bartok da Anastasia – capita spesso che personaggi secondari siano più comici, amati, interessanti dei principali al punto da meritare uno spin-off, e nell'era dei prequel e dei sequel animati anche Madagascar ha chiesto il suo, già con la serie animata compare di Kung Fu Panda e Dragontrainer, adesso con un lungometraggio che fagocita (cinematograficamente parlando) tutti e tre i film “base” precedenti. I quattro pinguini-agenti speciali-pasticcioni, ci vengono presentati all'alba delle origini, nell'habitat caro ai documentaristi, quel polo incontaminato e bianco dove si marcia senza meta e si ha paura del mondo esterno. Skipper, Kowalski e Rico sono cuccioli disobbedienti, e apparentemente senza famiglia, che si staccano dal gregge per seguire un uovo, che scoprono presto di essere portati per l'avventura e si ritrovano a formare un piccolo nucleo familiare (e soprattutto, tutto maschile) per allevare ed educare Soldato, l'uovo dischiuso lontano dai ghiacciai. Parte da qui la storia che conosciamo per stralci da un certo punto in poi, e gli stralci vengono ben inseriti nella narrazione totale che copre un grande arco di tempo e di luoghi, dalle prime comparsate negli zoo all'attuale vita circense; il cattivo di turno è un David/ Dave dal nome cangiante e dall'aspetto doppio, molti tentacoli e una sete di vendetta un po' inspiegabile ed esagitata. L'obiettivo sarebbe tramutare i pinguini in mostri in modo da catalizzare tutto l'affetto degli esseri umani, e i bersagli primi sono proprio i quattro di Madagascar (che a Madagascar, effettivamente, non ci sono mai arrivati). Al bianco e nero dei pinguini si somma la scala di grigi del Vento del Nord: contro il polpo si mette anche una banda super-organizzata di animali algidi munita di navicelle, computer, armi, attrezzature tecnologiche all'avanguardia, che si scusa per gli «ologrammi rozzi» partendo dal presupposto che un buon piano sia la partenza necessaria al raggiungimento dello scopo. I pinguini invece lavorano d'istinto, perennemente col 95% di probabilità di fallire, e come ci insegnerà Soldato sempre mettendoci il sentimento, correndo il rischio. Il film è su di lui, e sulla sua accettazione nel gruppo: piccolo, inesperto e ultimo arrivato, rappresenta l'apparenza che inganna sempre e che deve faticare il doppio per farsi ascoltare. Ma il film è anche sul fare invece che dire, sul braccio sopra alla mente, su chi ha pochi mezzi ma li sa usare bene. I soliti buonismi da film d'animazione sono qui magicamente mascherati: innanzitutto, da una trama bizzarra e frizzantissima, costruita per non avere un minuto in cui ci si ferma a pensare; e poi, dietro una regia sopraffina che utilizza tecniche nuove ai film d'animazione – pianisequenza aerei, titoli di testa inseriti nello spazio, sfondi roteanti e un umorismo perenne e disastroso, un umorismo spesso fatto per gli adulti e non per i bambini («in Francia?, con quel sistema fiscale?»). Punta di diamante è la Dublino di Shanghai, ma sono infiniti e disparati i momenti in cui si ride. I quattro pinguini, molto più che nella serie animata, sono animali da palcoscenico, anzi da schermo, capacissimi di tenere l'attenzione costante e nascondere il calo narrativo degli ultimi minuti. Ad Eric Darnell già regista di tutti i mediocri Madagascar si affianca il novello Simon J. Smith (esecutore in Shrek, regista di Bee Movie), e la coppia funziona, mentre Tom McGrath viene spostato solo dietro al microfono per dare la voce a Skipper. Il suo sarà un testa-a-testa con l'onnipresente Benedict Cumberbatch che presta l'accento super british a Classified, l'Agente Supersegreto che nei tratti ricorda Alex. Un citazionismo continuo verso se stessi: un film d'animazione splendido.

venerdì 28 novembre 2014

32TFF: il reame



Stella Cadente
id., 2014, Spagna, 105 minuti
Regia: Lluis Miñarro
Sceneggiatura originale: Sergi Belbel & Lluis Miñarro
Cast: Àlex Brendemühl, Lola Dueñas, Lorenzo Balducci, Bárbara Lennie, Francesc Garrido, Àlex Batllori, Gonzalo Cunill, Francesc Orella
Voto: 4/ 10
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1870, novembre: con il doppio dei voti ottenuti dalla Democrazia, Amedeo d'Aosta fratello di ciò che sarà Umberto I e iniziatore della dinastia dei Savoia diventa Re di Spagna (ma si trova a Torino). 1871, gennaio: Amedeo arriva in Spagna pieno di ideali progressisti e innovativi e subito gli consigliano di ritirarsi – il suo predecessore è stato assassinato, nell'aria si espande il rumore delle bombe. La Spagna non è pronta a questo stacco generazionale, a quest'apertura di mente: lavora ancora su intrighi e corruzione dentro al castello. Rifiutandosi di abdicare, allora, Amedeo passerà la maggior parte dei suoi giorni rinchiuso nelle stanze, ad aspettare fremente l'arrivo della moglie María Victoria, ad intravedere le nudità della cuiñera Lola Dueñas tanto cara al maestro Almodóvar, a farsi servire e riverire dal suo fedele assistente e dal giovanissimo cameriere di corte – e qui iniziano le bizzarrie: quest'ultimo, si diverte a sottrarre al sovrano indumenti e accessori che usa o lecca o indossa per travestismi danteschi; quell'altro, nel raccogliere la frutta e prepararla per il pasto (rigorosamente privo di carne), buca meloni e c'infila dentro il già turgido pisello per masturbarsi – e poi servire in tavola. Finiranno ovviamente in una tresca omosessuale che si conclude con l'origine du monde ribaltata al maschile in un primo piano anatomico di Lorenzo Balducci di cui si parlava molto prima che questo film arrivasse al festival. Di passaggio in Tre Metri Sopra Il Cielo e Il Cuore Altrove e poi nell'anche gay-friendly Ma L'amore... Sì!, Balducci non è mai riuscito, nonostante l'eredità familiare, a sfondare nel nostro Paese, ed espatria per trovare effettivo chiacchiericcio sul Web che si diverte a votargli il pene. Come attore c'è ben poco da giudicare: il suo personaggio, come quasi tutti, sfiora il mutismo. Le scene, forse a voler rappresentare il peso dei giorni sempre uguali e tutti di fila, in questa clausura a quattro tra le stoffe e i banchetti, sono costruiti come quadri pre-barocchi, dove le frutte trovano colori brillanti, innaturali, le composizioni sui tavoli spiccano in simmetrie e accostamenti. A sottolineare ciò sono le riprese fisse, di pochi secondi, su pochi dettagli, e la telecamera sempre ferma a inquadrare i dialoghi a due, o i silenzi di coppia. Spezzerà l'incanto l'arrivo di Bárbara Lennie, una regina poco credibile che presto tornerà da dov'è venuta ricacciando il marito nello sconforto politico tra solitudine e alienazione. Àlex Brendemühl, il re, ogni tanto si perde in dialoghi o meglio monologhi che sfiorano la Filosofia e la Storia, la Politica e l'Estetica – ma non ci crede nessuno, dato che la scena successiva sarà di due natiche al bagno e la precedente una macchia di sperma sui pantaloni. Lluis Miñarro, costruendo una lingua a metà tra il castigliano e il catalano antichi, non si prende sul serio né cerca di fare un film dal serio contorno storico, dalla credibile costruzione realistica. L'attenzione a scene costumi trucchi si concede delle immagini claustrofobiche che passano in secondo piano rispetto all'assurdità del resto; se l'obiettivo era sconvolgere o infastidire, però, non c'è riuscito: il film manca di eccesso: in un senso o nell'altro. Non è davvero ironico né è grottesco fino in fondo. Resta in quel limbo pericolosissimo che lo rende artisticamente insufficiente, la solita storia contro cui si scagliano tutti. Non serviranno gli istrionici titoli di coda a far cambiare idea. Qualcuno uscendo dalla sala ha anche esagerato: «se la giornata non era un granché, questo me l'ha rovinata».

32TFF: il fisico.



La Teoria Del Tutto
The Theory Of Everything, 2014, UK, 123 minuti
Regia: James Marsh
Sceneggiatura non originale: Anthony McCarten
Basata sul romanzo di Jane Hawking
Cast: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Harry Lloyd, Emily Watson,
Michael Marcus, Alice Orr-Ewing, David Thewilis
Voto: 7/ 10
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Stephen si alza al mattino quando gli altri hanno già seguito la prima lezione, mette su Wagner, beve il caffè che non rovescia sugli appunti sparsi in fogli sulla scrivania, esegue gli esercizi di Fisica dietro al libretto degli orari dei treni in mancanza di altri supporti, il giorno prima di consegnarli, senza aver letto le tracce per i sei giorni precedenti. Divide la stanza con Harry Lloyd che è al Festival di Torino anche in Big Significant Things, insipidamente in concorso, e con lui ride e bivacca e beve birra e corre in bici verso le feste di Cambridge durante le quali non ha tempo né modo di pensare al tema della sua tesi, né al suo dottorato. Pensa però a Jane, che incontra all'improvviso, vede tra la folla, come solo nei film succede o che solo i film ci sanno raccontare in questo modo. Jane, religiosissima studentessa di Lettere, Francese e Spagnolo, Poesia medievale, e Stephen, che riuscirà a corteggiarla con l'eleganza degli anni '60 e la tenacia delle persone argute, prenderanno dopo il matrimonio il di lui cognome: Hawking. Ma il matrimonio arriverà solo dopo la malattia che tutti conosciamo: un atrofizzarsi dei muscoli degenerativo, una incipiente capacità di camminare, muovere le mani, poi anche parlare – solo un organo funzionerà benissimo, perché «automatico», e darà loro tre figli nonostante l'aspettativa di due anni diagnosticata dai medici. Ma essere giovani negli anni '70 e avere tre figli e non essere una famiglia normale nonostante la fama in tutto il mondo «per i buchi neri e non per i concerti rock» non sarà facile, soprattutto per Jane, una Felicity Jones finalmente protagonista assoluta di una grossa produzione che la lancia alla mercé del pubblico e dei colleghi, dopo l'immenso ruolo da protagonista passato inosservato in Like Crazy. Ed è questa la maggiore lode al film: che mette in scena le doti interpretative altissime di due giovanissimi attori british, a cominciare da Eddie Redmayne sempre non-protagonista nei recenti Les Misérables e My Week With Marilyn e nel primo Savage Grace, immenso, devoto al ruolo fin nelle più piccole espressioni, nella postura, nelle patate lanciate fuori dal piatto, nell'articolazione degli arti: per lui il lavoro è stato lento e profondo, come racconta ricevendo il premio Maserati (accettandolo dicendo: «siete un Paese famoso per le sculture e si vede in queste splendide statuette»): dopo studi sul vero Stephen Hawking è arrivato a incontrarlo impedendogli di parlare per quarantacinque minuti, parlando soltanto di Stephen Hawking a Stephen Hawking, che ha visto il film sulla sua vita ai tempi del college e del primo matrimonio, concedendo l'utilizzo della sua voce elettronica, «così iconica», che è protetta da copyright. Il film, sembrerebbe, la trasposizione romanzata di una dolorosa fiaba d'amore – dove l'amore, come nelle fiabe tradizionali, finisce e diventa altro. Eppure di romanzato c'è poco, essendo la storia vera della longeva coppia. Ma la romanzazzione è sottolineata da tutti quegli ingredienti cinematografici d'intrattenimento a cui l'industria USA ci ha abituato (però questo è un film UK, e lo sappiamo dal solito cameo di Emily Watson, che dice «la cosa più inglese che si possa dire», e cioè risolvere i propri problemi andando al coro della chiesa): mai la musica fu così presente in un film, diciamo, sulle Scienze Matematiche, dai tempi di The Proof. Di Jóhann Jóhannsson, autore della colonna sonora di Prisoners, l'accompagnamento musicale sfiora la potenza del John Williams disneyano e si concede lunghe iperboli narrative fatte, per esempio, di filmini familiari, scene oniriche e sfuocate, titoli di coda un po' fuori luogo che però ci riempiono di quella sensazione cinematografica ruffiana con cui si esce dalla sala annuendo. James Marsh è però il regista di Man On Wire, e sappiamo che è capace di ben altro: si affida ai due interpreti in odore di Oscar che fanno dimenticare tutto il resto e si dimentica lui per primo come si confeziona un film originale.