mercoledì 16 aprile 2014

le scatole di latta.



Grand Budapest Hotel
The Grand Budapest Hotel, 2014, USA/ Germania, 100 minuti
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura originale: Wes Anderson & Hugo Guinness
Basata sull'opera di Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Jude Law, Tony Revolori,
Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Jeff Goldblum,
Jason Schwartzman, Saoirse Ronan, Léa Seydoux, Owen Wilson,
Harvey Keitel, Tom Wilkinson, Tilda Swinton, Giselda Volodi
Voto: 7.7/ 10
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Il regista più amato dai giovani hipster di tutto il mondo, dai vintage-addicted, dagli indie-lovers, torna al cinema e riempie le sale di queste suddette persone (ma chiedete loro in quanti hanno visto Steve Zissou) e non c'è da meravigliarsi se si sentirà dire tra i corridoni «è la rinascita di Wes Anderson», perché il mondo si divide tra chi il-miglior-film-è-Moonrise Kingdom e chi non-m'è-piaciuto-per-niente, ma a noi tutto ciò non importa: guardiamo il film chiedendoci come inizi – perché di Moonrise c'èra rimasto impresso l'incipit, o meglio l'overture: un bolero in crescendo di musica e rigore tecnico, un rigore che sfiora l'ossessione, il barocchismo; ma qui di questo avviso non c'è bisogno: lo sappiamo così tanto (noi e i giovani indie in sala) che il furfantello ci spiazza con una struttura narrativa a scatole cinesi di cui non capiamo niente (all'inizio). Si aggiungono dei cartoncini che fanno skyline e fondali, macchinine-ascensori che salgono: tutto è finto, la facciata dell'albergo/ casa delle bambole intonso, rosa shocking, facciata da cupcake di Marie Antoinette, sono finte le perenni doppie scale, le tappezzerie immacolate, le immacolate moquette – fino alla macchina da presa, che come previsto è un'esplosione di simmetrie, carrellate laterali, asse fermo o binari dritti. Tutto è ripreso dalla stessa altezza da terra e le poche volte che vediamo un primo piano decentrato, un'immagine dall'alto, pare di respirar di sollievo perché ci sentiamo umani. Perché da I Tenenbaum ad oggi la particolarità stilistica del regista amico dei Coppola è diventata un'angoscia, ciò che ci aspettiamo di trovare, ciò che pretendiamo, insieme a una cura maniacale del dettaglio, delle scene, dei costumi – insieme a un cast immenso, variegato, ripetitivo con grazia.
Qui tutto rispetta il canone, pur'anche la trama, che non ve ne accorgete ma è sempre la stessa: una routine, il desiderio d'interromperla o l'accidente, la tensione della fuga, la gioia finale. Lo era la giovanissima coppia di Moonrise e lo erano George Clooney e Meryl Streep in Fantastic Mr. Fox – a cui forse questo film è profondamente legato, ricalcando le costruzioni sceniche del videogioco, le avventure piatte, le slitte (fintissime) che saettano in bivi innevati.  Lo era Il Treno Per Il Darjeeling, col suo esotismo indianeggiante che pure qui ricorre in un co-protagonista alla Millionaire (Tony Revolori): si chiama Zero Moustafa, ha frequentato scuole e lavorato in alberghi ma le sue credenziali sono nulle per entrare nel Grand Budapest Hotel, il luogo dove tutti, nella Repubblica di Zubrowka, vorrebbero lavorare, dove Ralph Fiennes lavora: finissimo capo-personale con un debole per le anziane bionde, si prende cura dello stabile e dei suoi ospiti facendo brillare il tutto a nuovo, meritandosi l'eredità di Tilda Swinton (ancora più irriconoscibile che in Snowpiercer e miseramente ritagliata nei primi cinque minuti) che include un quadro rinascimentale di un Ragazzo Con Mela per il quale entrerà e uscirà dal carcere. Ma torniamo all'inizio: la struttura narrativa prevede una ragazzina che davanti alla statua in memoria dell'autore legge un libro che racconta di un incontro tra un anziano (F. Murray Abraham) e un giovanotto (Jude Law) a cui il primo racconta la storia di come ha ottenuto l'albergo. Il tutto impiega i primi trenta e gli ultimi quindici secondi per dipanarsi: un peccato, considerando le digressioni, per esempio, sul viaggio senza ritorno di Law totalmente inutili alla narrazione. Come gran parte dei personaggi che si susseguono in un vomito: Bill Murray è una specie di allucinazione, Owen Wilson pure, Jason Schwartzman già si stanzia più a lungo – a noi italiani dovrebbe saltare agli occhi Giselda Volodi, relegata in piccole parti (È Stato Il Figlio, Il Comandante E La Cicogna) e qui presente per l'internazionalità dell'opera (girata a Berlino e macchiata dai francesi Mathieu Amalric e Léa Seydoux).
Ma come si può non voler bene a tanta tradizione narrativa infantile, tanto amore per la sartoria di cinquant'anni fa, tante stanze ricreate con minuzia? L'intento era ricucire i ricordi di Stefan Zweig, autore di Lettera A Una Sconosciuta. Ma lui era europeo negli anni '30; Anderson è americanissimo e semplicemente nostalgico dei biscotti nelle scatole di latta.

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