venerdì 28 novembre 2014

32TFF: il fisico.



La Teoria Del Tutto
The Theory Of Everything, 2014, UK, 123 minuti
Regia: James Marsh
Sceneggiatura non originale: Anthony McCarten
Basata sul romanzo di Jane Hawking
Cast: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Harry Lloyd, Emily Watson,
Michael Marcus, Alice Orr-Ewing, David Thewilis
Voto: 7/ 10
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Stephen si alza al mattino quando gli altri hanno già seguito la prima lezione, mette su Wagner, beve il caffè che non rovescia sugli appunti sparsi in fogli sulla scrivania, esegue gli esercizi di Fisica dietro al libretto degli orari dei treni in mancanza di altri supporti, il giorno prima di consegnarli, senza aver letto le tracce per i sei giorni precedenti. Divide la stanza con Harry Lloyd che è al Festival di Torino anche in Big Significant Things, insipidamente in concorso, e con lui ride e bivacca e beve birra e corre in bici verso le feste di Cambridge durante le quali non ha tempo né modo di pensare al tema della sua tesi, né al suo dottorato. Pensa però a Jane, che incontra all'improvviso, vede tra la folla, come solo nei film succede o che solo i film ci sanno raccontare in questo modo. Jane, religiosissima studentessa di Lettere, Francese e Spagnolo, Poesia medievale, e Stephen, che riuscirà a corteggiarla con l'eleganza degli anni '60 e la tenacia delle persone argute, prenderanno dopo il matrimonio il di lui cognome: Hawking. Ma il matrimonio arriverà solo dopo la malattia che tutti conosciamo: un atrofizzarsi dei muscoli degenerativo, una incipiente capacità di camminare, muovere le mani, poi anche parlare – solo un organo funzionerà benissimo, perché «automatico», e darà loro tre figli nonostante l'aspettativa di due anni diagnosticata dai medici. Ma essere giovani negli anni '70 e avere tre figli e non essere una famiglia normale nonostante la fama in tutto il mondo «per i buchi neri e non per i concerti rock» non sarà facile, soprattutto per Jane, una Felicity Jones finalmente protagonista assoluta di una grossa produzione che la lancia alla mercé del pubblico e dei colleghi, dopo l'immenso ruolo da protagonista passato inosservato in Like Crazy. Ed è questa la maggiore lode al film: che mette in scena le doti interpretative altissime di due giovanissimi attori british, a cominciare da Eddie Redmayne sempre non-protagonista nei recenti Les Misérables e My Week With Marilyn e nel primo Savage Grace, immenso, devoto al ruolo fin nelle più piccole espressioni, nella postura, nelle patate lanciate fuori dal piatto, nell'articolazione degli arti: per lui il lavoro è stato lento e profondo, come racconta ricevendo il premio Maserati (accettandolo dicendo: «siete un Paese famoso per le sculture e si vede in queste splendide statuette»): dopo studi sul vero Stephen Hawking è arrivato a incontrarlo impedendogli di parlare per quarantacinque minuti, parlando soltanto di Stephen Hawking a Stephen Hawking, che ha visto il film sulla sua vita ai tempi del college e del primo matrimonio, concedendo l'utilizzo della sua voce elettronica, «così iconica», che è protetta da copyright. Il film, sembrerebbe, la trasposizione romanzata di una dolorosa fiaba d'amore – dove l'amore, come nelle fiabe tradizionali, finisce e diventa altro. Eppure di romanzato c'è poco, essendo la storia vera della longeva coppia. Ma la romanzazzione è sottolineata da tutti quegli ingredienti cinematografici d'intrattenimento a cui l'industria USA ci ha abituato (però questo è un film UK, e lo sappiamo dal solito cameo di Emily Watson, che dice «la cosa più inglese che si possa dire», e cioè risolvere i propri problemi andando al coro della chiesa): mai la musica fu così presente in un film, diciamo, sulle Scienze Matematiche, dai tempi di The Proof. Di Jóhann Jóhannsson, autore della colonna sonora di Prisoners, l'accompagnamento musicale sfiora la potenza del John Williams disneyano e si concede lunghe iperboli narrative fatte, per esempio, di filmini familiari, scene oniriche e sfuocate, titoli di coda un po' fuori luogo che però ci riempiono di quella sensazione cinematografica ruffiana con cui si esce dalla sala annuendo. James Marsh è però il regista di Man On Wire, e sappiamo che è capace di ben altro: si affida ai due interpreti in odore di Oscar che fanno dimenticare tutto il resto e si dimentica lui per primo come si confeziona un film originale.




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