domenica 23 novembre 2014

un chien.



Addio Al Linguaggio
Adieu Au Language, 2014, Francia, 70 minuti
Regia: Jean-Luc Godard
Sceneggiatura originale: Jean-Luc Godard
Cast: Héloise Godet, Kamel Abdeli, Zoé Bruneau,
Christian Gregori, Jessica Erickson
Voto: n.p./ 10
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Detto addio alla narrazione tradizionale già col tecnicismo frammentario del Fino All'ultimo Respiro che gli diede fama, detto addio alla trama a discapito del messaggio, come conferma l'ultimo lavoro in sala Film Socialista, e abbracciata la nuova tecnologia insieme a Peter Greenaway in 3x3D, la lunga filmografia di Jean-Luc Godard fatta di corti e soprattutto documentari, aggiunge un tassello inclassificabile, che non rientra nella prima categoria (sebbene duri una sola ora) né nella seconda: non è un documentario ma ha troppi pochi spunti narrativi, e soprattutto troppo mal ordinati, perché sia un film. Ecco, è un saggio: se esistesse un termine per identificare, come i libri, le opere che non raccontano storie o meglio se ne avvalgono per raccontare altro. Ciò di cui il vate della Nouvelle Vague si avvale, questa volta, è: su un piano, un calderone di elementi artistico-filosofici, psichiatrico-psicologici, di critica letteraria e sociologici; dall'altra parte, di tutta la gamma di mezzi e strumenti che il cinema gli mette a disposizione. Entrambe queste cose sono nei titoli di coda, avendo un cast misero ed evanescente: gli preferisce i nomi degli obiettivi, o William Faulkner e Claude Monet che cita di sfuggita (ingiustificata la presenza fisica di Mary Shelley). Da una parte: una coppia in crisi, forse due coppie, forse in crisi perché lei ama un altro – e poi un cane, l'unico essere vivente «che ama l'altro più di se stesso», che è nudo «ma non come è nudo l'uomo», un cane libero perché solo, alienato, estraneo al mondo, che passa attraverso le stagioni, si rotola nell'erba e nella neve, e che poi incontra questa coppia, o questa coppia di coppie. Dall'altra parte: un 3D fastidioso, impossibile da seguire soprattutto per noi che vediamo il film coi sottotitoli (noi = le poche persone che hanno accesso alle uniche tre sale che proiettano la pellicola a Milano, Roma, Bologna, prima che l'11 dicembre il film sia disponibile allo streaming e al download), un 3D che si sfrutta al massimo, creando piani non solo per le immagini ma anche per le parole, che stratifica i capitoli di cui è composto, Natura e Metafora, e dentro al 3D tutti gli obiettivi, le riprese oblique, i pixel, le saturazioni eccessive, i contrasti, le immagini perfette e pulite e poi quelle sgranate e poi il nero, le voci fuori campo e i rumori assordanti che si interrompono, si sovrappongono, costringono i sottotitoli a sovrapporsi e lo spettatore a scegliere se vedere o leggere, prima che sia impossibilitato a entrambe le cose. Si esce dalla sala frastornati, distrutti, provati: è un film-esperienza che non è un film da cinema (motivo per il quale esce solo in tre sale), che delude tutti a meno che non conoscano a fondo il regista o non hanno le chiavi per decifrare le immagini. Basterebbe soffermarsi, per una volta, sul titolo. L'addio al linguaggio è esattamente la trama e la sostanza e la tecnica del film. Mille modi, e quindi nessuno, per raccontare una storia semplice mentre il mondo è presente, mentre le persone che la vivono hanno pensieri, filosofeggiano, creano neologismi, vivono le stagioni, trovano cani. A differenza dell'ultimo Fellini che non aveva più niente da dire «ma lo diceva benissimo», l'ottantacinquenne Godard, un po' come il centenario Manoel de Oliveira, sa di stare raggiungendo la morte e nella sua cultura, nel suo fervore politico, si accinge a incontrarla con gli strumenti dell'oggi e non con quelli degli esordi, con temi e problemi attuali, con sperimentazioni artistiche che vogliono ancora provocare, creare fastidio. L'addio al linguaggio è chiaro nelle prime scene: bancarelle di libri e insieme dita sugli smartphone, senza che nessun volto sia inquadrato. Da un lato, la spocchia di chi i libri li ha letti e dall'altro la critica ai nuovi strumenti di alienazione, da cui la crisi di coppia. Ma il linguaggio perso è anche quello del cinema, che è finito dentro la televisione che è finita per non essere vista: sempre accesa come sottofondo di ogni scena. L'esperienza sconvolgente in sala trova giustificazioni logiche: ma è difficile ammetterlo tanto quanto dare un voto.

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