domenica 11 gennaio 2015

vogliamo anche le rose.



Pride
id., 2014, UK, 120 minuti
Regia: Matthew Warchus
Sceneggiatura originale: Stephen Beresford
Cast: Ben Schnetzer, George MacKay, Faye Marsay, Joseph Gilgun,
Bill Nighy, Imelda Staunton, Dominic West, Andrew Scott,
Joshua Hill, Paddy Considine, Russel Tovey, Sophie Evans
Voto: 7.6/ 10
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Candidato a un Golden Globe (ma è il miglior film che ha incassato meno dei dieci) e fresco di tre nominations ai BAFTA (film inglese, debutto di un regista e un produttore, attrice non protagonista) – fresco anche delle polemiche sulla rimozione di ogni riferimento alla vicenda omosessuale dalla sinossi e dalla copertina del DVD americano appena uscito – Pride resiste nelle sale italiane festeggiando il milione di euro ottenuto nonostante la bassa distribuzione e le copie limitate (aumentate in corso di programmazione) e deve ringraziare soprattutto le festività su cui è cascato, il periodo giusto per le commedie. Perché nonostante il tema, storico e doloroso, ogni situazione è utile alla battuta in questo film; si ride, e si ride soprattutto quando il conservatore e isolato mondo gallese dei minatori e delle proprie mogli incontra i gusti musicali, tessili e sessuali della comunità GLBT di Londra. Siamo negli anni '80, quelli della Tatcher e della più lunga protesta dei lavoratori nella storia inglese. Per un anno gli uomini non sono scesi in miniera, dipendendo dalle compagne totalmente privi di virilità, organizzandosi in comunità per fornire il cibo necessario alla sopravvivenza, il gas per l'acqua per lavarsi. Parallelamente, prima che esploda il fenomeno dell'HIV, i gay e le lesbiche della capitale si riconosco nei maltrattamenti, nella mancanza di diritti di questi lavoratori sotterranei, e dimostrano il loro supporto con una raccolta di fondi e poi con delle trasferte cadenzate. Non sarà facile essere accettati, ma questo è pane quotidiano – il pane verso cui entrambi i gruppi marciano, il pane e le rose. E mentre la comunità si fonde in un'unico corteo, scorrono le singole vite una accanto all'altra: George MacKay attaccato alla sottana della madre, incapace di rivelare il proprio orientamento e succube di una vita di menzogne e coperture; Ben Schnetzer attivista dedito solo al miglioramento del mondo e dimentico dei problemi suoi e che l'ex fidanzato Russel Tovey (vedi alla voce: Looking) gli ha causato; Bill Nighy, primo caso clinicamente diagnosticato di HIV, tutt'ora vivo, il cui nome capeggia sulla locandina ben prima degli effettivi protagonisti; e poi ancora Faye Marsay unica perenne lesbica single del gruppo e Joseph Gilgun che ricicla il physique du rôle dans Misfits (ma con un paio di docce in più), cagnolino senza personalità che deve essere guidato dal suo leader. Vestiti con ciò che alcuni di noi adesso vanno a cercare tra le bancarelle dei mercatini e i negozi di vintage, all'interno di scenografie minuziosamente ricostruite (dai manifesti ai muri finanche alle lattine di birra), gli LGSM (Lesbiche & Gay Sostengono i Minatori) hanno contribuito a un pezzo di Storia e sono stati ricambiati nel fatidico giugno '85, climax della pellicola che pare dia il testimone a quell'altro film-ricostruzione di tre decadi fa, The Normal Heart: dove però il film TV di Ryan Murphy abbandonava tutti i patetismi (in realtà non proprio tutti), ogni coinvolgimento emotivo sentimentale e si dedicava anima e cuore, appunto, alla causa politica, sociale, della lotta contro l'HIV quando si pensava fosse un cancro per i gay – tutto urla, litigi, porte sbattute, sedie ribaltate – Pride sa giocare benissimo le carte della commedia senza il british humor, complice anche una nostalgica colonna sonora che sa bene quando deve mettere i pezzi giusti, una solita immensa Imelda Staunton da cercare sullo schermo quando è in secondo piano, sempre incredibilmente spontanea e reale, e una regia tradizionale che non aspira a molto (debutto non proprio vero di Matthew Warchus). Qui sta la forza del film: nel non prendersi eccessivamente sul serio, scherzare finché può, senza omettere (vedi alla voce: The Imitation Game, l'altro gay-friendly-movie di questa stagione) la parte dolorosa della storia, senza relegarla nelle didascalie finali ma raccontandola con fierezza, nei suoi alti e nei suoi bassi – perché se i minatori hanno perso e la Tatcher non c'è più, le difficoltà per riconoscere i diritti delle minoranze sono ancora gli stessi di trent'anni fa.

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