lunedì 24 settembre 2012

Venezia 69: Daniele Ciprì.



È Stato Il Figlio
id., 2012, Italia, 90 minuti
Regia: Daniele Ciprì
Sceneggiatura non originale: Massimo Gaudioso & Daniele Ciprì
Soggetto: Roberto Alajmo, Daniele Ciprì, Miriam Rizzo
Basato sul romanzo omonimo di Roberto Alajmo (Mondadori)
Cast: Toni Servillo, Giselda Volodi, Fabrizio Falco, Aurora Quattrocchi,
Benedetto Raneli, Alfredo Castro, Pier Giorgio Bellocchio
Voto: 7.7/ 10
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Venezia 69
Miglior fotografia: Daniele Ciprì
Miglior attore emergente: Fabrizio Falco
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In una Puglia travestita da Sicilia (leggere il seguito per approfondimento) c'è un attempato popolano che passa le sue giornate in fila alla Posta in attesa del turno per non fare quasi niente, perché tra i sedili della Posta c'è sempre qualcuno ben disposto ad ascoltare una storiella. A questo signore dalla dizione quasi immacolata piace tantissimo raccontare aneddoti, e ce ne regala subito due. Del primo, non ho già più memoria; del secondo, se ne occupa poi tutto il film.
Negli anni Settanta travestiti da Novanta con qualche camicia in più e con assolutamente nessun ideale né nessun movimento politico né nessun interesse a qualcosa diverso dal campare, il camaleonte Toni Servillo si porta dietro padre e figlio per raccattare pezzi in rame da navi dismesse che potrebbero venir buoni. E mentre i suoi fanno poco o niente, il nipote acquisito Riccardo Scamarcio Jr carica furgoncini interi; lui, che ha vent'anni appena, è capace (chissà in che modo) di mantenere la famiglia intera, mentre Tancredi, il figlio di Servillo, che di anni ne ha ventuno, non è capace nemmeno di sintonizzare il televisore, di prendere due bulloni, di guidare una macchinina. Passa le giornate a reggere il moccolo facendosi mettere i piedi in testa quasi anche da sua sorella minore, la quale un giorno...
E dopo quest'accaduto, la famiglia di Servillo vive la magra e la grassa. Durante la magra, succedono cose di un folkloristico quasi felliniano, a cominciare da un elegante prestasoldi con alter-ego cameriere che ama la musica e le spiegazioni taciute, fino ai treni che passano nel bel mezzo dei discorsi e alla telecamera che va indietro, e poi ritorna. Durante la grassa, con duecentoventi milioni di lire in casa, la moglie di Servillo Giselda Volodi meno siciliana di tutte continua a condurre la vita di sempre tra la cucina e il salotto, con però in più uno specchio nell'ingresso, e il figlio Tancredi è sempre scemo, e il nonno sempre mezzo sordo.
E quando il racconto dell'attempato signore povero si interrompe nella Posta perché è il turno di Pier Giorgio Bellocchio di essere servito, quasi speriamo che il film finisca, ma grazie a Dio non lo fa: il monologo di Aurora Quattrocchi, lucidissima nonna di casa, vecchissima ma con tutta la parlantina dei vivi, vale quasi la pellicola intera. Al fattaccio, il secondo morto, trova subito una soluzione e un colpevole, e convince noi tanto quanto lui.
Si respira l'odore della salsedine di Terraferma anche se Palermo in realtà è molto lontana: non avendo dato il permesso di girare nell'isola, per paura di dover elargire anche fondi, la Sicilia è stata ricreata in accento e bagnasciuga sulle strade e le spiagge della mia Puglia - che pur di comparire in un film farebbe di tutto - e regista e produttori, alla prima palermitana, hanno esplicitamente dichiarato che «Palermo non merita neanche la nostra presenza». Daniele Ciprì, il regista e sceneggiatore, è anche direttore della fotografia, ed è anche direttore di fotografia in Bella Addormentata di Bellocchio (e di Vincere) e arriva in concorso a Venezia e nei nostri cinema per la prima volta senza Franco Maresco come co-regista. Il film, pare che voglia essere qualcos'altro, di altri tempi; si vede che Ciprì sa bene di cosa sta parlando (le scene apparentemente inutili della spiaggia e del bagno nel cinema, le urla per l'acqua che manca al balcone e per le scale, le bombolette scoppiate nei falò giù al parcheggio) ma pare anche che effettivamente qualcosa gli manchi, che sia incerto, e se non finisce con l'essere poco chiaro finisce con l'impazzire. E ci dona dei ralenty di cui faremmo volentieri a meno.

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