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sabato 14 giugno 2014

David di Donatello - vincitori.



Non sono bastati l'Oscar al Film Straniero alla Grande Bellezza né le polemiche che tempestarono i giornali prima dell'uscita in sala a far trionfare Il Capitale Umano ai David di Donatello 2014, premi che il cinema italiano si dà ogni anno con qualche sorpresa internazionale (Wes Anderson batte 12 Anni Schiavo, Philomena vince contro La Vita Di Adèle) e sempre i soliti nomi: Giuseppe Battiston era doppiamente candidato (per Zoran e La Sedia Della Felicità), Ozpetek ha racimolato le solite poche candidature mai andate in porto, Paolo Sorrentino con la sua squadra (il direttore della fotografia in primis) ha raccattato quasi tutti i premi tecnici e artistici che hanno fatto de La Grande Bellezza, uscito troppo tardi l'anno scorso per capitanare l'edizione 2013 ma abbastanza elogiato ai Nastri, il cult del popolo. Paolo Virzì (in foto con il conduttore della serata Paolo Ruffini) non ha ritirato il premio alla regia ma ha visto sfilare praticamente tutti i suoi attori sul palco, a cominciare dall'emozionatissima Valeria Bruni Tedeschi protagonista, Valeria Golino (pluri-candidata anche per Miele) e Fabrizio Gifuni non protagonista. Sette David per il film brianzoleggiante e nove per la pellicola di Sorrentino, Toni Servillo incluso, musiche escluse che sono andate a Song'e Napule insieme al brano originale. Questi due premi, insieme all'esordio alla regia de La Mafia Uccide Solo D'estate, sono stati gli unici intrusi di una serata-battaglia a due, che si è pure macchiata del ricordo di Carlo Mazzacurati, morto poco prima che La Sedia Della Felicità approdasse in sala, del Premio Speciale a Sophia Loren, al maestro Marco Bellocchio e alla Lucky Red rappresentata dal veterano Andrea Occhipinti.
Di seguito, dopo il salto, tutti i candidati e i vincitori per i lungometraggi di finzione; rimando qui per i corti e qui per i documentari.

miglior film
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto
Il Capitale Umano di Paolo Virzì
Smetto Quando Voglio di Sydney Sibilia
La Sedia Della Felicità di Carlo Mazzacurati

migliore regista
Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza
Ettore Scola per Che Strano Chiamarsi Federico
Paolo Virzì per Il Capitale Umano
Ferzan Ozpetek per Allacciate Le Cinture
Carlo Mazzacurati per La Sedia Della Felicità

lunedì 9 dicembre 2013

European Film Awards - vincitori.



Non è Paolo Sorrentino a ritirare il premio per la migliore regia e il miglior film europeo dell'anno (perché impegnato nella giuria del Festival di Marrakech) ma Nicola Giuliano e Francesca Cima, gli emozionatissimi produttori de La Grande Bellezza, che ottiene quattro statuette agli European Film Awards 2014 che si sono svolti sabato scorso a Berlino. Per il film italiano definitivamente in corsa verso l'Oscar, il premio al miglior montaggio (di Cristiano Travaglioli, già annunciato) e al miglior attore protagonista, un veterano Toni Servillo già vincitore nel 2008 con Il Divo sempre di Sorrentino (nella foto, insieme a Diane Kruger). Uno batte l'altro e La Migliore Offerta si accontenta del premio alle musiche di Ennio Morricone, salito sul palco con una standing ovation generale, prima di tre: sono seguite quelle a Catherine Deneuve, premio alla carriera, e a Pedro Almodóvar, teneramente accompagnato da tutti i suoi attori, omaggiato per il contributo europeo che porta al cinema internazionale. Il cineasta spagnolo ha dedicato il premio ai giovani registi vittime del cieco e sordo governo. Unica sorpresa della serata (The Act Of Killing ovviamente miglior documentario, The Congress miglior film d'animazione contro il nostro Pinocchio, François Ozon miglior sceneggiatore per il campione d'incassi Nella Casa) la migliore attrice protagonista: a discapito dell'età e del peso scenico di Barbara Sukowa per Hanna Arend della von Trotta, Veerle Baetens ha la meglio portando a The Broken Circle Breakdown il suo unico premio. La nuova categoria della cerimonia, la migliore commedia europea, senza sorpresa (data la concorrenza) premia il tremendo Love Is All You Need e speriamo che dall'anno prossimo venga di nuovo tolta.
Di seguito, dopo il salto, tutti i candidati e i vincitori.


film europeo
La Migliore Offerta di Giuseppe Tornatore (Italia)
Blancanieves di Pablo Berger (Spagna, Francia)
The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen (Belgio)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (Italia, Francia)
Oh Boy! di Jan Ole Gerster (Germania)
La Vita Di Adèle di Abdellatif Kechiche (Francia)

domenica 16 giugno 2013

Nastri d'Argento - nominations.



Il Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani ha annunciato le nominations per la 60esima edizione dei Nastri d'Argento, premi che fino a quest'anno erano assegnati ai migliori cineasti italiani per il contributo dato al cinema nostrano e straniero (traduzione: Penélope Cruz ha potuto vincere il David per Non Ti Muovere in quanto film italiano ma il Nastro no in quanto non italiana lei, mentre Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo hanno potuto vincere il Nastro per Hugo Cabret in quanto italiani ma il David no in quanto film non italiano) ma che da questa edizione hanno deciso di tagliare i lavori internazionali per promuovere in toto il cinema nazionale: nomi italiani per film italiani, insomma. E quella del 2013 è l'edizione che premia il meglio già premiato al botteghino: La Migliore Offerta di Giuseppe Tornatore da una parte e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino dall'altra, reduce senza niente da Cannes, ma con 9 candidature qui insieme al concorrente siciliano – e viene da ridere ché Toni Servillo non compaia tra i Migliori Attori: gli viene però dato un Nastro Speciale «per le straordinarie performances nel biennio 2012-13», di poco più importante di quello che riceverà Roberto Herlitzka alla Carriera. Altri premi speciali, sempre troppi e sempre a casaccio, andranno a Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto per il percorso internazionale dal libro al film di Venuto Al Mondo, e poi ancora a Io E Te di Bernardo Bertolucci già annunciato come Miglior Film dell'anno più per il ritorno dietro la macchina da presa del regista che per altro (e che include poi il lavoro degli sceneggiatori, montatore, scenografo, fotografo). Segnalazione Biraghi assegnata dall'Sncgi con l'Agenzia Nazionale per i Giovani a Jacopo Olmo Antinori e Nastro d'Argento Bulgari a Tea Falco per lo stesso film. Sempre dai Biraghi, con ANG, vengono i premi assegnati a Giulia Valentini e Filippo Scicchitano (Un Giorno Speciale della Comencini), Rosabell Laurenti Sellers (Buongiorno Papà, Gli Equilibristi, Passione Sinistra).
Non spenderò altre parole sui candidati: basta guardare le Canzoni Originali per capire il tenore delle scelte. Ma forse, dietro le 6 candidature di Viva La Libertà, Bella Addormentata, Miele e Viaggio Sola, e le sole 4 per Reality, ciò che ha più dell'incredibile è la presenza di Eva Riccobono tra le Attrici Non Protagoniste.
I premi saranno consegnati il 6 luglio al Teatro Antico di Taormina; di seguito tutti i candidati.

Film dell'Anno
 Io E Te  di Bernardo Bertolucci

Regista del Miglior Film
Roberto Andò per Viva La Libertà
Marco Bellocchio per Bella Addormentata
Claudio Giovannesi per Alì Ha Gli Occhi Azzurri
Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza
Giuseppe Tornatore per La Migliore Offerta

martedì 21 maggio 2013

i trenini migliori di tutta Roma.



La Grande Bellezza
id., 2013, Italia, 145 minuti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura originale: Paolo Sorrentino & Umberto Contarello
Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli,
Carlo Buccirosso, Pamela Villoresi, Galaeta Ranzi, Iaia Forte,
Serena Grandi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,
Giorgio Pasotti, Luca Marinelli, Lillo Petrolo
Voto: 8.3/ 10
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Una citazione da Céline (Ferdinand, Viaggio Al Termine Della Notte) che ci si poteva risparmiare, uno scoppio di cannone e il film comincia: Roma, l'afa, il turismo, le prove del coro, l'acqua della fontana in pieno giorno. Poi: Roma, alla sera, su una terrazza con la scritta Martini a coprire l'orizzonte (come succedeva a Renzo e Luciana in Boccaccio '70) e un manipolo di starlette e attorucoli decaduti e non, ereditieri e gente che «di mestiere fa il ricco», giornalisti, direttori che si dimenano, si divincolano, si disperano sopra e sotto i cubi e i tavoli di drink e spettegolano di loro stessi se Serena Grandi, una Saraghina moderna, salta fuori da una torta prima che ci si metta a ballare tutti insieme la Colita.
E il film comincia, e il film è di Federico Fellini: che ha già girato una pellicola che si chiama Roma e che ha già girato una pellicola che si chiama La Dolce Vita. Nel primo ci si dedicava agli episodi che Roma la fanno o la compongono geograficamente (il raccordo), nel secondo ci si dedicava a chi la vive, ai paparazzi e alle dive straniere, alle bivaccate nelle case per far niente o far molto poco, dirsi che una sta col trainer e l'altra dà tutto in beneficenza, volersi bene senza entrare nei particolari – e sfociare in cacce ai fantasmi fortemente riprese qui con una Sabrina Ferilli ammantellata che, candelabro in mano come nel '60, si accinge a varcare soglie di cui Giorgio Pasotti ha le chiavi, nel buio. Ma pare nessuno l'abbia notato. Come nessuno ha notato la giraffa al centro del Colosseo, eco del rinoceronte di E La Nave Va..., o le prostitute divertite in una scena di sfuggita, le colleghe di Cabiria, le contesse vestite a festa coi fiori nei cappelli di Giulietta Degli Spiriti per andare a incontrare il cardinal Roberto Herlitzka a cui il protagonista, scrittore che non scrive libri, chiederà consigli come il regista che non gira film Guido Anselmi di 8 1/2. Ma nessuno pare l'abbia notato, dicevo, perché basta dire «Fellini» e «La Dolce Vita» (fischiatissimi in Francia ma vincitori della Palma) che a Cannes si storce il naso, o meglio, come Paolo Sorrentino ha fatto notare, la stampa italiana storce il naso. Anche per Il Divo s'era trovavo lo stesso problema («è un prodotto troppo italiano, che all'estero non verrà colto») e invece s'era candidato a un Oscar (per il trucco, ma vabbè). Dopo il Neorealismo di Reality, di cui comunque si stente l'eco, ritorniamo a farci rappresentare da un regista – che a Cannes è di casa – che ricalca le antiche glorie, e pare le appiccichi insieme più che idolatrarle. Utilizza, come Fellini, ma come anche se stesso, il tecnica della non-narrazione raccontando per episodi sconnessi, tra i quali potrebbe passare un giorno come un mese, una storia non di un uomo che ci viene detto molto sensibile (e poi non lo è) ma di una società, la nostra, che pubblica foto sempre e comunque, si vanta di amare Proust «ma anche Ammaniti», intavola conversazioni a base di ricette quando dovrebbe redimere dai peccati, chiama artista una che si lancia nuda contro il muro. La satira sociale è altissima, soprattutto quella religiosa, nella Roma del Vaticano, ma è mascherata, da una Grande Bellezza che non si trova, e non si trova perché non si sa dove cercarla: Toni Servillo, immenso come al solito, è un palese omosessuale che cambia una donna per notte e ama «l'odore delle case dei vecchi» piuttosto che «la fessa», ma poi si spalma su questo balcone di una casa che non vediamo in cui la mediocrità e l'ipocrisia e la mondanità spicciola e squallida vanno a dormire alle sei dell'alba. La sua sensibilità si perde e si ritrova davanti a fenicotteri in riposo e foto di una vita vissuta, ma ancora non basta per tornare a questo libro da scrivere, da decidersi a cominciare, sebbene Fanny Ardant scenda le scale e la Santa suora le salga in ginocchio.
Per questo artistico/ letterario/ satirico ritratto della Roma decadente di oggi, Sorrentino trova 8 milioni di budget e una fila di attori desiderosi di aiutarlo, e prende Carlo BuccirossoIsabella Ferrari, Iaia FortePamela Villoresi, Galatea Ranzi, ma di tutti è il personaggio di Carlo Verdone, a sorpresa, che rappresenta la morale: «Roma mi ha molto deluso», e me ne ritorno per sempre al paese. Se ne esce distrutti, disincantati, e dispiaciuti soprattutto perché di tutta la filmografia del regista questo è il lavoro meno rigoroso tecnicamente e con la potenza musicale più blanda. Ma è quel cinema italiano, tipo Reality di cui prima, di cui dovremmo essere fieri, e che ai festival invece fischiamo.

lunedì 24 settembre 2012

Venezia 69: Daniele Ciprì.



È Stato Il Figlio
id., 2012, Italia, 90 minuti
Regia: Daniele Ciprì
Sceneggiatura non originale: Massimo Gaudioso & Daniele Ciprì
Soggetto: Roberto Alajmo, Daniele Ciprì, Miriam Rizzo
Basato sul romanzo omonimo di Roberto Alajmo (Mondadori)
Cast: Toni Servillo, Giselda Volodi, Fabrizio Falco, Aurora Quattrocchi,
Benedetto Raneli, Alfredo Castro, Pier Giorgio Bellocchio
Voto: 7.7/ 10
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Venezia 69
Miglior fotografia: Daniele Ciprì
Miglior attore emergente: Fabrizio Falco
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In una Puglia travestita da Sicilia (leggere il seguito per approfondimento) c'è un attempato popolano che passa le sue giornate in fila alla Posta in attesa del turno per non fare quasi niente, perché tra i sedili della Posta c'è sempre qualcuno ben disposto ad ascoltare una storiella. A questo signore dalla dizione quasi immacolata piace tantissimo raccontare aneddoti, e ce ne regala subito due. Del primo, non ho già più memoria; del secondo, se ne occupa poi tutto il film.
Negli anni Settanta travestiti da Novanta con qualche camicia in più e con assolutamente nessun ideale né nessun movimento politico né nessun interesse a qualcosa diverso dal campare, il camaleonte Toni Servillo si porta dietro padre e figlio per raccattare pezzi in rame da navi dismesse che potrebbero venir buoni. E mentre i suoi fanno poco o niente, il nipote acquisito Riccardo Scamarcio Jr carica furgoncini interi; lui, che ha vent'anni appena, è capace (chissà in che modo) di mantenere la famiglia intera, mentre Tancredi, il figlio di Servillo, che di anni ne ha ventuno, non è capace nemmeno di sintonizzare il televisore, di prendere due bulloni, di guidare una macchinina. Passa le giornate a reggere il moccolo facendosi mettere i piedi in testa quasi anche da sua sorella minore, la quale un giorno...
E dopo quest'accaduto, la famiglia di Servillo vive la magra e la grassa. Durante la magra, succedono cose di un folkloristico quasi felliniano, a cominciare da un elegante prestasoldi con alter-ego cameriere che ama la musica e le spiegazioni taciute, fino ai treni che passano nel bel mezzo dei discorsi e alla telecamera che va indietro, e poi ritorna. Durante la grassa, con duecentoventi milioni di lire in casa, la moglie di Servillo Giselda Volodi meno siciliana di tutte continua a condurre la vita di sempre tra la cucina e il salotto, con però in più uno specchio nell'ingresso, e il figlio Tancredi è sempre scemo, e il nonno sempre mezzo sordo.
E quando il racconto dell'attempato signore povero si interrompe nella Posta perché è il turno di Pier Giorgio Bellocchio di essere servito, quasi speriamo che il film finisca, ma grazie a Dio non lo fa: il monologo di Aurora Quattrocchi, lucidissima nonna di casa, vecchissima ma con tutta la parlantina dei vivi, vale quasi la pellicola intera. Al fattaccio, il secondo morto, trova subito una soluzione e un colpevole, e convince noi tanto quanto lui.
Si respira l'odore della salsedine di Terraferma anche se Palermo in realtà è molto lontana: non avendo dato il permesso di girare nell'isola, per paura di dover elargire anche fondi, la Sicilia è stata ricreata in accento e bagnasciuga sulle strade e le spiagge della mia Puglia - che pur di comparire in un film farebbe di tutto - e regista e produttori, alla prima palermitana, hanno esplicitamente dichiarato che «Palermo non merita neanche la nostra presenza». Daniele Ciprì, il regista e sceneggiatore, è anche direttore della fotografia, ed è anche direttore di fotografia in Bella Addormentata di Bellocchio (e di Vincere) e arriva in concorso a Venezia e nei nostri cinema per la prima volta senza Franco Maresco come co-regista. Il film, pare che voglia essere qualcos'altro, di altri tempi; si vede che Ciprì sa bene di cosa sta parlando (le scene apparentemente inutili della spiaggia e del bagno nel cinema, le urla per l'acqua che manca al balcone e per le scale, le bombolette scoppiate nei falò giù al parcheggio) ma pare anche che effettivamente qualcosa gli manchi, che sia incerto, e se non finisce con l'essere poco chiaro finisce con l'impazzire. E ci dona dei ralenty di cui faremmo volentieri a meno.

giovedì 6 settembre 2012

solo Dio può decidere, le persone no.



Bella Addormentata
id., 2012, Italia, 110 minuti
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura originale: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli
Soggetto: Marco Bellocchio
Cast: Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher, Maya Sansa,
Michele Riodino, Pier Giorgio Bellocchio, Gian Marco Tognazzi,
Fabrizio Falco, Roberto Herlitzka
Voto: 8/ 10
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Eh.
E come comincio?
Allora. L'anno scorso il Festival di Venezia numero 68, ancora diretto da Marco Müller e pieno di filmoni e attoroni e aspettativone, aveva deciso di assegnare il Leone d'Oro alla Carriera a un regista vivissimo e attivissimo e manco tanto vecchio - cosa decisamente insolita: Marco Bellocchio, che cominciò a far cinema quando ancora c'era il bianco e nero obbligato e che più di tutti, forse, si porta addosso gran parte della tradizione nostrana, sia sul campo tematico (basti pensare ai film sempre italianissimi come L'ora di Religione e Vincere e anche questo) sia su quello stilistico (basti pensare all'ombra di Fellini che si cela dietro Il Regista Di Matrimoni). Ero su un vaporetto prima di andare ad assistere alla premiazione (Bertolucci dava il Leone mentre in sala c'erano Nicola Piovani e Filippo Timi ed echeggiava un discorso sulla coerenza da far venire i brividi) e una ragazza commenta così: «che ridere, il premio alla carriera a Bellocchio, vorrei andare a fischiare: avanti, mica quello è un regista».
Bellocchio, a mio avviso, è uno dei migliori registi che l'Italia abbia mai avuto e forse quello che si può amare con più difficoltà. Ha la capacità di fare cinema partendo da un articolo di giornale, un episodio di cronaca, una fotografia, una leggenda. E fa del cinema vero, rigoroso ed elegante, di classe, sempre ben musicato, che purtroppo per lui (o per fortuna) si trascina poi dietro un bagaglio di polemiche di cui ne sa molto Nanni Moretti. S'era preso una specie di pausa dopo la triste capatina francese di Vincere, aveva portato in sala l'antologia Sorelle Mai, raccolta di cortometraggi girati a Bobbio in vent'anni con i suoi alunni e la sua famiglia e i suoi attori di sempre, e adesso torna non solo al cinema ma anche a Venezia, in concorso, dove forse aveva detto che non sarebbe tornato - come dice sempre Olmi.
E il film parte da ciò di cui si parlò per mesi nel 2009, e cioè i diciassette anni di coma vegetativo di Eluana Englaro, per poi spostarsi però (attenzione!) su altro, e cioè sull'approccio e la considerazione che si ha della morte in base a dove ci si trova, cosa si fa, cosa si ha subito.
Toni Servillo e Alba Rohrwacher guardano lo stesso filmato girato a Lecco mentre un gruppo di estremisti religiosi assale un'autoambulanza che trasporta il corpo della bella addormentata a Udine, nella clinica La Quiete, e assistono alle scene con approccio diverso: Servillo è deputato parlamentare di destra con qualche ripensamento, la Rohrwacher è una fanatica religiosa che mette zaino in spalla e raggiunge la morta viva per cantare il Gloria in strada con altri suoi simili. Qui conoscerà il poco utile Michele Riodino col fratello mezzo pazzo, mentre un'ex tossica tenterà furti e suicidi come fossero acqua fresca per venire sempre fermata dallo stesso medico, mentre un'ex attrice celeberrima sposata a un ex attore mediocre coltiveranno la speranza e le foglie secche di un matrimonio fallito nella casa con il figlio vivo e la figlia in coma.
Tutti questi personaggi così umani, così scavati, così psicologicamente approfonditi, così disperati, così diversi e uguali, hanno alle spalle televisioni e radio e voci di politici e presentatori che parlano del caso Englaro mentre davanti c'è la vita vera, i giorni da affrontare, le decisioni da prendere. La posizione politica e religiosa del regista (a noi comunque notissima) qua non è messa in mostra se non nella scelta degli stralci di discorsi mandati in onda qua e là.
Il risultato, comunque, è un film a cui non si potrebbe neanche dare un voto, un coinvolgimento emotivo, un'esperienza, che non è né cinema politico o religioso né pura arte visiva come era L'ora Di Religione (che parlava di un altro tipo di santi e, a mio avviso, il capolavoro inarrivato).
Maya Sansa ci regala un'ultima scena fortissima, ben scritta e ben interpretata insieme a Pier Giorgio Bellocchio, azzeccatissima, una messa a nudo dell'animo umano sui due fronti, mentre per tutto il film si susseguono interpretazioni magistrali di un'inspiegabile Isabelle Huppert, un sempre impeccabile Roberto Herlitzka, che cascano sull'approfondimento della famiglia di attori con un pessimo Brenno Placido.
Applaudito dalla stampa alla proiezione di ieri, ha poi subito i prevedibili attacchi dagli esaltati che «avete ucciso Eluana due volte!» gridavano. In realtà, loro non riflettono, morirà ad ogni spettacolo di ogni città, più volte al giorno.