giovedì 3 gennaio 2013

allegoria della vista.



La Migliore Offerta
The Best Offer, 2012, Italia, 124 minuti
Regia: Giuseppe Tornatore
Sceneggiatura originale: Giuseppe Tornatore
Cast: Jeoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks,
Donald Sutherland, Philip Jackson
Voto: 8/ 10
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«Tornatore potrebbe fare un film tutto nero, e io lo andrei a vedere lo stesso, e mi piacerebbe» dico spesso e dico a molti, pur ammettendo che Baarìa non è stato certo un capolavoro (ma La Sconosciuta lo fu) e per questa mia frase, Tornatore mi mette alla prova e mi dà da scrivere la più difficile recensione di questi due anni.
Perché il film si può analizzare su più livelli, come tutto d'altrone, ma questa volta di più, per esempio: la sceneggiatura. Impeccabile per i dialoghi, forte all'inizio per l'intreccio – c'è un uomo, un battitore d'aste, un Geoffrey Rush ancora più bravo di quello che è stato ne Il Discorso Del Re, che ha passato tutta la vita “in bottega” ad amare “il lavoro dell'artigiano” e ad imparare a distinguere un autentico da un falso, «anche se pure i falsi hanno una parte di autenticità», perché l'autore non riesce a non metterci del proprio. Conosciuto in tutto il mondo e temuto dai colleghi e idolatrato dalle masse, batte aste anche a proprio nome e di nascosto colleziona e accumula e si circonda di ciò che è promettente o ciò che ha già promesso. La sua vita scorre tutta uguale a se stessa: manda un gruppo di delegati a fare sopralluoghi nelle ville abbandonate da poco o passate in eredità ad altri, questi archiviano e catalogano e fotografano ciò che c'è dentro, lui organizza luogo e modo di vendita. Fino a quando una telefonata gli farà cambiare i piani: questa ricca ereditiera lo implora di essere egli stesso a scendere in campo già dalla prima visita, e una volta gli dà buca, un'altra volta gli dà bidone, insomma questa ragazza non si vede mai, ma il custode della palazzina sì. E la palazzina è piena zeppa di qualsiasi cosa, anche della ferraglia, che Rush prontamente porta a Jim Sturgess, mani tremendamente consumate dal lavoro quasi di fabbro e vagonate di donne dentro e fuori al negozio. Primo errore: un ormai anziano e così colto uomo d'arte non inizierebbe mai una relazione d'amicizia così confindenziale con uno spiantato sbarbatello che ingrana bullette. Ma così succede, e Geoffrey gli confida tutto, questo nascente amore per questa malata ragazza. Secondo errore: il film che ha preso forma dopo un incipit elegantissimo e composto e algido e molto formale con tanto di violini in scena d'apertura (diretti da Ennio Morricone che dopo di ciò praticamente scompare e si limita a musicare con note essenziali e quasi banali le scene che proprio necessitano di musica, regalandoci la più anonima e insipida colonna sonora della sua carriera, nonostante queste parole) rotola su se stesso e ci mostra l'asta, il dialogo con il giovane fabbro, la relazione con la ragazza nell'ombra, un'altra asta, un altro dialogo, un'altra parlata della ragazza – il cui lavoro è tutto nella bocca di Myriam Catania che la doppia e praticamente la re-interpreta.
Ci siamo, insomma, ormai arresi a questa routine della trama che dopo il lieto non-fine ci aspettiamo necessariamente qualcosa, un colpo di scena, siamo indotti a sospettare una tresca, un tradimento, qualcosa di piccolino insomma, e invece no: Tornatore ci dà il botto, tutto il braccio ci dà, svela un marchingegno più complicato di quello che i protagonisti cercano di montare. Ma è troppo.
Però, primo livello allegorico: pare che si ricalchi la storia dell'arte in sé, che dopo un calibrato, composto, razionale Rinascimento è caduto in un guazzabuglio di prospettive esagerate e sempre più spinte soluzioni compositive, il Manierismo – perché questo finale, manierista è. Oppure: dopo un film rigidissimo e quasi noioso per i suoi primi due terzi scoppia e nello scoppiare si trasforma in disordine, montaggio veloce, confuso, che mischia il passato col presente col ricordo col sogno col dubbio. O ancora: Tornatore ci vuole insegnare che l'amore, come l'arte, è forse una bellezza di cui possiamo avere solo un'esperienza fugace, breve, immediata, che si consuma: che resta in noi nel tempo in cui decidiamo di farla restare, pensandoci, ma che effettivamente si interrompe nel momento in cui distogliamo lo sguardo dal quadro appeso, usciamo dal museo, lasciamo la camera segreta della nostra casa.
Perché Giuseppe Tornatore, comunque, un testone ce l'ha. Anche solo per aver deciso e poi scritto una storia su un battitore d'aste, su un mondo (quello del commercio artistico, del collezionismo) che pensavamo non gli appartenesse; lui, il regista dei registi, in America tanto amato perché ha sempre saputo far parlare al massimo la macchina da presa (ed era questo il punto forte di Baarìa), lui che dopo l'Oscar per Cinema Paradiso ha fatto innamorare gli americani che gli hanno candidato all'Oscar persino Malèna, lui che dopo questo continuo ritorno alla sua Sicilia e il conseguente sbadiglio della critica è ritornato sulle orme de La Sconosciuta riproponendo gli stessi meccanismi narrativi, gli stessi colori, la tensione, e addirittura le stesse scene (le botte sotto la pioggia, la visita in casa di cura) ma prendendo mezza troupe e tutto il cast d'oltreoceano.
Magistrale gli arredi e le scene di Maurizio Sabatini (La Vita È Bella, Pinocchio) che ha dovuto riempire questi interni di statue, affreschi, pitture a olio, cornici, anche quadri che è impossibile avere nella stanza per un'allegoria della vista dei giorni nostri. Magistrale la fotografia (di Fabio Zamarion). E Tornatore dov'è? Nella scena finale, sicuramente. In poche altre. Ma c'è. E anche se questo film fosse stato tutto nero io gli avrei dato 8.

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