venerdì 23 gennaio 2015

i semi oleosi.



Hungry Hearts
id., 2014, Italia, 109 minuti
Regia: Saverio Costanzo
Sceneggiatura non originale: Saverio Costanzo
Basata sul romanzo Il Bambino Indaco di Marco Franzoso (Einaudi)
Cast: Alba Rohrwacher, Adam Driver, Roberta Maxwell
Voto: 7.4/ 10
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Con un incipit sul defecare umano che ricorda da lontan(issim)o quello de Le Meraviglie dell'altra Rohrwacher, entriamo nel bagno del ristorante cinese dove tutto ebbe inizio, dove Jude incontra Mina, immigrata negli Stati Uniti e operatrice all'ambasciata, italiana di nascita e rimasta senza nessuno, senza la madre morta quando lei aveva due anni e senza il padre, ormai molto anziano, a cui non ha «molto da dire». Restano chiusi in bagno per il pianosequenza fisso iniziale, in cui scopriamo anche che lui è ingegnere e conosce l'inizio de La Divina Commedia come probabilmente gran parte degli americani senza sapere cosa dicano. Che peccato non poterlo vedere nella lingua originale, che è l'inglese, in cui è stato proiettato a Venezia e in cui Adam Driver canta poi Tu Si' 'Na Cosa Grande il giorno delle nozze, che è imminente, assecondando la lezione hitchcockiana che il cinema è la vita con le parti noiose tagliate. Qui si taglia tutto senza pietà e senza rancori: il corteggiamento, le prime volte: vediamo il fatidico rapporto che porta Mina alla gravidanza e poi la vita insieme, durante quella gestazione, in cui lei perde l'appetito forse a causa delle nausee mattutine e lui, bruciato dall'amore, si preoccupa della sottonutrizione di lei e del bambino senza essere invadente. «I dottori non sentono quello che vedono, quello che sento io» dice più spesso lei, decisa a non ingurgitare carne, a non mangiare proprio, a coltivare piantine nella mini-serra sul terrazzo newyorkese e a non vedere medici e dottori e nessun altro, non uscire da casa per non farsi contaminare, non volere il cesareo. Si parla – come da sopra – dell'abusatissimo Hitchcock ma più ancora della claustrofobia dell'ultimo Polanski e della sua Rosemary, meglio ancora delle donne folli (non pazze) di Cassavetes; solita esigenza di paragonare registi e personaggi ma tanto di cappello a Saverio Costanzo che raggiunge, soprattutto all'estero, questi nomi da cinema. Trasporta su pellicola la storia di Marco Franzoso Il Bambino Indaco, spinto spintissimo dalla sua casa editrice Einaudi qualche tempo fa – ma, consapevole di quanto sia perfida la città di New York, dove «se hai soldi puoi mangiare il cibo migliore del mondo ma se non te lo puoi permettere sei costretto alle schifezze», sposta l'ambientazione dalla Padova originale e cambia la nazionalità del coniuge maschio. Alba Rohrwacher (di lui compagna anche nella vita) diventa quindi la sua protagonista impazzita, irrazionale, maniaca dell'autocontrollo del suo corpo e di quello del suo bambino incapace di autogestirsi, spaventata dalle minacce esterne, chiusa in se stessa e nelle proprie arcaiche convinzioni: diventa vegana, taglia l'avocado: mai periodo fu più azzeccato per questo tema, per il ribaltamento generale delle generazioni anni '80 sinistroide che rinunciano alla carne e ai suoi derivati, che combattono l'Expo e il suo nutrire il pianeta, che parlano di veleno in ciò che mangiamo – e per affrontare questi temi (di spavento, isolamento, tensione evolutiva) utilizza (e da qui i grandi nomi) le tecniche che sono dei film thriller, la musica che passa dalla banalotta What A Feeling alle agghiaccianti poche note di Nicola Piovani, e i grandangoli, gli occhi di pesce, i distorsori su queste immagini dalla grana grossa e visibile, le inquadrature dall'alto estremo o dall'estremo basso e soprattutto da vicinissimo per rendere questo dramma umano, questa lotta a due – che sono due quasi tutto il tempo, quasi tutto il tempo in una casa, fino al peggiore degli epiloghi possibili. Per le menti più profonde, anche una riflessione sull'amore materno e sull'istinto di protezione ribaltato, sulla capacità involontaria di fare del male a una creatura partorita invece di fare del bene impulsivo, come si supporrebbe. E succede una cosa che succede spesso in questi casi, che esce un film, magari girato a bassissimo budget come questo, completamente indipendente, fresco di due Coppe Volpi ai due attori che si sobbarcano l'intera sceneggiatura, e si va a rivangare la filmografia del regista, seppur misera, e seppur miseramente girata in Italia(no): e si riesuma quella Solitudine Dei Numeri Primi che, dirò, era stata anche meglio del libro di partenza, che esasperava le parti come l'arredo della stanza in cui la Rohrwacher viveva: anche in quel film c'era lei e c'era un problema alimentare, sempre di mal- e sotto-nutrizione, ma ribaltato. In quel caso il corpo era una scatola che si rifuggiva e in questo invece una gabbia da proteggere perché contenitore di un'anima che, veggente prevedendo, ha contenuto un bambino indaco da preservare – ma questo, sempre per le menti più profonde.

2 commenti:

  1. Modalità portinaio: ma quindi la Rohrwacher sta con lo scrittore Franzoso, se ho capito bene?

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