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lunedì 30 giugno 2014

il congresso futurista.



The Congress
id., 2013, Israele/ Germania/ Polonia/ Francia, 122 minuti
Regia: Ari Folman
Sceneggiatura non originale: Ari Folman
Basata sul romanzo di Stanislaw Lem
Cast: Robin Wright, Harvey Keitel, Jon Hamm, Paul Giamatti,
Kodi Smit-McPhee, Danny Huston, Sami Gayle, Evan Ferrante
Voto: 6.8/ 10
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Definito «un pasticcio» dal Corriere Della Sera, a cinque anni di distanza dal «ben lontano» Valzer Con Bashir il nuovo film di Ari Folman fa quest'operazione alla Roger Rabbit che mischia realtà e finzione tanto nel genere quanto nel modo – ma all'inizio non sa di pasticcio: Robin Wright è se stessa e vive in un hangar con due figli, la femmina adolescente ribelle al mondo e il maschio con problemi di udito, di vista, sogni di gloria nell'aerostatica, conoscenza mnemonica di grandi nomi del passato a partire dai fratelli Wright, con cui condivide uno dei nomi. Come sempre quando siamo dentro al meta-cinema, crediamo a tutto: che Robin Wright viva così, con questi figli, e che sia arrivata al declino della sua carriera; insultata per gli errori commessi, per «i fiaschi e le scelte sbagliate degli ultimi quindici anni», teniamo da una parte iMDB aperto e dall'altra ci sforziamo di ricordarcela prima di House Of Cards: è vero, la Jenny di Forrest Gump dov'è poi finita? (Risposta: tra le altre cose, nel capolavoro Nove Vite Da Donna). I ruoli-ghigliottina di cui si urla sono l'emblema della evanescente fama, della vita di Hollywood, della labilità con cui si affronta il successo; le viene proposto un ultimo contratto: farsi scannerizzare in modo da non dover più recitare sul serio ma essere infilata digitalmente nelle pellicole. Lei protesta: a quel punto non mi verrà chiesto il permesso di interpretare una nazista o un ebreo!, risposta: non te lo chiedono neanche adesso. La carne a cuocere è molta: la figura dell'agente pescecane, le regole commerciali dello star-system, l'importanza del ruolo, l'avvento in parte funesto del motion graphic, l'effettiva utilità dell'attore davanti all'animazione digitale. Senza molta altra scelta, accetta; e poi facciamo un salto di vent'anni. Il «pasticcio» arriva adesso: un'apocalisse cartoon che simula il grandioso congresso futurista in cui viene celebrata la figura simbolo della prima attrice scansionata e resa celebre da un genere che altrimenti non avrebbe mai fatto, la sci-fi. Secondo contratto: le viene chiesto di accettare di diventare liquido, composizione chimica bevibile, in modo da poter far vivere al fan l'esperienza di essere lei, di stare con lei, di avere lei. L'esaltazione è generale, la partecipazione variopinta: da Elvis e Gesù e Picasso (che si vedono su questo manifesto) a Tom Cruise parte attiva ridente e la voce di Jon Hamm su un personaggio che fa il lavoro dietro a tutto questo, l'animatore. È difficilissimo stare dietro alla trama, a questo punto: la realtà è divisa in due, quella fisica da una parte, fatta di povertà e cataclismi e mestieri comuni e cielo grigio e l'altra realtà, quella di allucinogeni e sogni, realizzata a caratteri digitali che permettono di far fiorire le persone, di far volare i pesci e i palazzi. In tutto questo, la ricerca spasmodica non più di se stessi, non più della propria identità, del proprio ruolo, ma di un figlio perso, che regala le immagini più poetiche e meglio riuscite, a partire dalla sequenza finale. Nel complesso, però, pare di assistere a un prodotto non finito, non completamente scritto né ordinato. Delle due abbondanti ore, la seconda è un effettivo «pasticcio» che aveva avuto buoni intenti e non li ha saputi collocare al momento giusto. È tutto da rimontare, alcune cose da rivedere, alcune figure da spiegare o eliminare. Gli avvenimenti perdono di logica e se la giustificazione a tutto questo sta nelle sostanze chimiche che la producono, grazie alle quali le persone riescono ad andare avanti, dall'altra parte è un peccato che un film così provocatorio (la Miramount Nagasaki?) esponga tutti questi temi utopistico-spinosi e poi si getti nel vortice dell'LSD.

lunedì 10 marzo 2014

i ragazzi e Guillaume.



Tutto Sua Madre
Les Garçons Et Guillaume, À Table!, 2013, Francia/ Belgio, 85 minuti
Regia: Guillame Gallienne
Sceneggiatura non originale: Guillame Gallienne
Basata sullo spettacolo teatrale di Guillame Gallienne
Cast: Guillame Gallienne, André Marcon, François Fabian,
Nanou Garcia, Diane Kruger, Reda Kateb, Götz Otto
Voto: 6.9/ 10
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Guillaume è uno dei tre figli maschi di una famiglia abbastanza benestante da poter telefonare alla donna di servizio al piano di sotto per chiederle di cucinare la sogliola invece della carne; la matriarca della dimora a più piani è un tripudio di spagnoleggianti gesticolature, ripetizioni di intercalari, e non a caso il film si apre con un viaggio in terra iberica fatto di ventagli e flamenco – ma il ballo tipico, Guillaume, lo interpreta prendendo la mela mordendo la mela buttando la mela come fanno le ragazze, alzando poi il ginocchio per scostare una gonna che non ha. Cresce, ed è cresciuto, nella totale emulazione della genitrice, che si aggiusta i capelli, accende una sigaretta, invita gli ospiti a prendere una veloce decisione sul da bersi. Nei momenti liberi gioca ad essere Sissi e qualche sua parente stretta, col piumino legato in vita e la federa in testa; se il padre lo scopre, si giustifica in modi improbabili, perché il padre non capisce che lui è in realtà una ragazza, al punto da riuscire a confondersi son sua madre nel rispondere alle domande. Il totale surrealismo di questa condizione è spalmato nella successiva mezz'ora di film, quella in cui un ragazzino molto giovane ma non apparentemente tale cambia collegio, si arruola, pratica sport e incontra le tipiche difficoltà-chliché della condizione gaia senza testa infilata nel cesso, scherzi nella notte, insulti anche abbastanza pesanti. Un «frocetto» mezza volta e il bullismo si risolve; vero è che siamo in Francia, ma tutto il mondo è paese, e lo è soprattutto se si guarda indietro, al tempo in cui il film suggerisce di essere ambientato. Tra la nonna demente e la zia sboccata si sente dire  «un giorno ti innamorerai, e se sarà una ragazza, sarai etero; se sarà un maschio, sarai gay», ma frequentando più psicologi che locali non s'innamora né dell'un genere né dell'altro; proverà l'esperienza del sesso, o almeno proverà a provarci, sempre col fantasma della madre seduta al divano che lo osserva rispondendo.
One-man show dichiarato già nell'intento, narcisissimo, egocentrissimo, talmente “one” che i personaggi minori non sono minori ma infimi e Guillaume Gallienne protagonista sceneggiatore soggettista regista produttore interpreta sia il ruolo di se stesso che quello della madre, madre di altri due ragazzi che vediamo di sfuggita in una scena e moglie di un uomo che vediamo, bene, in mezza. Capatina di Diane Kruger che, in quanto attrice celeberrima, si ritaglia la più lunga delle comparsate nella più volontariamente divertente delle scene, quella di una pulizia anale. Tutto in realtà sta là per far ridere: e quello che non deve far ridere fa commuovere o riflettere, e sono queste le parti lasciate al palcoscenico. Perché Guillame ci racconta fuori campo questa storia e lo fa a noi e a una platea recuperando lo spettacolo originale da cui tutto è partito. Per compiersi in una sorta di colpo di scena a cui pure stentiamo a credere, ma è quel tipico gioco del non si sa mai quanto sia vero: che tutto nasca autobiograficamente, che lui abbia passato quelle cose, che adesso viva quell'altra situazione. Montato male, ma nonostante ciò vincitore del César nella categoria. Apparentemente sboccatissimo dal trailer, finito poi in pochissime sale nonostante la calda accoglienza a Cannes 2013, è il tipico film francese che fa ridere ma lancia la scintilla, lodevole per trattare un argomento in maniera più che tranquilla, e poi ribaltandolo, costruendo un personaggio un po' eccessivo e, paradossalmente, una madre e un rapporto molto più compiuti. E lungometraggio per un pelo.

mercoledì 5 febbraio 2014

ritirare il premio.




Nebraska
id., 2013, USA, 115 minuti
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura originale: Bob Nelson
Cast: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk,
Stacy Keach, Mary Louise Wilson, Rance Howard
Voto: 8.7/ 10
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Candidato a sei Premi Oscar:
film, regia (Alexander Payne), sceneggiatura originale (Bob Nelson)
attore (Bruce Dern), attrice non protagonista (June Squibb)
fotografia (Phedon Papamichael)
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Il primo film diretto ma non sceneggiato da Alexander Payne, e il secondo a non essere basato su un romanzo di partenza come l'ultimo Paradiso Amaro, è una perla in bianco e nero che ritorna sul road-way di Sideways ma alza (di molto) l'età media. È lo scontro generazionale, è l'invecchiare che fa tornare bambini: Woody Grant si alza ogni mattina dal letto e, con la gamba mezza zoppa, cammina dal Montana verso lo Stato del Nebraska, convinto di dover ritirare un premio da un milione di dollari; ogni mattina ora un agente di polizia ora uno dei due figli incrocia e recupera l'anziano, e lo riporta a casa, dove la moglie gli urla dietro e aspira all'ospizio. Inutile fargli notare che la lettera d'avviso del milione vinto è in realtà una pubblicità: Woody è convinto, e laggiù vuole andare. Sarà il figlio meno realizzato, appena lasciato dalla fidanzata e stanco del lavoro di commesso di elettronica, a portarcelo. Più per evadere che per recuperare il denaro. «Mi ha fatto piacere che abbiamo passato un po' di tempo insieme» dirà al genitore, e siamo commossi nell'aspettare che questa frase uscirà dalla nostra bocca, verso un nostro vecchio, ormai troppo vecchio perché sia in grado di recuperare un affetto che forse avremmo dovuto lavorare di più, rendere più fisico. Padre e figlio non si abbracciano mai, non si guardano truffaldigni, non sono complici: gli unici contatti fisici sono quelli della deriva, quando Woody perde la dentiera, o cade e si rompe la testa, o ha i mancamenti in strada. L'età e gli imprevisti faranno sostare i due lungo il tragitto alla scoperta di un'infanzia ormai andata, una famiglia dispersa col tempo, una serie di amici non così onesti – tutti chiacchieranti il milione vinto, così privi di altri interessi, vuoti di altre iniziative, gente di paese che aspetta con ansia una novità. I luoghi sono dipinti bene, desolati e desolanti, e così le persone, tutte conoscenti e fintamente amiche. Ma dove il personaggio di Will Forte (figlio) è banale, uno Zeno inetto che non solo non fuma ma non fa nient'altro quando il fratello splende in televisione, Bruce Dern (padre) è realistico, in un'interpretazione immensa (Palma a Cannes 2013), talmente vero che ci si dimentica della recitazione: si addormenta con la bocca aperta, fa vedere le gengive nude, si fa umiliare nei locali – tutti aspetti umani di una persona e non di un personaggio. Sua moglie June Squibb è l'opposto: sveglia, vispa, dignitosa, sempre a lamentarsi del consorte ma guai a chi parla male di suo marito. È lei che ci concede le più divertenti immagini del film (il furto del compressore su tutte). Pare che Alexander Payne si lasci trascinare, si metta in viaggio sulla sceneggiatura molto buona di Bob Nelson, al suo esordio con la macchina da scrivere, in un bianco e nero che riporta ad altri tempi – e un film al passato effettivamente sembra; invece è la realtà quotidiana dei piccoli centri, delle periferie, dell'America con poche insegne lungo la strada; un'America rimasta indietro, che non conosce Hollywood né ne è interessata, come per una volta il suo regista.
Una delle migliori produzioni dell'anno, sicuramente, con qualche pecca – ma un'originalità e un coraggio (fare un film pieno di vecchi, con un protagonista così silenzioso, con una trama così scarna) notevoli.

domenica 29 dicembre 2013

il film cambogiano.



L'immagine Mancante
L'image Manquante, 2013, Cambogia/ Francia, 92 minuti
Regia: Rithy Panh
Sceneggiatura: Christophe Bataille & Rithy Panh
Narratore: Randal Douc
Voto: 6.9/ 10
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17 aprile 1975, Phnom Penh: i Khmer Rossi, le truppe di Pol Pot, marciano sulla città cambogiana per diffondere e instaurare il socialismo reale, che dai politici viene decantato come liberazione del popolo e per le strade risulta atto di forza violenta, prigionia, lavoro forzato e deportazione degli abitanti. Rithy Panh quel giorno ha nove anni, la sua carriera di documentarista è ancora lontana, e insieme alla sua famiglia sarà trascinato nelle lagune a lavorare la terra, nelle risaie, tra le baracche con letti in legno a subire qualsiasi tipo di sopruso. Perderà tutti, i molti fratelli, la madre e il padre, insegnante, che si lascerà morire non accettando la perdita della dignità. Come loro, morirà là dentro, in tre anni, quasi un terzo dell'intera popolazione cambogiana.
Del genocidio cambogiano non si parla(va) come non si parla(va) di quello indonesiano che Joshua Oppenheimer ci ha raccontato ne L'atto Di Uccidere. Il problema de L'image Manquante è proprio l'essere uscito nello stesso anno di quell'osannato piccolo capolavoro, che fa parlare i cattivi in prima persona spostando l'attenzione non sui morti ma sui carnefici. Ma Oppenheimer non c'era, né ha vissuto direttamente quei fatti; Panh invece ha subito in prima persona la tragedia del lavoro forzato, della distruzione della sua città e della famiglia, e il tono del narratore è fortemente personale, straziante e straziato. “L'immagine mancante” è proprio quella dell'evento: che non è documentato e non utilizza quasi (mai) immagini di repertorio (come faceva anche la pellicola inglese). È, anche, l'immagine di un popolo che non c'è più, che nel '79 dovrà rinascere dalle proprie ceneri. Dice il regista: «ci sono così tante immagini nel mondo che crediamo di aver visto tutto. Pensato tutto. Da anni, cerco un'immagine mancante. Una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai Khmer Rossi, quando governavano la Cambogia. Da sola, ovviamente, una foto non prova i crimini di massa, ma porta a pensare, a meditare. A costruire la Storia. L'ho cercata invano negli archivi, nei giornali, nelle campagne del mio paese. Ora lo so: questa immagine manca; e non la cercavo – non sarebbe oscena e senza senso? Allora la creo io. Quello che oggi vi offro non è un'immagine, o la ricerca di una sola immagine, ma l'immagine di una ricerca, quella che consente il cinema. Alcune immagini dovrebbero sempre mancare, sempre essere rimpiazzate da altre: in questo movimento c'è la vita, la lotta, il dolore e la bellezza, la tristezza dei volti perduti, la comprensione di ciò che è stato, a volte la nobiltà, e anche il coraggio: ma l'oblio, mai».
L'immagine che Panh ricrea è fatta della stessa terra che l'ha inghiottito, terra rossa da cui si ricava il materiale argilloso con cui vengono costruite le bamboline (come vediamo nella prima sequenza) antropomorfe e dipinte, che saranno le vere protagoniste del film, attori di una serie (infinita) di presepi viventi, ricostruzioni kitch fedeli ed essenziali, tappe della via crucis – scrive Marzia Gandolfi – della passione di questo popolo. Una volta finito l'incanto, però, sebbene la quantità illimitata di bamboline ricostruite, e la quantità di scenari statici, la pellicola, soprattutto per la sua sceneggiatura, si accascia e inizia a rotolare su se stessa, ripetendo ciò che è già stato ripetuto, raccontandoci ciò che abbiamo già visto. Rithy Panh aveva raccontato questa stessa storia in un lungometraggio di finzione del 1994, Rice People, su una famiglia costretta all'oppressione, ma passa oggi al documentario per rafforzare la sua denuncia. Sia il film del '94 che questo sono stati inviati all'Academy in rappresentanza della Cambogia. Nessun Oscar per questo Paese che solo due volte ci ha provato – questa è la terza; e questa volta è entrato nella shortlist semifinale, con un film che si presenta vincitore dell'Un Certain Regard di Cannes ed è stato preferito, a sorpresa, a pellicole come La Bicicletta Verde, che rappresentava un'altra rivoluzione. Forse ancora più grande.

mercoledì 18 dicembre 2013

Ulisse.



A Proposito Di Davis
Inside Llewyn Davis, 2013, USA, 105 minuti
Regia: Joel & Ethan Coen
Sceneggiatura originale: Joel & Ethan Coen
Cast: Oscar Isaac, Carey Mulligan, John Goodman,
Garrett Hedlund, Justin Timberlake, Adam Driver, Max Casella
Voto: 9.4/ 10
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Prima dei Mumford & Sons (di cui Marcus firma alcuni brani della colonna sonora) e prima ancora di Bob Dylan, se una canzone sapeva di già sentita ma risultava sempre nuova, allora era una canzone folk. E il folk era cosa che non vendeva, o almeno che non avrebbe venduto ancora per poco, o meglio che vendeva ma soltanto in determinati casi: per ogni Bob Dylan che passa alla storia c'erano centinaia di cantantini che a malapena dormivano su un pavimento, se trovavano ospitalità. Poi, certo, c'erano quelli che servivano ai tavoli per campare e quegli altri che avevano la “vocazione”, o almeno celavano dietro questa parola il sogno (americano?) non tanto di sfondare quanto di racimolare soldi facendo ciò che sanno fare (meglio) o che vogliono fare (soltanto). E se prima Llewyn Davis riusciva a racimolare soldi cantando con addosso la chitarra e di fianco il compagno di una vita, ora deceduto, adesso si umilia chiedendo ospitalità un po' alle ex amanti un po' ai parenti non tanto stretti per non dormire in strada e sperare in una serata al bar. Tanto il vecchio manager quanto il nuovo gli sbattono la porta in faccia, perché Llewyn non è uno che la manda a dire né si abbassa a cose che preferirebbe non fare, e soffre silenziosamente nel vedere il duo Jim & Jean (rispettivamente Justin Timberlake e Carey Mulligan) ricevere calorosi applausi nelle serate musicali dei pub. La sua vita procede senza un disegno, così come il film, pensato inizialmente senza trama e costruito sulla presenza di un gatto (desideroso di essere randagio) dal nome Ulisse che il protagonista rincorrerà continuamente. La fotografia che i fratelli Coen fanno di questo spaccato di società, di questo pezzo di vita di un ragazzo perdente, è profondamente triste ma non si arrende a se stessa, e si costruisce in un cerchio che giustifica la sua improvvisa chiusura. Di Llewyn non sappiamo quasi niente; certo molte cose le capiamo, ma non ci interessano più di tanto perché non appena apre bocca per cantare restiamo stregati. Noi: mentre i produttori e il pubblico sullo schermo rimangono impassibili e a volte un po' annoiati. Snob e sicuro di sé, Llewyn sa che prima o poi potrebbe farcela, e si costruisce la corazza di un fallito che non sta fallendo come poche volte se ne sono viste al cinema. Oscar Isaac è bravissimo, soprattutto in questa veste canterina. Ha interpretato dal vivo (come gli altri attori) tutte le canzoni, a formare una colonna sonora folk che diventerà cult (come fu per Fratello, Dove Sei? sempre musicata da T Bone Burnett). Il punto di partenza – per la musica e per i Coen – è stato Dave van Ronk, cantautore attivo nella New York degli anni Sessanta che pubblicò un album dal titolo Inside Dave van Ronk di cui pure la copertina è stata fonte d'ispirazione. Per colpa di questo utilizzo degli arrangiamenti del passato la canzone Please Mr. Kennedy performata anche dall'Adam Driver di Girls non è candidabile all'Oscar perché, sebbene riscritta dai due registi, da Burnett e da Timberlake, si rifà all'omonima traccia di Ed Rush e George Cromarty.
Dopo i salti temporali tra l'America western del bel Il Grinta, il sobborgo dell'altrettanto fallito Serious Man, la periferia pericolosa del sopravvalutato Non È Un Paese Per Vecchi e le palestre cool di Burn After Reading, i Coen ci raccontano un altro microcosmo con un altro emarginato sociale e si superano; perciò, forse, hanno deciso di rimanere su questa strada: il prossimo film parrebbe un musical, ma questa volta commedia.

martedì 3 dicembre 2013

31TFF: gli ultimi amanti.



Only Lovers Left Alive
id., 2013, UK/ Francia/ Germania/ USA, 123 minuti
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura originale: Jim Jarmusch
Cast: Tilda Swinton, Tom Hiddleston, Mia Wasikowsa, John Hurt
Voto: 5.9/ 10
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L'inizio ci dice tutto. Non i titoli di testa in gotico rosso su un 33 giri che effettivamente gira, ma le immagini della Swinton e di Hiddleston che come il disco girano pure loro, stesi in parti della propria stanza. Poi abbiamo: una conversazione interminabile sulle chitarre d'epoca, con intervalli simpatici sulla necessità di avere un proiettile di legno, ma di legno duro, e una passeggiata per le vie di Tangeri, unica vera trovata interessante del film, che viene mostrata come labirinto peccaminoso, affascinante nella sua vuotezza, perfetta e mai associabile a un vampiro. Lei si chiama Eva, lui Adamo, e i giochi coi nomi saranno molti e simpatici («lei è il dottor…?», «Faust»). Lui ha una cultura gigantesca – come nella vita: Tom Hiddleston si è laureato in Lettere Classiche a Cambridge prima dell'Accademia di Arte Drammatica di Londra e dopo una super-scuola privata a Eton, attore shakespeariano di teatro, Fitzgerald in Midnight In Paris e soprattutto fiore all'occhiello di Thor – che esprime nell'accumulare oggetti d'epoca che riesce a rendere moderni; lei coglie l'anno di nascita delle cose toccandole (e ha bisogno di poche presentazioni). Comparirà, dal nulla e per molto poco, Mia Wasikowska, frizzante adolescente che ci ricorda la Jessica di True Blood ai primi tempi, indomabile nella sua sete incontrollata, vampira giovane. Escono, rigorosamente in guanti e occhiali da sole, ascoltano musica funeral metal, e niente, finisce tutto qua. La coppia di vampiri è una coppia reale che si scontra coi problemi reali più quelli inumani. Diffidenti e allergici agli “zombie”, viaggiano solo di notte e non trovano un posto per loro stessi, come non trovano una sana bottiglia di sangue non contaminato.
Il film pare un esercizio adulto e maturo per dimostrare al mondo che nella scia del vampire-style si può partorire un'idea anti-Twilight, così diversa da Twilight, forzatamente diversa, da non avere una trama, uno sviluppo, del mordente, per assomigliare il meno possibile a un film “semplice”; qualche trovata registica, dei dialoghi effettivamente brillanti, e l'on-the-road dei personaggi nomadi, che sono ciò che fa stare in piedi il film: gli attori. Tilda Swinton era perfetta per fare la Strega Bianca di Narnia e lo è ancora di più per fare il vampiro, ma è, come il suo amante che vive dall'altra parte del mondo, un vampiro decadente, come John Hurt loro mentore che si decompone a causa del sangue; tutto decade e si decompone: triste presagio che colpisce anche chi accumula saperi e cultura in vita, che spaziano dagli strumenti musicali e i loro musicisti al teatro inglese. A meno che non si torni all'ineducazione, allo stato selvaggio «del Quindicesimo Secolo». Morale della storia: più sai più soffri. Altra morale: più sai meno hai. Ma la pellicola del regista cult Jim Jarmusch, che ci fa sempre ridere ma nella vita s'è concesso una sola palese commedia e gli era andata pure bene (Broken Flowers) annoia troppo. Soprattutto chi non coglie la metà delle citazioni. E chi ama o ha amato la Twilight Saga. Cioè: un sacco di persone.

giovedì 21 novembre 2013

sposare una lontra.



Venere In Pelliccia
La Vénus À La Fourrure, 2013, Francia/ Polonia, 96 minuti
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura non originale: David Ives & Roman Polanski
Basata sulla pièce teatrale di David Ives
Cast: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Voto: 8/ 10
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Le Variazioni di Von Trier ci insegnarono che più restrizioni si hanno, miglior parto avrà il nostro prodotto: i limiti e i vincoli fanno sforzare l'ingegno. E così ha dovuto fare il segregato-in-Polonia Roman Polanski (che però al Festival di Cannes c'era, insieme ai suoi due attori e al suo film in concorso). Una comitiva piccola piccola perché il film due attori soltanto ha, e soltanto una location: un teatro addobbato coi cacti fallici di Ombre Rosse adattato a musical belga. Non potendo tornare al cinema internazionale e en-plain-aire, Polanski è da un paio d'anni che si scrive a pennello sceneggiature claustrofobiche tutte al chiuso: aveva così esagerato con L'uomo Nell'ombra (aka The Ghostwriter) tra isolotti aeroplani traghetti e spiagge, con cui fu applauditissimo a Berlino, che il successivo Carnage l'aveva fatto durare un'ora e l'aveva fatto iniziare e finire in un appartamento. Epopea di bravura per quattro bravissimi attori, fu la perla di Venezia 66 che riportò in auge lo spettacolo Il Dio Del Massacro repentinamente pubblicato da Adelphi. A due anni da quel film, il regista franco-polacco torna a un festival e torna a collaborare con uno sceneggiatore teatrale, il sessantatreenne David Ives che nel 2010 portò sul palco (nel 2011 a Broadway) lo spettacolo Venus In Fur che richiamava alla memoria il romanzo Venus Im Pelz dell'austriaco Leopold von Sacher-Masoch (1870) che scandalizzò il mondo e diede neologia al termine “masochismo” oltre che ispirazione, tra gli altri, al fumetto omonimo di Crepax negli anni '80.
Da questo calderone di arti, il duo di scrittori prende ogni tassello di puzzle e lo monta in un botta-e-risposta labirintico; Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner si ritrovano dopo Lo Scafandro E La Farfalla e si trovano nel teatro di cui prima, lui regista e adattatore della pièce e lei attricetta spiantata giunta in ritardo alle audizioni per il ruolo di protagonista di questo Venere In Pelliccia, spettacolo a partire dal romanzo di due secoli fa. Da subito, dal completo di pelle e dalla parlata sboccata, capiamo che per questa donna non ci sono chance, che il regista non è e non sarà interessato, lei a malapena ha letto il copione, è convinta che il libro di partenza sia un porno, che gli attori dovranno indossare collari e borchie. Ma poi dalla sua borsa di Mary Poppins tira fuori un pacchiano abito giusto, una giacca miracolosa, raccoglie i capelli e la Wanda von Dunayev di cui c'è bisogno è lei. Entra ed esce dal personaggio e si fa dare le battute dall'incantato Amalric di cui intuiamo l'autobiografismo nel testo, così come dell'austriaco fu per il romanzo. Da una scena saltano all'altra analizzando personaggi e posizioni sul palco, e la Wanda che si chiama veramente Wanda ci sorprende sempre correggendo una luce, intuendo una sottigliezza psicologica – chi è veramente questa donna?, cosa è venuta a fare?
Usciamo dalla sala con ancora queste domande in testa, a bocca amara per la scena conclusiva, musicata magnificamente (come ogni altra scena) da Alexandre Desplat, tribalmente un po' eccessiva, che ci sottolinea come il regista si sia preso gioco di noi, ingannandoci con il trucco delle parti, con un autore in cerca di personaggio e un personaggio in cerca di due corpi. Magistralmente i ruoli si invertono e capovolgono continuamente, al punto che si necessita l'ordine fornito in apertura: dove comincia il libro e dove la pièce e dove il film. La Seigner è maestosa, magistrale, totalmente disposta a mettersi a nudo e in grado di assumere varie forme – lei è l'attrice che il maestro plasma; e il maestro non è qui Amalric (sempre bravo, per carità), ma Polanski, che dopo averci snervato (nel senso buono, per carità) con Carnage, adesso ci spiazza nel labirinto della psiche umana.

domenica 21 luglio 2013

#Cannes66 #Farhadi



Il Passato
Le Passé, 2013, Francia, 130 minuti
Regia: Asghar Farhadi
Sceneggiatura originale: Asghar Farhadi
Cast: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa,
Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin, Sabrina Ouazani
Voto: 6.9/ 10
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Premio dell'Interpretazione Femminile:
Bérénice Bejo
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Galeotta fu la cerimonia degli Oscar dell'anno scorso: Bérénice Bejo candidata seduta in platea applaudiva al Miglior Film Straniero per una volta vinto dal miglior film straniero effettivo che si chiamava Una Separazione ed era diretto da Asghar Farhadi, regista praticamente boicottato in patria (l'Iran), patria che l'anno successivo – e cioè questo – film agli Oscar non ne ha mandati per ribellione. Bene, l'attrice francese e il regista iraniano si sono incontrati per un film quasi tutto iraniano ma girato in Francia, e in francese, con traduttori continuamente presenti sul set e una sceneggiatura bilingue scritta dallo stesso regista che già due anni fa aveva dimostrato la sua abilità straordinaria nello stendere i dialoghi. E lo diciamo subito: l'abilità è impazzita.
Questo Il Passato, che ha un titolo contenitore molto più grosso di quanto in realtà inghiotte, è la saga sentimentale di una donna all'apparenza non così frivola come poi si rivela (e la bravuta della Bejo è interpretare una gatta morta senza miagolare), sposata più volte e incapace di sostenere in maniera matura i rapporti sociali. Non riesce a domare una figlia che la detesta per il nuovo compagno a breve marito né riesce a domare il di lui unicogenito più piccolo. Si vede i due uomini della vita entrambi, contemporaneamente, in casa, che giocano a evitarsi o a fingere dialoghi. La scena migliore è il silenzio a tavola durante un temporale. Bene, il film su questa famiglia allargata serve a farci intuire vicende andate che hanno portato a silenzi e grida, soprattutto riguardo alla moglie defunta suicida del nuovo compagno, la quale ha ricevuto...
Niente, non c'è paragone con il vecchio splendore mediorentale: premio alla Bejo come Attrice solo perché francese in un anno di film francofili o francofoni e critica divisa perché dubbiosa. La tensione mentale che Una Separazione creava nello spettatore (i continui colpi di scena portavano a schierarsi sempre con una persona diversa e cambiare le idee sui personaggi) diventa qui noia mortale su episodi dal gusto modernizzato (compaiono delle mail in una casa lontana dal mondo) che bruciano di un fuoco poco molto interessante. Il colpo di scena c'è, ma l'encefalogramma resta uguale.
Accanto alla Bejo, Farhadi richiama a sé l'Ali Mosaffa del film precedente – Orso d'Argento a Berlino come migliore attore, che pare invecchiatissimo, e il protagonista di un altro film dell'anno, che l'Oscar non lo vinse ma quasi, francese anche lui (il film), Tahar Rahim de Il Profeta, elogiato a “il Padrino dei giorni nostri”. Cioè, gli ingredienti sono tutti giusti ma la pentola francese ha qualche difetto.
Piace a: le signore che in casa al pomeriggio d'estate che fa brutto tempo accendono La7 e se la godono coi film della Davis. Non piace a: gli amanti di Agatha Christie.

#Cannes66 #Hirokazu



Like Father, Like Son
Soschite Chici Ni Naru, 2013, Giappone, 120 minuti
Regia: Kore-Eda Hirokazu
Sceneggiatura originale: Kore-Eda Hirokazu
Cast: Fukuyama Masaharu, Machiko Ono, Yôko Maki, Lily Franky
Voto: 7.8/ 10
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Gran Premio della Giuria
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In una casa che «sembra la camera di un hotel» una composta famiglia composta da madre amorevole, figlio educatissimo e padre treno di galateo conducono la loro vita fatta di piccoli momenti insieme e molti lavori per apparire al meglio: in ordine il vestito, in ordine il salotto, persino le bugie da raccontare all'insegnante della scuola privata il giorno dell'ammissione devono essere dette con garbo. Trenta minuti di televisione al giorno, non si mastica la cannuccia della bibita e poi al saggio di pianoforte se gli altri fanno meglio bisogna impegnarsi per essere ancora più bravi l'anno successivo.
Il padre (perdonate ma ho un problema coi nomi giapponesi per cui ho rimosso tutti gli appellativi di questi personaggi) padrone di questa casa guarda al figlio e si domanda: com'è possibile?, zero competitività, zero voglia di arrivare – com'è possibile, si domanda, che sia venuto fuori un bambino (di sei anni) tanto diverso? Risposta pronta: l'ospedale chiama, sei anni son passati e ci siamo resi conto che due pargoli sono stati invertiti. Le famiglie corrono dall'ostetrica senza pancia gonfia ma con gli occhi pesti: com'è possibile?, ma quando mai? Si pensa alla denuncia ma più ancora al figlio biologico. La suddetta famiglia incontra quella che ha allevato il figlio illegittimo e peggio di così non si poteva andare: i due nuclei non sarebbero mai stati uniti da nient'altro, quartiere diverso, reddito diverso, diverso modo di gestire gli spazi sociali (i vestiti della locandina aiutano). E se la madre rigida si lascia ammorbidire, il padre marmo non si piega e inizia ad osservare con sempre più quesiti. Forse il figlio che gli somiglia è là. L'ospedale suggerisce: scambiate i ragazzini per un periodo, amalgamate le famiglie. Mica facile: il pischello tutto giochi e fratellini si ritrova nella camera di un hotel di cui sopra e ne scappa. La madre è sempre più morbida, il padre zero: si scioglierà nella meravigliosa sequenza finale che non brilla di novità né di realismo per i dialoghi ma fonde una dolcezza che in sala necessitavamo di ricevere.
Tema difficilissimo ed effettivamente non così inflazionato, affrontato in modo elegante, totalmente privo di giudizio morale o religioso. Il realismo sta nelle menti arrovellate delle persone che un giorno devono scegliere se tenere il figlio cresciuto o quello partorito dove c'è: da una parte il sangue e l'anonimato, dall'altra l'affetto e nessuna parentela.
Premio della Giuria e Menzione Speciale della Giuria Ecumenica (insieme alla Golino di Miele) per Kore-Eda Hirokazu che era passato da Cannes già due volte e se n'era tornato a mani vuote (ma con Nessuno Lo Sa ha fatto nascere un piccolo cult); i più sensibili piangeranno, ma chissà quando: in Giappone il film uscirà a ottobre e in Italia ancora non ha una data di uscita – per cui non confondetelo con Tale Padre Tale Figlio di Rod Daniel dell'87.

#Cannes66 #Kechiche



La Vie D'Adèle
La Vie D'Adèle - Chapitre 1 & 2, 2013, Francia, 187 minuti
Regia: Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura non originale: Abdellatif Kechiche & Ghalia Lacroix
Basata sulla graphic novel Blue Is The Warmest Color di Julie Maroh
Cast: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Aurélien Recoing,
Catherine Salée, Alma Jodorowsky, Karim Saidi
Voto: 7.7/ 10
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Palma d'Oro al miglior film
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Si chiacchiera nella fila davanti alla mia.
«La Vie D'Adèle l'hai visto?» dice uno, «sì» dice l'altro, «e allora?» chiede uno, «tre ore frizzantissime» accenna un sorriso l'altro «tre ore – e quaranta minuti di amplessi gay». Ride. «Apparte gli scherzi, tre ore che non si sentono».
Si chiacchiera nella fila dietro alla mia.
«La Vita Di Adèle?» dice uno, «inguardabile. Una schifezza. Ero con mia moglie e mia nipote: hanno vomitato tutto il tempo. Vabbè, mia moglie ha la mia età, ma la ragazza c'ha vent'anni. Stava male durante il film, e alla fine: giù a vomitare».
Dunque. Con questo film succede questa cosa: non la solita cosa che o lo si ama o lo si odia perché io né uno né l'altro, ma succede questa cosa per cui in cento-ottanta-sette minuti ti domandi com'è che si mangino tanti spaghetti e soprattutto si vedano così tanti orgasmi, e così lunghi, così dettagliati; ma attenzione: il sesso è finto, dicono le attrici in sala stampa a Cannes, avevano protesi addosso e «non si sono neanche toccate». Tant'è: non l'avremmo mai colto, dati gli schiaffi sulle natiche e il naso tra le cosce e i seni stretti che vediamo. Ma il film non è solo questo, non finisce certo qua. Però succede questa cosa: che si pensa che prima vincevano la Palma d'Oro le pellicole così, senza nemmeno un bacio in bocca, e adesso invece... E la forza de La Vie D'Adèle sta tutta qua: nel suo essere semplicemente una trasposizione su schermo grande di un pezzo di vita vera, una vita che mischia la graphic-novel da cui è tratto al romanzo incompiuto di Marivaux La Vie De Marianne.
L'Adèle del titolo sarebbe Adèle Exarchopoulos – cognome impronunciabile che dovrebbe essere pronunciato a febbraio, alla cerimonia degli Oscar, perché a vent'anni questa ragazza (giustamente decretata «la rivelazione del festival») è stata in grado di illuderci che uno spaccato di storia proiettata fosse un documentario o uno scorcio vero: mai nessuno(/a) fu più realistico(/a) né spontaneo(/a) come lei che con una scioltezza da navigata diva piange e ride e gode e s'infuria in questi cento-ottanta-sette minuti buttati tutti sulla sua spalla e sulla sua vita non intera: alla fine del liceo prova a uscire con un ragazzo ma in sogno le compare la stramba coi capelli celesti che ha visto in cortile. Si tocca, la tocca, e il passaggio tra le due realtà sarà breve. La relazione con questa tinta Emma sarà fatta di alti e bassi – una si nasconde l'altra è apertissima in casa, una forse prova ancora attrazione per i ragazzi l'altra addirittura per un'altra donna. Un Brokeback Mountain che, anche qui, guai a dire “film lesbo” perché è in realtà un “film umano”, anche se là si ribaltava lo stereotipo del gay rendendolo cowboy e qui la lesbica media è artista o maestra d'asilo. Complimenti vivissimi fatti anche a Léa Seydoux (Bastardi Senza Gloria, Midnight In Paris), attrice di punta della nouvelle France, richiestissima pagatissima ma qui oscurata per buona parte da colei che avrebbe dovuto vincere la Palma alla Migliore Interpretazione. Invece, viene chiamata a ritirare quella al Miglior Film col regista Abdellatif Kechiche; la motivazione della giuria: il film non sarebbe niente senza le due protagoniste. Lui (il regista) a Cannes non c'era mai stato – a Venezia sì, tre volte, con Cous Cous tra gli altri, e il suolo Italico non gli aveva mai dato quasi niente. Quello francese sì, ma attenzione: non è tanto il film che stiamo premiando quanto l'illusione dietro a esso.

lunedì 27 maggio 2013

#Kechiche



Attenzione a non chiamarlo “film lesbo” quello che ha vinto la sessantanovesima Palma d'Oro al Festival di Cannes 2013; apprezzato persino dalla Radio Vaticana che lo ha definito «ricco di scene indimenticabili», «un'esplosione di sentimenti», recensito bene da tutti, già in odore di premio, La Vie D'Adèle (letteralmente: La Vita Di Adele, ma ha titolo inglese Il Blu È Un Colore Caldo come la graphic-novel da cui è tratto) conquista il massimo riconoscimento senza prendere quello per le attrici, elogiate a onor del vero più della pellicola in sé, la diciannovenne Adèle Exarchopoulos e la richiestissima Léa Seydoux (entrambe nella foto, col regista Abdellatif Kechiche, che ha dedicato il premio alla sua Turchia natale) – perché la Palma all'Interpretazione Femminile è andato alla Bérénice Bejo di The Artist per Il Passato di Asghar Farhadi (pure questo profumato di qualche vittoria). Miglior attore l'anziano Bruce Dern per la pellicola in bianco e nero di Alexander Payne (Paradiso Amaro), Nebraska, osannato più del resto dell'alta competizione insieme a Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen, Gran Premio della Giuria applauditissimo – e qui ha ritirato la Palma ai registi l'attore Oscar Isaac mentre il premio per Dern l'ha ritirato Payne. Miglior Regista: il messicano Amat Escalante per Heli, che come l'altro messicano che vinse lo stesso premio l'anno scorso, confeziona una pellicola di dubbia qualità cerebrale ma con scene indimenticabili – tipo la tortura con bruciatura di pene finale. Miglior Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke per il cinese A Touch Of Sin. Premio della Giuria: Like Father, Like Son, lo scambio di bambini diretto dal giapponese Hirokazu Kore-Eda.
Neanche questa volta – dopo This Must Be The Place – Sorrentino porta a casa niente, ma ci consoliamo con i due premi vinti da Salvo e quello vinto ex-aequo dalla Golino: Miele ha infatti ottenuto la Menzione Speciale della Giuria Ecumentica insieme al Like Father, Like Son di cui prima, mentre il Premio vero e proprio se l'è aggiudicato Il Passato di Farhadi. La Golino, al suo debutto dietro la macchina da presa, avrebbe potuto sperare nella Camera d'Or, all'opera prima, andata invece a Ilo Ilo, dal Singapore, presentato nella Quinzaine, storia di una famiglia e della domestica filippina pari pari a A Simple Life.
Dopo l'interruzione, tutti i premi.

sabato 25 maggio 2013

#Gray #Chandor



Il premio Oscar Marion Cotillard (foto) arriva a Cannes al penultimo giorno di festival: è una polacca che fugge dall'Europa stremata dalla Grande Guerra insieme alla sorella verso l'America in The Immigrant di James Gray, storia di un inserimento sociale che non avviene; ad aiutarla, nel film, ci penserà Joaquin Phoenix, attore feticcio del regista (anche nell'ultimo Two Lovers), qui arraffone disperato e anche lui desideroso di appartenere ad una New York ricostruita totalmente in studio e fotografata dall'immenso Darius Khondji, qui l'anno scorso per il meraviglioso lavoro svolto in Amour, che per questa pellicola a-temporale sceglie di illuminare tutto col rosso – tipo il tramonto sul Titanic.
Applausi e commozioni per questo film che si mette in fila insieme agli altri in attesa della Palma di domani: The Past di Asghar Farhadi, che dopo l'Oscar per Una Separazione prende la candidata all'Oscar per The Artist e racconta di un matrimonio iraniano per le periferie di Parigi; Like Father, Like Son, del giapponese Hirokazu Koreeda, storia di un figlio scambiato alla nascita e del rapporto tra un padre e ciò che ha cresciuto per tanti anni; ma sono stati soprattutto Nebraska e Inside Llewyn Davis, entrambi americani, rispettivamente dei super-celebrati Alexander Payne e fratelli Coen, a strappare più consensi e recensioni positive.
In questo ultimo giorno di proiezioni tornerà sullo schermo Roman Polanski col francese Venus In Fur; lui ovviamente assente dal tappeto rosso mentre sfilerà il super-cast dell'ultima pellicola in gara, Only Lovers Left Alive – Mia Wasikowska, Tom Hiddleston, Tilda Swinton, John Hurt, Anton Yelchin – prima pellicola fantasy-vampiresca di Jim Jarmusch.
E se il nostro Sorrentino ha diviso, come sempre, il pubblico e la critica, l'italiano a sorpresa che fa il colpaccio è il film Salvo, vincitore di entrambi i premi della Settimana della Critica (il Gran Premio della Giuria e il Premio Rivelazione): cinque anni per raccogliere i fondi necessari per le riprese (un milione di euro), distribuzione francese già confermata e un nome noto dietro la direzione della fotografia (Daniele Ciprì), Salvo è l'esordio di Piazza & Grassadonia a partire da un corto con lo stesso tema di qualche anno fa.
Sullo stesso genere di tensione ha viaggiato All Is Lost due giorni fa: Robert Redford (76 anni non sentiti) e la sua barca in mezzo al mare sono unici figure di questo film totalmente privo di dialoghi – un monologo iniziale, qualche «fuck» nel mezzo – diretto dal celebrato J.C. Chandor di Margin Call che ha messo tutti d'accordo sulla qualità di una regia narrativamente insolita per un film d'azione.

martedì 21 maggio 2013

i trenini migliori di tutta Roma.



La Grande Bellezza
id., 2013, Italia, 145 minuti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura originale: Paolo Sorrentino & Umberto Contarello
Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli,
Carlo Buccirosso, Pamela Villoresi, Galaeta Ranzi, Iaia Forte,
Serena Grandi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,
Giorgio Pasotti, Luca Marinelli, Lillo Petrolo
Voto: 8.3/ 10
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Una citazione da Céline (Ferdinand, Viaggio Al Termine Della Notte) che ci si poteva risparmiare, uno scoppio di cannone e il film comincia: Roma, l'afa, il turismo, le prove del coro, l'acqua della fontana in pieno giorno. Poi: Roma, alla sera, su una terrazza con la scritta Martini a coprire l'orizzonte (come succedeva a Renzo e Luciana in Boccaccio '70) e un manipolo di starlette e attorucoli decaduti e non, ereditieri e gente che «di mestiere fa il ricco», giornalisti, direttori che si dimenano, si divincolano, si disperano sopra e sotto i cubi e i tavoli di drink e spettegolano di loro stessi se Serena Grandi, una Saraghina moderna, salta fuori da una torta prima che ci si metta a ballare tutti insieme la Colita.
E il film comincia, e il film è di Federico Fellini: che ha già girato una pellicola che si chiama Roma e che ha già girato una pellicola che si chiama La Dolce Vita. Nel primo ci si dedicava agli episodi che Roma la fanno o la compongono geograficamente (il raccordo), nel secondo ci si dedicava a chi la vive, ai paparazzi e alle dive straniere, alle bivaccate nelle case per far niente o far molto poco, dirsi che una sta col trainer e l'altra dà tutto in beneficenza, volersi bene senza entrare nei particolari – e sfociare in cacce ai fantasmi fortemente riprese qui con una Sabrina Ferilli ammantellata che, candelabro in mano come nel '60, si accinge a varcare soglie di cui Giorgio Pasotti ha le chiavi, nel buio. Ma pare nessuno l'abbia notato. Come nessuno ha notato la giraffa al centro del Colosseo, eco del rinoceronte di E La Nave Va..., o le prostitute divertite in una scena di sfuggita, le colleghe di Cabiria, le contesse vestite a festa coi fiori nei cappelli di Giulietta Degli Spiriti per andare a incontrare il cardinal Roberto Herlitzka a cui il protagonista, scrittore che non scrive libri, chiederà consigli come il regista che non gira film Guido Anselmi di 8 1/2. Ma nessuno pare l'abbia notato, dicevo, perché basta dire «Fellini» e «La Dolce Vita» (fischiatissimi in Francia ma vincitori della Palma) che a Cannes si storce il naso, o meglio, come Paolo Sorrentino ha fatto notare, la stampa italiana storce il naso. Anche per Il Divo s'era trovavo lo stesso problema («è un prodotto troppo italiano, che all'estero non verrà colto») e invece s'era candidato a un Oscar (per il trucco, ma vabbè). Dopo il Neorealismo di Reality, di cui comunque si stente l'eco, ritorniamo a farci rappresentare da un regista – che a Cannes è di casa – che ricalca le antiche glorie, e pare le appiccichi insieme più che idolatrarle. Utilizza, come Fellini, ma come anche se stesso, il tecnica della non-narrazione raccontando per episodi sconnessi, tra i quali potrebbe passare un giorno come un mese, una storia non di un uomo che ci viene detto molto sensibile (e poi non lo è) ma di una società, la nostra, che pubblica foto sempre e comunque, si vanta di amare Proust «ma anche Ammaniti», intavola conversazioni a base di ricette quando dovrebbe redimere dai peccati, chiama artista una che si lancia nuda contro il muro. La satira sociale è altissima, soprattutto quella religiosa, nella Roma del Vaticano, ma è mascherata, da una Grande Bellezza che non si trova, e non si trova perché non si sa dove cercarla: Toni Servillo, immenso come al solito, è un palese omosessuale che cambia una donna per notte e ama «l'odore delle case dei vecchi» piuttosto che «la fessa», ma poi si spalma su questo balcone di una casa che non vediamo in cui la mediocrità e l'ipocrisia e la mondanità spicciola e squallida vanno a dormire alle sei dell'alba. La sua sensibilità si perde e si ritrova davanti a fenicotteri in riposo e foto di una vita vissuta, ma ancora non basta per tornare a questo libro da scrivere, da decidersi a cominciare, sebbene Fanny Ardant scenda le scale e la Santa suora le salga in ginocchio.
Per questo artistico/ letterario/ satirico ritratto della Roma decadente di oggi, Sorrentino trova 8 milioni di budget e una fila di attori desiderosi di aiutarlo, e prende Carlo BuccirossoIsabella Ferrari, Iaia FortePamela Villoresi, Galatea Ranzi, ma di tutti è il personaggio di Carlo Verdone, a sorpresa, che rappresenta la morale: «Roma mi ha molto deluso», e me ne ritorno per sempre al paese. Se ne esce distrutti, disincantati, e dispiaciuti soprattutto perché di tutta la filmografia del regista questo è il lavoro meno rigoroso tecnicamente e con la potenza musicale più blanda. Ma è quel cinema italiano, tipo Reality di cui prima, di cui dovremmo essere fieri, e che ai festival invece fischiamo.

venerdì 17 maggio 2013

#Gondry #Salvo



A Cannes non esiste solo il concorso ma anche quello che viene chiamato Marché, il cinema delle proiezioni per gli acquirenti esteri dei diritti, il cinema, insomma, dove i film piccoli piccoli incrociano le dita sperando di essere comprati da qualche paese (grosso grosso). Non si direbbe, ma qua in mezzo c'è Michel Gondry, Oscar alla sceneggiatura di Se Mi Lasci Ti Cancello e in cartellone alla Semaine De La Critique l'anno scorso con The We And The I, film che – appunto – nessuno ha comprato e distribuito (era americano) in Italia ma che io ho particolarmente apprezato; gira, questa volta, in francese, prendendo la Audrey Tautou madrina di questo Festival di Cannes 2013 e Omar Sy, nuovo spassoso volto del cinema francese grazie al Quasi Amici che non commento più. Lei è una gracile innamorata malata ai polmoni perché una ninfea le è cresciuta nel corpo, lui è un avvocato ora cuoco ora ballerino amico del protagonista Roman Duris che per pagare le visite mediche ad Amélie fa qualsiasi lavoro, anche il più becero, portando così il film al bianco e nero... Da questo e da altri dettagli (il matrimonio sott'acqua, le scarpe-cuccioli che scappano da casa, il campanello-scarafaggio) si riconosce il ritorno di Gondry alla surrealtà de L'arte Del Sogno portata agli eccessi: nessuna scena è risparmiata dalla fantasia assoluta e dalla costruzione artistica del mondo parallelo. Uscito il 24 aprile in Francia, La Schiuma Dei Giorni non ha ancora distribuzione nostrana (ma il libro da cui è tratto, di Boris Vian, è edito, da Marcos y Marcos) e per ora si accontenta di un 5.9 su iMDB.
Apre, invece, la Semaine di cui prima, l'italiano Salvo, opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza considerato già «il miglior esordio dell'anno» perché diretto con una padronanza maniacale degli spazi, dei tempi e soprattutto dei rumori da cui è composto, storia poliziesca ambientata in una Sicilia che sembra Far West con Luigi Lo Cascio che poco più di un mese fa ha esordito alla regia con La Città Ideale. E le sparatorie e i furti colpiscono la città francese non solo nei film.

giovedì 16 maggio 2013

sussurri e champagne.



Il Grande Gatsby
The Great Gatsby, 2013, Australia, 142 minuti
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura non originale: Baz Luhrmann & Craig Pearce
Basata sul romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald
Cast: Tobey Maguire, Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan,
Joel Edgerton, Elizabeth Debicki, Isla Fisher
Voto: 6.9/ 10
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Era marzo quando si iniziò a parlare dell'uscita di un film di Baz Luhrmann basato sul libro di Fitzgerald ed era poi maggio quando spuntò un trailer con una locandina. Questo film era, dunque, pronto da quasi un anno, al punto che se ne aspettava l'imminente uscita a dicembre. Ma l'uscita non ci fu, perché il regista voleva portare il 3D ai «massimi livelli» che la tecnica permette, facendo insomma la pernacchia allo Hugo Cabret da tanti celebrato. E già dall'inizio della pellicola, in effetti, ci si rende conto che – a differenza di molte altre occasioni – il 3D c'è. In certi momenti anche troppo. Ma non è certamente solo questo ciò che ha tolto il sonno al caro vecchio Baz: gli era andata male (molto male) con Australia e allora il “visionario” regista australiano mette in disparte la sua australiana musa (che ieri a Cannes ha visto il film sulla poltrona della giuria) ed è tornato indietro, a ricalcare il suo film di maggior successo. E già dall'inizio, dicevo, 3D a parte, l'eco del Moulin Rouge! si sente e nella sala rimbomba, dal montaggio frettoloso e dagli effetti posticci, dalle sovrapposizioni di immagini grottesche, dalla moltitudine di colori e suoni e soprattutto dalla presenza di uno scrittorucolo che si mette a sedere e a battere a macchina (in questo caso, però, comincia con la penna) la storia che ci racconta da fuori campo. Che è la storia d'America per eccellenza, successiva forse solo a Il Giovane HoldenIl Buio Oltre La Siepe (entrambi titoli ben tradotti, noto): una storia di un romanzo di uno scrittore considerati da alcuni la miglior prosa e il miglior prosatore del Novecento ma che a me personalmente scivola addosso come il VivinCi, senza effetti collaterali, per cui la mia lettura del romanzo, se non qualche accorgimento poi scoperto, che riguarda soprattutto la predizione del crollo del '29 e un'aura di rammarico per “l'età del jazz”, mi ha riportato alla mente quegli stereotipi leggermente sopra agli Harmony tipo I Ponti Di Madison County o giù di lì.
Lo scrittore di cui prima, che per campare si mette a vendere azioni a Wall Street in una cornice bizzarramente tridimensionale ma fatta di foto d'epoca, prende una casetta sulla costa di New York di fianco alla villa gigantesca di un tale Gatsby che a quanto pare ogni fine settimana si mette a dare feste matte senza mai parteciparvi: dicono sia stato ad Oxford, sia un assassino, sia stato in guerra. Lui né annuisce né smentisce: non c'è. O meglio: c'è ma si confonde tra la servitù, e si rivela solo a chi vuole. E dunque, l'animo degli anni '20 tutti alcool e musica – che qui, trovata geniale, non è puro jazz ma una compilation di voci contemporanee dell'R&B risuonate dalla Bryan Ferry Orchestra o riarrangiate da Craig Armstrong (che già lavorò al Moulin!) – è qui, in questa villa, mentre Francis Scott Fitzgerald guarda dall'alto e sa che presto l'incanto finirà. E finirà – nel romanzo e nel film – per un amore tenuto lontano e vicino, nascosto e ben presente, quello di Jay Gatsby per la sposata Daisy cugina del protagonista Tobey Maguire tanto pesce lesso quanto lo fu Sam Waterston nel film del '74 – film che, diretto da Jack Clayton e sceneggiato da F. F. Coppola, fu il punto d'arrivo per Mia Farrow che impersonò la più giuliva Daisy della storia del cinema (si contano altre tre trasposizioni) qui ricalcata, nemmeno tanto forzatamente, dalla meravigliosa Carey Mulligan a cui viene dato troppo poco spazio, dato che se lo prende tutto Leonardo DiCaprio: un Oscar che, se non lo vince per questa interpretazione (uguale, certo, a molte altre, ma padrona dell'unico buon personaggio della pellicola) non lo vincerà più.
In sostanza: l'attesa, come sempre, delude. E delude soprattutto perché: il film è incapace di mantenere un proprio ritmo: l'apertura troppo diluita, allungata inutilmente in presenza di uno psicologo, così come il finale totalmente scivolato, cozzano con i momenti frizzanti del film, di azione, di baldoria, che a loro volta cozzano con la quiete di certe altre lunghe scene – penso al the a casa di Nick – che ricalcano pari pari la pellicola degli anni '70. Con una differenza: qui si sono spesi una quantità incredibile in più di soldi per scene e costumi che ormai non ci sorprendono più.

#Ozon #Coppola



Con un'immagine insolita (tratta dal sito «di attualità, cinema e disegni» Dé'Ciné di Joris) apriamo la cronaca da Cannes che, dopo l'apertura di ieri – con cerimonia presieduta da Audrey Tatou, conferenza stampa con i fotografatissimi Steven Spielberg e Nicole Kidman, proiezione de Il Grande Gatsby già reduce dall'incasso di poco inferiore all'Iron Man record in America (72 milioni e mezzo per l'eroe Marvel, 50 milioni per la trasposizione da Fitzgerald) – dopo l'apertura di ieri, dicevo, si appresta a visionare e far vedere i film del concorso nella Selezione Ufficiale e nell'Un Certain Regard. Per la prima delle due parti, si comincia con François Ozon: Jeune Et Jolie non è solo la traduzione francese della canzone originale del film di Luhrmann di Lana Del Rey, ma anche il nuovo titolo del celebrato autore di 8 Donne E Un Mistero e Potiche, di ritorno nella kermesse francese dopo dieci anni esatti da Swimming Pool, il suo film più visto all'estero, che però non gli aveva fruttato nessun tipo di riconoscimento. Per Young And Beautiful (sarà così tradotto, in uscita il 21 agosto in Francia) si affida a un'attrice ventitreenne che giovane è giovane e anche bellissima, tale Marine Vacth, a cui auguriamo una carriera più splendente della sua ex musa Ludivine Sagnier, bellissima, ma dimenticata dopo due performance e mezzo. Questa esordiente (è il primo ruolo da protagonista) interpreta un'adolescente che vende il proprio corpo non per punizione ma per piacere, fino al giorno in cui incappa in un ragazzo conosciuto su un social network... È il ritorno di Ozon sui temi dell'adolescenza dopo la parentesi di Nella Casa in cui si circondava di una marmaglia di pischelli per raccontare la scuola ma giostrava un protagonista certamente anziano. E il tema del giovane (e ribelle?), del bello (e dannato?) torna soprattutto nel film che apre l'Un Certain Regard con la Sofia Coppola da cui ci si aspetta molto, dato che le è stato regalato un Leone d'Oro (per Somewhere) e un Oscar (per Lost In Traslation). Anche per lei è la seconda volta a Cannes dopo la trasposizione tutta pasticcini e rock'n'roll di Marie Antoinette che pure a lei non valse quasi niente. Bling Ring (in Italia perde l'articolo The all'inizio) racconta la storia, basandosi su fatti reali, di cinque teen-agers ossessionati dal denaro e dal successo che intercettano grazie ad internet i luoghi esatti di dimora dei personaggi famosi per intrufolarvisi e derubare. Con Emma Watson non più Ermione Granger e la più giovane Taissa Farmiga, sorella di Vera Farmiga (Tra Le Nuvole) e attrice in American Horror Story, la Coppola mette in campo, pure lei, una schiera di esordienti giovanissimi. In Italia il film è previsto per il 19 settembre.

domenica 12 maggio 2013

#LlewynDavis #LayDying



Abbandonati i fasti degli anni '90 di  Fargo, Il Grande Lebowski e Fratello, Dove Sei? Joel e Ethan Coen fratelli degli alti e bassi (alti: Non È Un Paese Per Vecchi, Il Grinta) (bassi: Prima Ti Sposo, Poi Ti Rovino, Ladykillers) tornano in sala da registi dopo tre anni di assenza e tornano a Cannes, in concorso, dopo sei. E tornano col film che avrebbero dovuto far concorrere agli scorsi Oscar ma che per lunghezze di montaggio (sempre loro, col nick Roderick Jaynes) non hanno concluso in tempo. Inside Llewyn Davis li riporta all'America civilizzata degli anni '60 in cui tale Llewyn Davis, interpretato da Oscar Isaac, attraversa la New York dei locali folk con la chitarra al collo e un album che dà il titolo al film sulla falsa riga del realmente esistito Dave Van Ronk, basandosi liberamente sul memoir che questo pubblicò postumo. Lo accompagnerà Carey Mulligan, mora e doppiamente a Cannes per Il Grande Gatsby d'apertura e, tra gli altri, John Goodman e Justin Timberlake, reduce dal quasi-record di vendite al debutto del suo 20/20 Experience di cui presto si avrà il secondo CD e che firma, insieme a T Bone Burnett e Marcus Mumford (nessuno dei due necessita di presentazioni) la colonna sonora composta da vecchi brani folk riarrangiati. In cartellone il 19 maggio a Cannes, il film sarà distribuito nelle sale americane dal 6 dicembre, e questo è il primo trailer.
Dall'altra parte della Selezione Ufficiale invece si trova il prolifero James Franco – 14 film in uscita come attore, 6 come autore, già a Berlino con lo sperimentale Interior. Leather Bar. – in concorso nell'Un Certain Regard da regista con As I Lay Dying, che se manterrà il titolo del libro da cui è tratto si chiamerà in Italia Mentre Morivo (di William Faulkner, Adelphi edizioni, € 10,00) perdendo il riferimento all'Odissea (libro IX) in cui Ulisse scende agli Inferi e ascolta Agamennone lamentarsi del nessun aiuto ricevuto dalla moglie, neanche da morto. La storia semplicissima del libro è ormai un classico della narrativa americana per la struttura e lo stile assurdi e studiatissimi che stanno alla base; in che modo il nostro James (che ricordiamo con treccine e denti d'argento in Spring Breakers) sia riuscito a trasporre la storia in pellicola, ci viene raccontato qui. Al suo fianco, come attore, oltre a Danny McBride che con Franco ha lavorato in Sua Maestà, c'è Tim Blake Nelson, appena visto in Lincoln e, a chiudere il cerchio, in Fratello, Dove Sei? dei Coen nel 2000.

sabato 11 maggio 2013

#QueerPalm4.



In attesta della locandina forse più ufficiale di questa – che di solito ha svolazzi e ghirigori – mi sorprendo della scelta del fotogramma di un film portoghese del 2000 che non passò a Cannes bensì a Venezia, e che, stroncato da gran parte della critica, venne mandato una volta o due su Sky quando io ancora ero al liceo, e si chiama Il Fantasma (regia di João Pedro Rodrigues) – e se riconosco l'immagine è solo perché è pure sulla locandina.
Certo la Queer Palm, Palmina d'Oro al film a tematica GLBT presentato all'interno di una delle competizioni (la Selezione Ufficiale e l'Un Certain Regard), è troppo giovane per potersi permettere vecchie glorie sul manifesto (e penso a L'avventura), dal momento che festeggia questo maggio il quarto compleanno, dopo aver premiato, nell'ordine, il dubbio Kaboom, il sud-africano Beauty mandato all'Oscar l'anno scorso e Laurence Anyways del franco-canadese Xavier Dolan, attore e regista mio coetaneo ma già di culto (soprattutto grazie a Les Amours Imaginaires).
E i candidati di quest'anno sono pochi ma molto grassi: lo Steven Soderberg attualmente in sala col thriller farmaceutico Effetti Collaterali è uno dei due possibili vincitori del Concorso Ufficiale, e il più vistoso, con gl'imparruccati Matt Damon e Michael Douglas, rispettivamente Scott Thorson e il pianista e attore ultra-pagato Liberace degli anni '50, nella biografica storia d'amore durata sei anni e molte più primavere di differenza tra i due; Behind The Candelabra è anche il primo film made-for-television (più precisamente, il canale HBO) a partecipare in Concorso nel festival francese – sarà trasmesso il 26 maggio in USA e il 14 giugno in UK. Concorre per entrambe le Palme poi anche l'Abdellatif Kechiche di casa solitamente veneta (era in concorso per il Leone con Tutta Colpa Di Voltaire, Cous Cous e Venere Nera) con il lesbo La Vie D'Adèle chiamato anche Il Blu È Un Colore Caldo dalla graphic-novel da cui è tratto – dove blu è il colore dei capelli di una delle due protagoniste.
Di tema orgiastico, forse, sono L'inconnu Du Lac di Alain Guiraudie (Un Certain Regard), incontro tra un frequentatore di battuage lacunare con un assassino, e Les Rencontres D'après Minuit di Yann Gonzalez (Settimana della Critica), storia annoiata di una coppia che, per portare brio alla vita e alla casa, organizza una serata di sesso in gruppo nel salotto invitando personaggi cliché da film porno a partire dal nome.
Uno dei quattro episodi di cui è composto l'indiano Bombay Talkies (con cui, tra l'altro, si celebrerà il centenario della nascita di Bollywood) e il francese Les Garçons Et Guillaume, À Table! dell'attore e sceneggiatore teatrale Guillaume Gallienne (che ha messo il suo nome nel titolo perché storia autobiografica) completano il sestetto in gara. Mentre l'italiano Dimmi Che Destino Avrò, diretto da Peter Marcias e scritto da Gianni Loy (qui la pagina Facebook del film), sarà presentato al Marché tra gli otto titoli della casa di distribuzione filogay The Open Reel col titolo internazionale My Destiny.

lunedì 6 maggio 2013

io sono il vento.



Miele
id., 2013, Italia, 93 minuti
Regia: Valeria Golino
Sceneggiatura originale: Valeria Golino, Francesca Marciano
e Valia Santella
Ispirata al romanzo A Nome Tuo di Mauro Covacich (Einaudi)
Cast: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo,
Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco
Voto: 8.3/10
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Apparentemente basato su Vi Perdono di Angela Del Fabbro, come scrivono alcuni, l'esordio dietro alla macchina da presa di Valeria Golino, e dietro le quinte della produzione di Riccardo Scamarcio suo compagno, prende deliberata ispirazione dalla seconda metà del romanzino A Nome Tuo di Mauro Covacich, sempre Einaudi, senza dire che la Del Fabbro non esiste (ma Covacich sì) e lui è autore di entrambe le cose, e così mischia quei (sopran)nomi e queste ambientazioni per raccontare la storia (originale) di Irene, in arte Miele, che se si entrasse al cinema senza sapere in cosa consista quest'arte sarebbe ancora meglio, perché la Golino non ce lo dice subito, ci lascia aguzzare l'ingegno, stare attenti ai dettagli, e dopo una porta aperta e richiusa e un'istruzione data e una musica partita ci domandiamo: che è? In questo stesso modo farà poi tutto il film, intriso di una storia impeccabile che solo apparentemente è stata resa allo stesso modo, o forse lo è ma la troppa attenzione ci ha fatto sfuggire qualche dettaglio. Di Miele/ Irene cominciamo a sapere che va a Padova all'università (e ci va?), che incontra il suo professore per scrivere la tesi (e la scrive?), che è orfana di madre (morta per malattia?) e ogni tanto si reca in Messico (e gli altri lo sanno?) per comprare barbiturici per sopprimere i cani. E i cani, li sopprime?
La verità si mischia alle bugie che racconta e in un modo incredibilmente non didascalico, qualità che raramente appartiene al cinema italiano, e pezzi interi di trama non ci vengono dati, o ci vengono semplicemente abbozzati, com'è giusto che sia, e in un lasso di tempo abbastanza grande (abbastanza per includere più viaggi in America del Sud e uno ad Istanbul) Jasmine Trinca addobbata a Paola Cortellesi da giovane si sobbarca l'intera pellicola senza essere mai assente da nessuna scena. Il suo mestiere – che a questo punto non rivelerò – la fa sottostare a determinate regole di comportamento e segretezza, e nella sua tremenda solitudine (scalfita a volte da un uomo probabilmente sposato e molto spesso da canzoni di vario genere) si ritrova in case di sconosciuti ad assistere ad amori infranti, madri straziate, davanti a librerie piene di Einaudi e Adelphi (che appartengono, guarda un po', al presunto malato di AIDS gay la cui sorella, Iaia Forte, era stata incredibilmente più fuori luogo ne Il Volto Di Un'altra).
E la macchina da presa, e quindi la Golino, è sempre lì dove nessun altro andrebbe, o quasi; ora è traballante ora è ferma immobile, ora è commoventemente poetica e ora si avvicina al ghetto romano. Dall'altra parte del ciak, la Trinca va sempre benissimo e sempre è naturale ma quando ha troppe battute sale un tantino sopra il tono, al punto che ci sorprende nella delicatissima scena del vetro in discoteca, alla quale arriviamo subito dopo la prima morte volontaria: Io Sono Il Vento in sottofondo, un'anziana donna incapace di sostenere la malattia e il marito devoto a scartarle il cioccolatino preferito. Parrebbe una scena qualsiasi della seconda metà di Amour, ma sebbene non ci sia né un'intercettazione telefonica né un cane investito, forse per il modo in cui viene resa la vita di Irene forse per il rapporto burrascoso in principio con l'Ingegnere (magistrale Carlo Cecchi), ci viene da pensare a Film Rosso, con le stesse cose non viste (là era il fidanzato, qui la casa di lei) e con un finale poi non tanto diverso. Paragone superbo: nel senso che, sebbene imperfetto, Miele rappresenta esattamente il cinema italiano che non abbiamo più, e che grazie a Dio ci rappresenta nell'Un Certain Regard di questo Festival di Cannes.

domenica 28 aprile 2013

#Cannes66.



Manca poco meno di un mese all'apertura del 66esimo Festival del Cinema di Cannes che, sappiamo bene, si aprirà con la prima, ritardata di cinque mesi, de Il Grande Gatsby, ultima attesissima fatica del visionario Baz Luhrmann che eleva le tecniche del 3D ancora più in alto di Hugo Cabret e conquista i fan di Fitzgerald insieme a quelli di tutta una serie di cantanti (Beyoncé, Jay Z, Florence + The Machine, Sia, Lana Del Rey, Emeli Sandé, Jack White...) facendosi aspettare anche con una colonna sonora originale composta apposta (qui la preview). Dall'altra parte del concorso, in giuria, ci sarà a visionarlo la sua attrice-feticcio Nicole Kidman – per quanto possa essere “feticcio” un'attrice che ha fatto due film su cinque – ultima aggiunta alla serie già splendente di nomi (soliti) all'evento: Ang Lee che di qui passò con Motel Woodstock, Lynne Ramsay che due anni fa presentò ...E Ora Parliamo Di Kevin, il Cristian Mungiu due volte vincitore e ancora l'attore austriaco Christoph Waltz appena premiato col secondo Oscar, il francese Daniel Auteuil, Vidya Balan, Naomi Kawase. A sedersi sulla poltrona che l'anno scorso tra le polemiche e le approvazioni fu di Nanni Moretti, ci sarà questa volta Steven Spielberg che di presentazioni non ha certo bisogno, per un Festival strabordante che in occasione del numero 66 si celebra in locandina con un 69: Joanne Woodward e Paul Newman si baciano, molto prima che Spiderman li copiasse, sul set de Il Mio Amore Con Samantha di Melville Shavelson (1963), in uno scatto digitalizzato e ridisegnato dall'agenzia Bronx di Parigi che l'ha anche fatta muovere per lo spot ufficiale.
Due italiani nelle gare: il navigato Paolo Sorrentino, che dopo il successo de Il Divo e la fama ottenuta con This Must Be The Place torna a raccontare un pezzo d'Italia, di Roma in particolare, con La Grande Bellezza, ancora una volta dirigendo il camaleontico Toni Servillo (e Carlo Verdone e Sabrina Ferilli); e Valeria Golino, esordiente dietro la macchina da presa col duro Miele, storia dei malaffari gestiti da Jasmine Trinca. Ritornano poi i soliti festivalieri: Abdellatif Kechiche (Cous Cous, Venere Nera), Roman Polanski con una produzione francese che ovviamente presenzierà al posto suo, segregato in Polonia, il Nicolas Winding Refn miglior regista con Drive che torna a Cannes dopo aver reso un cult il suo scorso film, il super-prolifero Steven Soderbergh che si appresta a uscire nelle nostre sale con Effetti Collaterali ma che in Francia porterà la biografia di Scott Thorson Behind The Candelabra – e poi ancora gli osannati Alexander Payne (recente Oscar per Paradiso Amaro), i fratelli Cohen di Fargo con la storia dei fratelli Berkey nella musica folk degli anni '60 (saranno Carey Mulligan e Justin Timberlake), l'iraniano Asghar Farhadi maestro dietro Una Separazione e il François Ozon reduce dal successo di Nella Casa.
Fra le molte produzioni francesi e quelle americane, un altro attore e regista amato in patria, Guillaume Canet, compragno di Marion Cotillard, presenterà Blood Ties con un cast stratosferico che include Mila Kunis, Zoe Saldana, Clive Owen e ancora la coppia Cotillard-Schoenaerts di Ruggine E Ossa.
Dopo l'interruzione, le liste dei film in concorso, fuori concorso e la giuria; questo è il sito ufficiale.