sabato 3 maggio 2014

aspettando Godot.



Locke
id., 2013, UK/ USA, 85 minuti
Regia: Steven Knight
Sceneggiatura originale: Steven Knight
Cast: Tom Hardy, Olivia Colman, Ruth Wilson,
Andrew Scott, Ben Daniels, Tom Holland
Voto: 6.3/ 10
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Ivan Locke gestisce transizioni edili e si trova alla vigilia della più grande colata di calcestruzzo della storia europea – se si escludono le imprese militari. Europea perché ci troviamo in Inghilterra, nella provincia londinese: Locke guida a destra, e lo troviamo, dall'inizio alla fine del film, al volante. Esordisce dicendo, al telefono: «in un'ora e mezzo dovrei essere lì», e dopo tre quarti d'ora: «fra quarantacinque minuti arriverò». Tempo della storia = tempo del racconto. Quale sia la meta del viaggio, lo capiamo da una di queste conversazioni telefoniche che compongono il film: una donna – non sua moglie – sta partorendo e, tra complicazioni ombelicali e poca confidenza, necessita che il padre del bambino sia presente – e il padre è lui. Ma la meta, si scorge tra le righe, è in realtà un'altra. Perché domani Ivan non sarà in cantiere, non assisterà alla colata, non tornerà mai più a lavoro; non tornerà a casa per cena, a mangiare salsicce e vedere la partita coi figli, non consolerà la moglie appena avvisata del tradimento.
Di film di questo genere ne è pieno il mondo, in un mondo che tenta a tutti i costi di sviarsi dalla tradizione narrativa; il tema dell'auto riporta a Holy Motors e ancora meglio a Cosmopolis, l'unità di luogo e di tempo a Buried – che forse più di tutti si affianca a questo film; ma la prima cosa a cui ho pensato io, guardando, è stata Gravity. Anche lì avevamo due unità narrative e una quasi unica protagonista. E la mania del film da cassetta faceva, lì e qua, quest'operazione dialogica surreale: il protagonista, rimasto da solo, parla. Cosa che certo, potrebbe essere, ma non in questi casi. Sandra Bullock imitava il verso del cane convinta di non sentirlo mai più, Tom Hardy guarda lo specchietto e immagina il padre seduto dietro, a cui vomita insulti e rancori, del tutto didascalici visto che poi il tema genitoriale tornerà in una conversazione. Il telefono non smette mai di squillare: perché per tenere in piedi lo spettatore c'è bisogno del parlato, non sia mai un silenzio!, e in film di questo tipo, senza trama né luogo ma con personaggi che recuperiamo e lasciamo all'improvviso, bisogna che la sceneggiatura sia fortissima, che ci dica in pochi tratti cosa è successo, perché ha cambiato tutto (e qui è lo sceneggiatore di A History Of Violence). Le due donne e i figli e il collega di lavoro, perennemente in chiamata, purtroppo non rispondono alla naturalezza orale di cui ci sarebbe bisogno. Le conversazioni appaiono forzate, didascaliche, istrioniche, cariche di troppe informazioni («dimenticavo che a te non piacciono la Letteratura e il Teatro, tu sei un costruttore, non abbiamo nessun interesse in comune, siamo così diversi che mi sorprende che io sia rimasta incinta proprio di te», «sono nella nostra camera, al buio, mi sembra di non riconoscere tutte le nostre cose, tutto è cambiato, non mi sembra di parlare al telefono con te»), mentre il film pare sempre stia per darci qualcosa in più, qualcosa di nuovo, che non arriva mai. Vero è che la domanda «come andrà a finire» ci salta alla testa spesso, più d'una volta, mentre ci chiediamo: abbiamo capito bene?, ma è vero anche che, in attesa di questa fine, guardiamo sempre l'orologio, e aspettiamo che lui dica «arrivo tra un minuto» per sospirare di sollievo.

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