venerdì 17 aprile 2015

a domani.



Mia Madre
id., 2015, Italia/ Francia/ Germania, 106 minuti
Regia: Nanni Moretti
Soggetto: Nanni Moretti, Gaia Manzini, Valia Santella e Chiara Valerio
Sceneggiatura originale: Nanni Moretti, Valia Santella e Francesco Piccolo
Cast: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini,
Nanni Moretti, Beatrice Mancini, Stefano Abbati, Enrico Ianniello,
Anna Bellato, Tony Laudadio, Lorenzo Gioielli, Pietro Ragusa,
Tatiana Lepore, Monica Samassa, Vanessa Scalera, Davide Iacopini
Voto: 8.6/ 10
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Considerando La Stanza Del Figlio (dramma luttuoso che anticipa la freddezza con cui è trattato anche qui il tema) come uno spartiacque nella filmografia di Nanni Moretti abbiamo da quella parte il fervore politico, lo sperimentalismo, la non-narrazione, e da questa i film in cui rinuncia alla parte del protagonista ritagliandosi ruoli limitrofi ma mantenendo sempre quell'autobiografismo insito e necessario, Il Caimano e Habemus Papam: due opere che prendevano (di mira?) due altisonanti istituzioni, due personaggi più che pubblici, che finivano nella catastrofe, nell'apocalisse; a quattro anni di distanza dal secondo di quei due, l'apocalisse è nell'incipit e il personaggio che si prende (di mira?) non è pubblico ma intimo, famigliare. La madre del regista morì nel 2010, mentre lui lavorava al film che sarebbe uscito l'anno successivo passando, ancora una volta, da Cannes. Col gioco perverso del mantenere i nomi reali ai propri personaggi, di nuovo sceglie Margherita Buy e le infila i panni di se stesso: regista che sta girando un film sul precariato, sul lavoro dell'operaio, sui padroni stranieri acquista-fabbriche; i manovali assalgono la polizia e le transenne in quell'incipit-apocalisse di cui prima, occupano lo stabile, e si usa la controfigura di John Turturro nelle scene in cui non c'è da parlare, che si riveleranno una boccata d'aria per quello che verrà dopo. Boccata d'aria effimera: perché Margherita si lamenta di tutto, dell'incompetenza della troupe, della continua finzione della messa in scena, del pressapochismo del cinema italiano, dell'ubbidienza generale al regista, «che è uno stronzo a cui voi dite sempre sì». Intanto, a casa, ha un compagno che però lascia, continuando a vedere sul set, e al telefono una figlia che non ne vuole sapere di recuperare il 3 in Latino, e in ospedale una madre ricoverata per un male che non riesce a cogliere, che subisce interventi che lei non si riesce a spiegare: una elegante, favolosa, splendida Giulia Lazzarini, ex insegnante di Lettere e dignitosa fino all'ultimo momento, dalle cui labbra escono le parole di tutte le donne, sole, in ospedale: ma che con l'invecchiare diventano più intelligenti, perché hanno tempo per pensare, e non sceme come si crede. Margherita si sforza di essere presente nella fatica materna ma quando compra in rosticceria la cena vede che il fratello l'ha già preparata a mano, quando arriva in ospedale vede che lui è già seduto vicino al letto… Costretta alle riprese, maturerà un senso di colpa che poi sfocia in incubi, flashback, immagini più immaginate che accadute; si porterà il dolore dovunque, senza mai esprimerlo. «I figli prima aspettano che i genitori muoiano, poi si ricordano di loro e scrivono film, fanno libri» dice mia nonna – e in questo caso è così senza remore, l'espiazione di una colpa ingoiata per anni, il tentativo, almeno nella finzione, di mettersi dall'altra parte, di essere “il figlio presente”, perché Moretti/ Giovanni si ritaglia la parte di quello che si licenzierebbe pur di non abbandonare la madre. Un atto d'amore e di scusa, verso la famiglia prima e verso il cinema poi: croce e delizia, colpa dell'assenza e distrazione dal lutto. Perché l'intimità della sceneggiatura (firmata ancora una volta anche da Francesco Piccolo) si dipana pure nello strato del mestiere, di regista ma anche di attore, e pure in questo caso la posizione di Moretti è esterna: guarda dal di fuori e giudica attraverso le parole altrui. Le domande che Margherita regista pone, per esempio al direttore della fotografia nel primo assalto alla fabbrica («ma tu stai coi poliziotti o con gli operai?») o le indicazioni che dà senza che vengano colte («non voglio vedere solo l'operaia, ma anche l'attrice; tu devi stare accanto al personaggio») sono quelle di Nanni, che si ritrova a parlare una lingua sconosciuta a tutti i presenti. Per questo Mia Madre risulta “storia semplice” solo nell'apparenza. Basti pensare a quanto ancora non sappiamo nel finale: privati di quell'avvento apocalittico già citato, non vediamo l'esito del film, le conseguenze del lutto famigliare, ne siamo privati solo apparentemente perché tutto è nascosto dietro l'inizio di un pianto che si è trattenuto per 106 minuti che partiva dalla situazione domestica ma proseguiva impotente anche dentro l'impianto cinematografico, politico, sociale. Un dei nostri tempi.

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