lunedì 6 aprile 2015

PCT trekking club.



Wild
id., 2014, USA, 115 minuti
Regia: Jean-Marc Vallée
Sceneggiatura non originale: Nick Hornby
Basata sul memoir Wild: Una Storia Selvaggia
Di Avventura E Rinascita di Cheryl Strayed
Cast: Reese Witherspoon, Laura Dern, Thomas Sadoski,
Keene McRae, Michiel Huisman, W. Earl Brown,
Gaby Hoffmann, Kevin Rankin, Brian Van Holt
Voto: 6.2/ 10
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Prima parte: la Strayed. Ventisei anni, una madre morta di tumore, un matrimonio fallito, un aborto, un padre alcolizzato che non vede da anni, sesso con chiunque, eroina – passato vero (ma finto cognome) di Cheryl Strayed ante 1995: privata di qualsiasi preparazione sportiva, si lascia abbindolare dalla leggenda del ritrovare se stessi e parte per il Pacific Crest Trail, il sentiero delle creste del Pacifico lungo 2000 km dal deserto del Mojave fino al confine con lo Stato di Washington – lasciandoci dentro sei unghie a causa della strettezza degli scarponi. Sognava di scrivere (e nel film la cosa è accennata durante l'incontro con un giornalista che la scambia per una barbona) e lo farà arrivata a destinazione: un romanzo (Torch) e una rubrica di posta su un sito letterario (Dear Sugar), ma il memoir Wild arriva solo nel 2012, quando ormai è una serena moglie e madre.
Seconda parte: la Witherspoon. Miracolosamente quanto immeritatamente premio Oscar, a trentotto anni l'ex fidanzatina d'America Reese Witherspoon si dice «disillusa dalle offerte di lavoro», ripetitive, e si prende la rivincita dell'essere bionda per esprimere, «anzi estendere» se stessa: fonda una propria casa di produzione. Le passano sottomano due libri: il primo è Gone Girl, che produce e chiede di interpretare – ma Fincher le preferisce qualcuna di «glaciale e inaccessibile» con cui poi ha concorso all'Oscar; «in un altro momento mi sarei disperata. Ma avevo tra le mani Wild»: affida così la sceneggiatura allo scrittore british pop Nick Hornby (che aveva già adattato il memoir di An Education) e la regia al canadese Jean-Marc Vallée fresco del successo planetario di Dallas Buyers Club, già passato dagli Oscar con Incendies (da noi: La Donna Che Canta). «Ho dovuto insegnarle a farsi di eroina» dice la Strayed della Witherspoon, «pensavo che tutti gli attori conoscessero la tecnica»; perché l'autrice del soggetto è stata sempre presente durante la lavorazione della pellicola, e questo è stato un bene e un male.
Terza parte: il film. Un male perché per attenersi pedissequamente alla storia vera che sta dietro, ci si è dimenticati del fare cinema, per una volta, in eccesso. La storia comincia con Reese/ Cheryl che perde una scarpa in un dirupo, poi tenta di mettersi in spalla uno zaino che viene definito dagli uomini “il mostro”. Alla prima immagine comica che vediamo si susseguono tutta una serie di sventure (il gas non compatibile con il fornello, le unghie massacrate, la poltiglia fredda a tutte le ore) che vengono mostrate come il giusto rimedio per espiare le proprie colpe. Con parallelismi di suono, di sapore, di sensazione, Cheryl rivive il suo passato doloroso e dolorante, la malattia della madre, il freddo rapporto col fratello, i tradimenti del fidanzato – ma tutto didascalicamente, fino a quando la fatica del viaggio, il caldo, la mancanza d'acqua, la stanchezza per il cammino, anche dopo 500 km paiono una passeggiata – qualche sbuffo, un urletto – ma arriva sempre qualcuno in soccorso, un pacco pieno di roba in una delle tappe, e la redenzione è affrontata con spirito aulico, ad ogni sosta una citazione, moltissimi libri lungo il cammino di cui si bruciano le pagine già lette (unica trovata interessante). Alla storia troppo, eccessivamente personale si aggiunge un'interpretazione chiusa, algida, con cui è impossibile empatizzare per un personaggio indecifrabile a tratti, che risponde agli uomini in modo inaspettato e ha passato momenti della vita da rasentare lo zoo di Berlino, ora dispersi. La costruzione è pari pari quella di Dallas Buyers Club: finanche l'utilizzo del sonoro, fastidioso, accavallato tra una scena e l'altra, i fischi, gli stridii, e questo montaggio epifanico di scene microscopiche, ricordi evanescenti, con l'America di sottofondo in tutti i suoi stadi. Compare Laura Dern: pochissime scene, spesso di spalle, e tutti i difetti del film si confondono dietro allo stupore della sua candidatura all'Academy.

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