sabato 27 settembre 2014

il film italiano.



Erano: Allacciate Le Cinture di Ferzan Özpetek, Anime Nere di Francesco Munzi, Il Capitale Umano di Paolo Virzì, In Grazia Di Dio di Edorardo Winspeare (piccola perla pugliese del ritorno alle origini, alla propria terra, agli affetti), Le Meraviglie di Alice Rohrwacher, Song'e Napule dei Manetti Bros., Sotto Una Buona Stella di Carlo Verdone. Decidevano: Nicola Borrelli direttore generale Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Gianni Amelio e Gabriele Salvatores registi, Tommaso Arrighi e Angelo Barbagallo produttori, Maria Pia Fusco e Niccolò Vivarelli giornalisti, Barbara Salabè produttrice e Caterina D'Amico presidentessa della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia – tutti sotto l'ala protettrice e nella sede dell'Anica che ogni anno decide quale pellicola uscita nell'arco 1 ottobre/ 30 settembre sia la più meritevole per rappresentare il nostro Paese agli Oscar dell'inverno successivo. Fu così che cominciò la scalata de La Grande Bellezza l'anno scorso e ovviamente dopo che c'è andata bene nel 2014 ci diamo la zappa sui piedi nel 2015 mandando oltreoceano Il Capitale Umano: immensa pellicola di un Paolo Virzì completamente maturato dietro la macchina da presa, certo, ma anche un film “nostro”, come spesso si etichettano queste pellicole che mandiamo all'estero. Il microcosmo brianzolo, la parlata dei protagonisti, i riferimenti al governo e allo Stato saranno colti abbastanza da chi non vive in Italia?, basterà il giallo sentimentale a rendere credibile il film? Forse, visto anche il riscontro francese di Cannes, sarebbe stato meglio (ed ero certo che così sarebbe stato) optare per Le Meraviglie: pellicola intima e intimista, piccola e universale, delicata, che giustamente rispondeva alle immagini della Roma da cartolina dell'Oscar precedente. Ma c'è questo vizio di mandare e rimandare sempre gli stessi registi: come Emanuele Crialese che c'ha provato con Nuovomondo e poi con Terraferma, Virzì era già stato selezionato senza successo per La Prima Cosa Bella. Staremo a vedere: le nominations il 15 gennaio.

venerdì 5 settembre 2014

una frizione imperiale.



Colpa Delle Stelle
The Fault In Our Stars, 2014, USA, 126 minuti
Regia: Josh Boone
Sceneggiatura non originale: Scott Neustadter & Michael H. Weber
Basata sul romanzo Colpa Delle Stelle di John Green (Rizzoli)
Cast: Shailene Woodley, Ansel Elgort, Nat Wolff,
Laura Dern, Sam Trammell, Willem Dafoe, Lotte Verbeek
Voto: 4.8/ 10
_______________

Agli spettatori di tutto il mondo – spettatori di qualsiasi artefatto artistico, su qualsiasi supporto – bisognerebbe innanzitutto insegnare che: è molto più facile far piangere che far ridere, a far piangere sono buoni (quasi) tutti. Detto ciò, non ci si sorprende se Shailene Woodley (già celebrata e con una nomination all'Oscar per essere stata la-figlia-grande di George Clooney in Paradiso Amaro) alla fine della lettura dell'omonimo libro (edito in Italia da Rizzoli) (età media degli acquirenti: sedici) ha decretato: il ruolo è mio – e l'ha ottenuto; perché a far piangere son buoni tutti ma è facendo piangere che si vincono i premi, e lei questo Oscar lo vuole (è già data come candidata certa, e mancano quattro mesi). Ma non tutti gli spettatori del mondo lo sanno, come non sanno che l'aforisma “i funerali non sono per i morti, ma per i vivi” non nasce qua, e quindi se lo annotano sul cellulare prendendo il fazzoletto con cui tamponarsi il viso bagnato di banalità. In questo banale film di aforismi non manca nulla: la protagonista malata terminale con bombola d'ossigeno al seguito e tubo a metà faccia a rovinarle l'aspetto bellino e ammazzarle i sogni di limonare duro; due genitori insipidi che hanno passato le pene dell'inferno medico e che però sono entrambi magri, entrambi col maglioncino in casa, entrambi coi capelli appena fatti e nessuna imperfezione in faccia, entrambi accondiscendenti a lasciare la figlia con un maschio coetaneo in giro per Amsterdam; un gruppo di sostegno cattolico a cui lei – elevatasi sulla folla di altri malati per doti morali che non vediamo, almeno, non nelle due ore e cinque minuti di film – guarda con ghigno sprezzante; un fidanzatino diciottenne anch'egli più di là che di qua che la fa innamorare «come ci si addormenta: all'inizio piano piano poi profondamente» e che le dice ti amo, ti amo, ti amo, e a cui lei risponde anch'io, anch'io, anch'io; ma ricordiamo agli spettatori di tutto il mondo che: hanno lei diciassette e lui diciotto anni e la loro credibilità è pari alla mia che scrivo recensioni in un blog. Ciò esplode nei discorsi-seri-sulla-morte. Lui medita «sull'oblio» e cioè sul fatto che presto morirà e nessuno se ne ricorderà a meno che non passi alla storia perché i giornali ne parlino; lei si accontenta di essere stata speciale per uno soltanto e lo piglia per orecchie bevendo spumante – ma mai nessuno accenna al fatto che il desiderio di essere ricordati è semplicemente la paura di morire con un altro nome. Le stesse tematiche a casa si trasformano in spunti di riflessione intelligenti: una madre che non sarà più madre, o che lo sarà lo stesso, e che ha imparato dalla figlia a convivere con la sofferenza perché il mondo non finisce se finisce un suo solo elemento – ma sono battute di dialoghi mal recitati che sfociano poi sempre nel ridicolo o nel patetico, perché a far piangere sono buoni tutti a meno che non evitino il patetismo. Splende, ovviamente, tra Laura Dern aka Lynch e Sam Trammel aka True Blood, la protagonista Hazel Grace, che è sì brava ma lo è solo all'inizio, quando ci presenta il personaggio, ed è brava nelle piccole cose: negli sguardi sottecchi, nel modo di gesticolare, nei sorrisi trattenuti. È buono solo all'inizio tutto il film: quando con battute argute ci presenta tutta la situazione ironizzando, neanche troppo, sulla combriccola che poi seguiremo: un mezzo monco, un mezzo cieco e una mezza respiratrice che insieme «hanno cinque gambe, quattro occhi e due polmoni e mezzo», trio su cui si poteva lavorare ancora di più e ancora meglio per elevare d'intelligenza la pellicola, visto che di credibilità non ci si riesce. Splende dopo di lei la faccia tonda di questo Ansel Elgort, che sarà suo compare anche nel sequel di Divergent: labbra notevoli e solito addome glabro non eccessivamente scolpito, che sta molto bene in tuta. Condividono, oltre ai mali e alla morte imminente, la passione per un romanzo a base di cancro scritto da un tale (Willem Dafoe) che incontreranno e si rivelerà un burbero pagliaccio: indovinato!, ha perso una figlia per malattia. Ma il tocco da maestro di Josh Boone regista quasi esordiente (dopo l'uso di Bon Iver nella colonna sonora), terrorizzato di aggiungere o togliere immagini dal libro che «tutti hanno letto» e di cui riporta fedelmente persino i dialoghi, è la salita al calvario della protagonista, con la croce cristologica mutata in bombola dell'ossigeno, per le scale senza ascensore del più celebrato sacrificio della storia: quello di Anna Frank. Si concluderà con un bacio, e un applauso degli astanti. Bene: si può uscire dalla sala, ripensando a quant'era carino L'amore Che Resta.