martedì 22 aprile 2014
il coro degli alpin.
Piccola Patria
id., 2013, Italia, 110 minuti
Regia: Alessandro Rossetto
Sceneggiatura originale: Caterina Serra, Alessandro Rossetto, Maurizio Braucci
Cast: Roberta Da Soller, Maria Roveran, Vladimir Doda,
Mirko Artuso, Nicoletta Maragno, Diego Ribon, Mateo Çili
Voto: 7/ 10
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Questo film ci respinge: l'incipit non si spiega, la seconda sequenza vola sui tetti (tremendi) del Veneto profondo – capannoni industriali e casolari e campi, la lingua è stretta e chiusa e masticata da pochi, la musica è dei monti, delle tradizioni tirolesi, dei cori alpini dialettali. L'inizio di questo film ci avvisa che se non apparteniamo a quel mondo, ci spingerà dentro. Eppure poi, quando la telecamera scende tra le strade spoglie e la gente vestita male, in pantaloncini rossi da tuta e ciabatte con le calze, sui parcheggi di brecciolina bianca, ci accorgiamo che siamo dentro a qualcosa vicino al quale siamo passati, almeno una volta nella vita: quegli alberghi in superstrada, quelle fontane circondate da cartelli pubblicitari pacchiani, incrostati, mai rimossi per anni, i mercatoni di arredamento un po' fuori città, i piccoli paesi che sembrano periferie di niente. Ecco, qui, nell'albergo a quattro stelle Anteres, lavorano Luisa e Renata, le due ventenni della locandina, praticamente schiave tuttofare dello stabile: servono ai tavoli, svuotano e puliscono le stanze dopo il check-out. Si divertono a raccattare gli oggetti dimenticati dagli ospiti borghesi e sognano di essere come loro, di avere «i schei» come loro, i soldi, la parola che più frequentemente ricorre nel film. Cercano (e trovano) modi per guadagnare perché devono evadere, scappare e (ri)fare una vita daccapo, lontano da questo non-luogo a metà tra la città delle architetture cementifiche e la campagna del pollame sgozzato vivo. I modi che trovano per fare soldi è ovviamente un modo estremo, di natura ovviamente sessuale; una si fa stringere in balletti alla Antonioni senza spogliarsi e l'altra usa il moroso (albanese) per incastrare in un threesome un rispettabile ometto da ricattare. Parallelamente, scorre la condizione sociale: la paura dello straniero, l'esaltazione della patria, della regione veneta, della lingua antica, la cacciata dell'immigrato, le colpe che il genere deve prendersi in caso di furto o incendio. Bilal, il fidanzato di Luisa, e i suoi amici non italiani, diventeranno il fulcro dell'odio della famiglia di lei, in una seconda metà del film che si fa shakespeariana, con una sfiorata morte sbagliata. A interpretare i tre ruoli sono Maria Roveran, la silenziosa Roberta Da Soller che pare uscita dalle CocoRosie e Vladimir Doda – tutti attori emergenti e sconosciuti perché il regista Alessandro Rossetto, stimato documentarista, non si voleva staccare da quel genere pur approdando al lungometraggio di finzione. Ma la finzione è minima: la storia, dice anche lui, poteva svolgersi in qualsiasi città – e salta alla mente la Puglia degli anni '90 pure minacciata, ma meno violentemente, dello sbarco degli albanesi. In questo caso, le finestre del cinema si aprono su questa terra e questa ci raccontano, nel dettaglio del documentario, nello scorrere normale della vita: i soldi che non bastano a pagar le bollette, gli stipendi troppo bassi rispetto alle mansioni, le liti tra amiche di poche parole, le perversioni degli adulti dall'impeccabile reputazione. Dopo una lunga introduzione descrittiva, però, il film si stacca da se stesso e (grazie a Dio) procede più spedito verso un finale da thriller. Il montaggio è molto buono, merito anche delle numerosissime riprese che permettono, con tanti stacchi, di dare brio alla cosa. Eppure. C'è qualcosa che non torna. Forse perché pare di trovarsi su una nuvola, un altrove che non c'è, una scenografia metafisica e, come gran parte del cinema italiano indipendente, che non si cura dell'estetica nelle scene o nella fotografia – le vicende di questi piccoli umani sono tanto credibili quanto impossibili all'empatia. Non ci appartengono, le vediamo dal di fuori, e quando il film finisce, non sono più affar nostro: lo stesso comportamento che abbiamo con lo straniero.
epilogo con diluvi.
Noah
id., 2014, USA, 138 minuti
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura originale: Darren Aronofsky & Ari Handel
Cast: Russel Crowe, Jennifer Connely, Ray Winstone, Anthony Hopkins,
Emma Watson, Logan Lerman, Douglas Booth, Nick Nolte
Voto: 5/ 10
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In principio era Dio e il Verbo era presso Dio, che divise il buio dalla luce e venne sera e venne mattina: primo giorno. L'incipit più famoso del mondo (dopo quello di Anna Karenina), che non è questo, ci è riassunto nell'overture più brutta del mondo, che vorrebbe riassumere la grazia di Dio, il peccato originale, la morte di Abele, la stirpe di Caino, la malvagità insita nell'uomo. Ci rifaremo: dopo due terzi di pellicola (due ore e un quarto, che si basano sui capitoletti della Genesi che vanno dal 5 al 10 – per cui aspettiamo a parlare di «fedeltà al libro») l'invasato Noè (che nel film si chiama Noè ma non si capisce perché il film si chiami Noah) copre una coppa, la luce si spegne ed ecco ciò per cui vale la pena di pagare il biglietto: la ricostruzione di quei sei giorni più riposo, lo sviluppo dell'uomo, degli animali, la cacciata dall'Eden, i segni di cattiveria. Darren Aronofsky, a cui il successo de Il Cigno Nero ha dato alla testa (oltre che al portafogli) pare faccia l'occhiolino a chi, prima di lui, ha raccontato in una digressione la formazione dell'universo – ma The Tree Of Life lo faceva dal punto di vista scientifico; bizzarro: perché Malick dirigeva un film profondamente cattolico mentre Aronofsky è di educazione ebraica. Il tentativo di rimanere «fedeli al libro» lui e la solita sceneggiatrice Ari Handel lo mischiano a quello di voler raccontare in termini moderni la storia; storia che, come la Bibbia docet, è fatta di frasi secche e spesso criptiche. Certo non possono dare i seicento anni che ha, a Noè; gli danno una veste nuova – nel corpo di Russel Crowe che ben si riprende dopo le apocalittiche stroncature per Les Misérables. Questo Noè è un prescelto che si fa esaltato, un alunno che pretende di superare il maestro, un neo-despota cinico e cieco: la buona trovata di sottolineare l'agonia e la crudezza dello sterminio di tutti gli altri esseri umani viene da lui vissuta con totale freddezza, mentre i figli all'interno dell'arca si tappano le orecchie folli dal pietismo. L'arca ha una forma che non ci aspetteremmo – di palafitta, costruita insieme ai giganti di pietra figli più de Le Cronache Di Narnia che del Testo Sacro; all'interno si cela un nuovo barlume di Male: un tradimento, un ripescare il cattivo figlio Caino per evidenziare come, non importa cosa succeda, c'è sempre l'aspetto malvagio dell'uomo. La partecipazione quasi essenziale delle figure femminili è altro aspetto originale: Jennifer Connelly si ritaglia un paio di scene strazianti e Emma Watson diventa perno delle ultime sequenze (le divide col tenero Logan Lerman, con cui divideva già Noi Siamo Infinito), fatte tutte di una tensione da Gòlgota e una digressione di nove mesi (ma non piovve quaranta giorni?). Ciò che Aronofsky, nella furia da blockbuster, dimentica, però, è quanto assurdo sia l'annuncio di una fine del mondo quando il mondo era così giovane; un preannuncio della morte generale così tanto tempo prima della previsione, per esempio, Maya. Mario Brelich, teocratico nostrano che ha pubblicato vari saggi sul tema biblico per Adelphi, scrisse nel '79 un interessantissimo approfondimento di questo aspetto, Il Navigatore Del Diluvio (156 pagg., € 10,00); il regista di Pi Greco è interessato però non alla redenzione collettiva ma al kolossal fantasy che ormai è l'unico genere che fa cassa al botteghino. Se col Cigno Nero aveva magistralmente portato la macchina da presa sul palco, riprendendo le scene di danza nel modo che il musical non è solito proporre, facendoci girare attorno a Natalie Portman o addirittura starle alle spalle, e poi inquadrandola infoiata negli occhi spiritati, qui si concede qualche primo piano drammatico e poi si perde nel posizionare l'obiettivo, ora va in alto ora fa panoramiche cercando di copiare, ad esempio, le trovate sceniche de Lo Hobbit, ma senza riuscirci. Si aggiungono costumi improponibili. Peccato: un gran spreco di forze.
giovedì 17 aprile 2014
Cannes 2014 - news
Mentre aspettiamo la selezione ufficiale, sappiamo che sarà una donna a sedersi sulla poltrona del Presidente di Giuria per il 67esimo Festival di Cannes, che si svolgerà dal 14 al 25 maggio 2014 – e che donna: l'unica regista ad aver vinto la Palma d'Oro (per Lezioni Di Piano nel 1993) e l'unica ad aver vinto sia questa Palma che quella al cortometraggio (per Peel nel 1986 – ma guardate anche i Passionless Moments). La carriera di Jane Campion e Cannes, però, non si limitano a questo: dopo Bright Star in concorso ha ricevuto, l'anno scorso, il premio Carrosse d'Or dalla Société des Réalisateurs de Films, è stata giurata della Cinéfondation e del premio agli short films.
Ad aprire la kermesse (fino all'ultimo non si sa se in concorso o no) sarà Grace Di Monaco di Olivier Dahan, regista abituato ai biopic (è suo La Vie En Rose sulla Piaf, con la Cotillard prima francese a vincere l'Oscar per un film francese) con Nicole Kidman nei panni della protagonista – ma la famiglia della principessa ha già dato forfait in quanto la pellicola non rispetta l'immagine della diva; si aggiunge una diatriba tra i distributori USA e il montaggio del regista: ancora non si sa quale montaggio finale arriverà in sala fra tre settimane.
La sezione dell'Un Certain Regard sarà presieduta in giuria da Pablo Trapero, regista di Elefante Bianco in concorso due anni fa; il titolo più interessante di questa sezione parrebbe essere Party Girl, storia di una sessantenne da night-club ancora desiderosa di uomini e feste e adesso manager dello staff di un locale, che sente arrivare la fine della vita; sposerà un cliente abituale. Nel ruolo della protagonista la vera Angélique di cui si parla – una pellicola-realtà che ricalca il bel Gloria cileno. Sempre in questa sezione, per l'Italia (celebrata nel poster ufficiale con il Marcello Mastroianni di 8 1/2) si parla di Asia Argento, regista di Incompresa, in cui dirige Charlotte Gainsbourg e Gabriel Garko; si parla di Alice Rohrwacher, già passata di qui col meraviglioso Corpo Celeste, e in questo caso autrice de Le Meraviglie, interpretato dalla sorella Alba e Monica Bellucci; e poi si parla di Daniele Ciprì, direttore della fotografia passato alla regia con È Stato Il Figlio premiato a Venezia e in post-produzione de La Buca, con Rocco Papaleo e Sergio Castellitto.
mercoledì 16 aprile 2014
le scatole di latta.
Grand Budapest Hotel
The Grand Budapest Hotel, 2014, USA/ Germania, 100 minuti
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura originale: Wes Anderson & Hugo Guinness
Basata sull'opera di Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Jude Law, Tony Revolori,
Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Jeff Goldblum,
Jason Schwartzman, Saoirse Ronan, Léa Seydoux, Owen Wilson,
Harvey Keitel, Tom Wilkinson, Tilda Swinton, Giselda Volodi
Voto: 7.7/ 10
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Il regista più amato dai giovani hipster di tutto il mondo, dai vintage-addicted, dagli indie-lovers, torna al cinema e riempie le sale di queste suddette persone (ma chiedete loro in quanti hanno visto Steve Zissou) e non c'è da meravigliarsi se si sentirà dire tra i corridoni «è la rinascita di Wes Anderson», perché il mondo si divide tra chi il-miglior-film-è-Moonrise Kingdom e chi non-m'è-piaciuto-per-niente, ma a noi tutto ciò non importa: guardiamo il film chiedendoci come inizi – perché di Moonrise c'èra rimasto impresso l'incipit, o meglio l'overture: un bolero in crescendo di musica e rigore tecnico, un rigore che sfiora l'ossessione, il barocchismo; ma qui di questo avviso non c'è bisogno: lo sappiamo così tanto (noi e i giovani indie in sala) che il furfantello ci spiazza con una struttura narrativa a scatole cinesi di cui non capiamo niente (all'inizio). Si aggiungono dei cartoncini che fanno skyline e fondali, macchinine-ascensori che salgono: tutto è finto, la facciata dell'albergo/ casa delle bambole intonso, rosa shocking, facciata da cupcake di Marie Antoinette, sono finte le perenni doppie scale, le tappezzerie immacolate, le immacolate moquette – fino alla macchina da presa, che come previsto è un'esplosione di simmetrie, carrellate laterali, asse fermo o binari dritti. Tutto è ripreso dalla stessa altezza da terra e le poche volte che vediamo un primo piano decentrato, un'immagine dall'alto, pare di respirar di sollievo perché ci sentiamo umani. Perché da I Tenenbaum ad oggi la particolarità stilistica del regista amico dei Coppola è diventata un'angoscia, ciò che ci aspettiamo di trovare, ciò che pretendiamo, insieme a una cura maniacale del dettaglio, delle scene, dei costumi – insieme a un cast immenso, variegato, ripetitivo con grazia.
Qui tutto rispetta il canone, pur'anche la trama, che non ve ne accorgete ma è sempre la stessa: una routine, il desiderio d'interromperla o l'accidente, la tensione della fuga, la gioia finale. Lo era la giovanissima coppia di Moonrise e lo erano George Clooney e Meryl Streep in Fantastic Mr. Fox – a cui forse questo film è profondamente legato, ricalcando le costruzioni sceniche del videogioco, le avventure piatte, le slitte (fintissime) che saettano in bivi innevati. Lo era Il Treno Per Il Darjeeling, col suo esotismo indianeggiante che pure qui ricorre in un co-protagonista alla Millionaire (Tony Revolori): si chiama Zero Moustafa, ha frequentato scuole e lavorato in alberghi ma le sue credenziali sono nulle per entrare nel Grand Budapest Hotel, il luogo dove tutti, nella Repubblica di Zubrowka, vorrebbero lavorare, dove Ralph Fiennes lavora: finissimo capo-personale con un debole per le anziane bionde, si prende cura dello stabile e dei suoi ospiti facendo brillare il tutto a nuovo, meritandosi l'eredità di Tilda Swinton (ancora più irriconoscibile che in Snowpiercer e miseramente ritagliata nei primi cinque minuti) che include un quadro rinascimentale di un Ragazzo Con Mela per il quale entrerà e uscirà dal carcere. Ma torniamo all'inizio: la struttura narrativa prevede una ragazzina che davanti alla statua in memoria dell'autore legge un libro che racconta di un incontro tra un anziano (F. Murray Abraham) e un giovanotto (Jude Law) a cui il primo racconta la storia di come ha ottenuto l'albergo. Il tutto impiega i primi trenta e gli ultimi quindici secondi per dipanarsi: un peccato, considerando le digressioni, per esempio, sul viaggio senza ritorno di Law totalmente inutili alla narrazione. Come gran parte dei personaggi che si susseguono in un vomito: Bill Murray è una specie di allucinazione, Owen Wilson pure, Jason Schwartzman già si stanzia più a lungo – a noi italiani dovrebbe saltare agli occhi Giselda Volodi, relegata in piccole parti (È Stato Il Figlio, Il Comandante E La Cicogna) e qui presente per l'internazionalità dell'opera (girata a Berlino e macchiata dai francesi Mathieu Amalric e Léa Seydoux).
Ma come si può non voler bene a tanta tradizione narrativa infantile, tanto amore per la sartoria di cinquant'anni fa, tante stanze ricreate con minuzia? L'intento era ricucire i ricordi di Stefan Zweig, autore di Lettera A Una Sconosciuta. Ma lui era europeo negli anni '30; Anderson è americanissimo e semplicemente nostalgico dei biscotti nelle scatole di latta.
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sabato 5 aprile 2014
persona.
Ida
id., 2013, Polonia/ Danimarca, 80 minuti
Regia: Pawel Pawlikowski
Sceneggiatura originale: Pawel Pawlikowski & Rebecca Lenkiewicz
Cast: Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska,
Adam Szyszkowski, Halina Skoczynska, Jerzy Trela
Voto: 8/ 10
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Credendo di chiamarsi Anna, l'impronunciabile Agata Trzebuchowska tutta occhi in un viso d'angelo siede di fronte alla Madre Superiora in attesa di prender voti, dopo aver consumato la minestra a cucchiaiate silenziose nella sala comune, dopo aver issato la nuova statua del Cristo fuori dal convento, tra la neve. La Madre le dice: non dovresti prendere i voti senza aver prima conosciuto la tua unica parente, tua zia Wanda – che non ha mai conosciuto perché, persi entrambi i genitori, è stata affidata all'orfanotrofio che l'ha cresciuta casta e convertita al cristianesimo. Perché Anna in realtà si chiama Ida, Ida Lebenstein, ebrea figlia di ebrei morti durante la Guerra e nipote di un magistrato connivente con il regime comunista, capofila del governo degli anni '60. Per Anna/ Ida questa non sarà l'unica novità. L'incontro con la parente le aprirà un mondo che non si aspettava di trovare fuori dal convento: oltre alla guerra spenta e alla politica, scoprirà le radici familiari recise alle quali cercherà di mettere rimedio visitando i luoghi in cui i genitori sono vissuti, conoscendo le persone che li hanno aiutati, seppellendo le loro ossa. Scoprirà poi quanto un'animo umano, un'animo femminile, possa sopportare, in una sceneggiatura assolutamente priva di retorica che mette in bocca a Wanda (Agata Kulesza) esattamente il necessario da dire, per farci capire, ad esempio, che ha perso un figlio. Zia e nipote sono due mondi lontani: vergine una, devota agli uomini l'altra; chiusa e silenziosa una, navigata e coltissima l'altra. Eppure i mondi si sfiorano, perché nel vuoto paiono entrambe cariche di una tristezza che le accomuna: che sia la disillusione verso il mondo, verso i cinquant'anni passati lontano da una figura sentimentale, verso l'accettazione di un velo che arriva senza conoscere le altre opzioni. Il road-movie fermo, il romanzo di formazione prosegue spostandosi poi sulla figura che dà il titolo alla pellicola, che viene spodestata per la prima metà: Ida imparerà a conoscere le scarpe col tacco, le danze al centro dei locali, i ragazzi gentili. Le servirà ogni esperienza di donna prima di decidere se tornare o meno all'abito monacale – in un finale che ricorda il cerchio chiuso e riaperto de Le Notti Di Cabiria. Niente patetismi, solo poesia: le inquadrature sono calibrate e pensate in fuochi e fuori-fuochi che, aiutati da una fotografia splendida, paiono quadri in successione. Si aggiunge un formato 4/3 nostalgico come i suoi colori, muto come la colonna sonora. Una piccola perla che non dura più di quanto deve, che ci mostra quanto serve ma che nasconde molto di più, un'altra prova di conoscenza estrema della figura femminile, in tutte le sue sfaccettature, dal regista di My Summer Of Love Pawel Pawlikowski che pure là si era servito della doppia figura in antitesi, un po' bergamniana. Passato con felicità dal 31esimo Festival di Torino a dicembre, è – come tutte le cose belle – in pochissime sale.
the reader.
Storia Di Una Ladra Di Libri
The Book Thief, 2013, USA/ Germania, 131 minuti
Regia: Brian Percival
Sceneggiatura non originale: Michael Petroni
Basata sul romanzo omonimo di Markus Zusak (Frassinelli)
Cast: Sophie Nélisse, Geoffrey Rush, Emily Watson,
Nico Liersch, Ben Schnetzer, Oliver Stokowski, Roger Allarm
Voto: 6.8/ 10
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Prendete un libro che ha venduto otto milioni di copie in tutto il mondo – non è una sorpresa così grande, che presto diventi film; mettetelo in mano a un regista, Brian Percival, autore di quella telenovela che è Downton Abbey, bella di costumi e di interpretazioni, e abbassate le aspettative, perché quando gli ingredienti promettono troppo ci pensano le case produttrici a intervenire. In questo caso è della Fox 2000 la colpa, che memore del successo di nomination all'Oscar per War Horse si inginocchia al pacchetto-Disney e mette i fiocchi a una storia di guerra zuccherina traslando anche una delle attrici di punta, Emily Watson, che qualunque cosa faccia resta sempre la-pazza-de-Le Onde Del Destino. Lì si parlava del legame (di sangue?) tra un cavallo e il suo padroncino, costretti uno a partire per la guerra e l'altro ad essere trascinato a farla; si scambiavano fronti e s'incrociavano spesso, il tutto mentre USA e URSS si sarebbero dovute massacrare. Qui non va tanto diversamente: si restringe il campo, siamo solo in una cittadina, tedesca anche se gli attori parlano inglese (e che inglese: perfetta contaminazione germanica, meraviglioso accento), dove tutti si conoscono e impareranno a conoscere Liesel Meminger giunta da un treno in cui il fratellino è morto e la madre, ebrea, scappata. Sarà adottata dai coniugi Hubermann, e già da subito il genitore preferito è Geoffrey Rush, che le prepara in cantina un dizionario grande quanto le pareti. Al rogo dei libri proibiti dal nazismo, l'impulso spingerà la ragazzina a raccogliere dalle macerie un volumetto e farselo leggere dal papà di nascosto al sottoscala; lei, però, non è una “ladra di libri”: ne prende in prestito un paio, ne consulta molti, ricorda perfettamente i vocaboli che non ha mai sentito e li trascrive sui muri. La passione per le storie la porterà a conoscere la biblioteca di un bel palazzo, una donna che ha perso il figlio, un ebreo tenuto nascosto in casa che ama ascoltare. Ci ricorda un po' The Reader, senza il pathos irraggiungibile di quel magistrale film, dove l'analfabetismo non era punto di partenza della Letteratura ma ostacolo (in)sormontabile per raggiungerLa. Quella era una protagonista ladra di libri – nel senso che se li faceva leggere senza metterci dello sforzo; quella era una donna assetata di trame, desiderosa di evadere dalla propria condizione. Anche lì c'era la guerra, e allontanava le persone e le metteva a processo, se serviva. Qui invece è tutto un tornare e ritornare: dell'ebreo magicamente scampato, della libraia che parcheggia al punto giusto.
Lo zucchero della storia è logico: altrimenti non avrebbe venduto otto milioni di copie. L'autore Markus Zusak però, impegnato com'è nei suoi progetti da nemmeno quarantenne tra i suoi libri che legge e rilegge per anni, non si capisce come l'abbia presa: distaccatosi dalla stesura dei dialoghi (dell'horror-addicted Michael Petroni, autore anche de Le Cronache Di Narnia 3), aveva detto: «il mio romanzo sfiora le seicento pagine ed è piuttosto dark; so che per portarlo al cinema devo mettere da parte il mio ego: se il romanzo è “mio”, il film è decisamente “loro”» – e temeva di non veder rispettata la voce narrante della Morte, disgustata dal comportamento degli uomini durante il nazismo. Sotto questo punto di vista ha in realtà avuto la meglio: la voce fuori campo c'è. Ha ragione sul resto: leggere di una fiaba nella Guerra è un conto, vederla sullo schermo con dispendio di abiti, interni, panoramiche che dovrebbero rendere il tutto più credibile, è un altro.
venerdì 4 aprile 2014
hey Joe.
Nymphomaniac
id., 2013, Danimarca/ Francia/ UK, 118 + 123 minuti
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura originale: Lars von Trier
Cast: Charlotte Gainsburg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin,
Shia LaBeouf, Christian Slater, Sophie Kennedy Clark,
Jamie Bell, Uma Thurman, Willem Dafoe, Mia Goth
Voto: 6/ 10
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Che sia per un trauma infantile non ben identificato o per la solitudine dell'anima e l'incapacità di relazionarsi in modo (più) sano col prossimo, la dipendenza sessuale – ed eventualmente la competizione che ne consegue – è stata molto affrontata dal cinema degli ultimi anni. Shame forse raggiungeva vette maggiori, nel suo non svelare mai niente per intero e nel mostrarci una pudicizia inesistente tra un fratello e una sorella con problemi affettivi tra loro e verso gli altri. Lo Sconosciuto Del Lago si spostava su versanti omosessuali e sul genere thriller – che pure questo film infine tocca. Entrambi, e il secondo più del primo, erano abbastanza espliciti visivamente. Nymphomaniac però è diventato, grazie al suo furbetto regista, un caso mediatico prima ancora di avere l'uscita in sala. Gli italiani aspettavano trepidanti l'annuncio di una distribuzione nazionale per il film scandalo del millennio, le cui scene praticamente pornografiche erano state girate dalle controfigure di un cast stellare tutto nudo in locandina. Il furbetto di cui prima lancia on-line una foto di Charlotte Gainsbourg tra due omaccioni neri. Poi esce una clip di lei, da giovane, che gareggia con l'amichetta al maggior numero di uomini adescati in treno. Poi il film esce, diviso in due parti: operazione massima di furbetto marketing: «il pubblico non è più abituato a film di quattro ore» dice Lars von Trier; per cui il pubblico andrà a vedere mezzo film questa settimana e l'altra metà a fine mese, senza che nessuno dei due trovi un senso da solo. E senza scene di sesso esplicito se non per due inquadrature, senza la presenza costante di questo cast stellare promesso (nel primo film non compaiono Jamie Bell e Willelm Dafoe; Uma Thurman nel suo ruolo inverosimile ma comunque ben interpretato è solo all'inizio), e soprattutto senza una protagonista ninfomane: perché Joe (la Gainsbourg, che ricalca minuziosamente il testo della canzone dei Beatles), come la definiranno quando cercherà di curarsi, è una sex-addicted, una bambina prima e un'adolescente poi che è priva dell'educazione religiosa necessaria a provare il senso di colpa; figlia di medici e abituata all'anatomia umana dei manuali, ha un approccio molto meno sfacciato e provocante della sua amica B, ha orgasmi silenziosi e quasi ingenui, ha semplicemente la curiosità di provare tutto: il sesso di gruppo, il lesbismo, la frusta – e in quest'ultimo caso la goduria arriverà dallo stimolo del clitoride e non dalla condizione. Come le transessuali che ripetono continuamente di essere donne, Joe ripete di essere ninfomane, una persona cattiva, lo ripete a sé e all'uomo che la troverà per terra (Stellan Skasgård), stesa e tumefatta, in una quinta teatrale adibita a quartiere simil-povero di una città anglofona. Seligman (Skasgård) la porterà a casa, un'altra quinta teatrale spoglia, rivestita dagli oggetti che condurranno Joe alla narrazione divisa per capitoli della sua vita. Ecco, pare che von Trier sia arrivato al capolinea non solo della trilogia della depressione ma della sua filmografia intera: gli scenari alla Dogville, gli scompartimenti narrativi degli ultimi film, l'overture vuota in scena di Dancer In The Dark, il sesso violento di Antichrist e soprattutto, di Antichrist, la ripresa di una morte molto precoce. Tutti i temi cari al regista de Le Cinque Variazioni convergono in un'opera che non deve essere presa per la sua trama (anch'essa cara: Lars ha sempre sognato di aprire una casa di produzione di film porno di qualità, in quanto genere «maggiormente visto e peggio fatto») ma per il modo in cui è montata – e non a caso cito le Variazioni: il bianco e nero negli episodi tragici, il montaggio alternato e per concetti, le carrellate visive, le scritte sovraimpresse, l'uso di foto, della musica – ogni genere è buono nella conversazione tra Joe e Seligman che è retorica da manuale di Filosofia. Lei è impulso, corpo, vita (anche se la Stacy Martin che la interpreta da giovane è bella quanto moscia), voglia; lui è teoria, conoscenza, cultura, frigidezza. Non è mai stato con una donna e la credibilità è pari a zero, ancor meno di quando cita Fibonacci, riconosce le Sante, conosce il numero delle frustate a Cristo – ma è necessario per elevare le due persone a due Idee parlanti. Peccato che alla fine tutto si contraddica, come il film, che con uno scivolone di genere ci fa dimenticare – ormai abituati alla volgarità di dialogo – che siamo davanti a uno pseudo-porno.
martedì 1 aprile 2014
un amore perfetto.
Allacciate Le Cinture
id., 2014, Italia, 110 minuti
Regia: Ferzan Özpetek
Sceneggiatura originale: Ferzan Özpetek & Gianni Romoli
Cast: Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano,
Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Carolina Crescentini,
Francesco Scianna, Luisa Ranieri, Paola Minaccioni, Giulia Michelini
Voto: 6.9/ 10
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Gli anni Duemila: niente crisi e i caffè pagati in lire, la spensieratezza dei ragazzi che non pensano al precariato e gli studenti di Medicina che sognano la specializzazione all'estero come se fosse la più esotica delle fantasie. Lecce caput mundi, che splende nei fondali fuori fuoco di Ferzan Özpetek di nuovo, dopo Mine Vaganti, in terra salentina, ma questa volta senza imporre la (tremenda) parlata a nessuno dei suoi attori tranne Francesco Scianna che in Baarìa era siciliano. Viene da chiedersi perché tutta questa gente si sia spostata al Sud, tra toscani e napoletani e romani – aspetto surreale della commedia; non ne avremo risposta. In compenso ci viene regalato un primo pianosequenza da manuale: Kasia Smutniak cameriera al Bar Tarantola passeggia tra i tavoli e tra i colleghi Carolina Crescentini e Filippo Schicchitano le cui conversazioni ci fanno capire che: le ragazze sono fidanzate; la Smutniak sta con Scianna; la Crescentini non si sa con chi stia ma fa buon sesso; Scicchitano non sta con nessuno ma fa sesso occasionale con ragazzi conosciuti in chat – ed è lui il personaggio più riuscito del film, che incarna la solitudine del genere, l'amicizia fraterna non morbosa, l'incapacità di affrontare il dolore, la perenne speranza nel futuro. Usciamo dal locale che è già sera, e il locale è pieno. Prima di due ellissi molto ben fatte che caratterizzano un film altrimenti privo di nocciolo, la cui pecca più grande – oltre ad affrontare fiabescamente un paio di temi cari al film nostrano, soprattutto televisivo – è l'incapacità di incanalare un genere e restarci: si fa fresco calderone di giovinezze iniziali, di amicizie e condivisioni, di legami familiari surreali ma divertenti; poi si trasla e tredici anni dopo vede il problema dell'incomunicabilità di coppia che dopo Antonioni non dovrebbe toccare più nessuno, la crescita dei figli tra i litigi, l'assenza di lavoro, ma sempre accompagnati da uno stato di benessere (economico e affettivo) che ci fa stare un passo indietro dall'empatia. E poi ancora il dramma ospedaliero, la malattia che però non diventa mai invasiva, l'ironia di una compagna di stanza (immensa Paola Minaccioli) che ride della disgrazia – manco lei parla leccese. Effettivamente il preambolo era chiaro: raccontare un amore che non ha mai fine. E nei lassi temporali del suo formarsi, l'amore ha un velo di credibilità che poi perde, nonostante Francesco Arca faccia il lavoro al contrario: guadagna fiducia con lo scorrere dei minuti. Özpetek riprende il suo vecchio sceneggiatore Gianni Romoli (Harem Suare, Le Fate Ignoranti, La Finestra Di Fronte, Cuore Sacro, Saturno Contro) a cui aveva rinunciato per le ultime pellicole, ma non tocca grandi vette – a partire dal terribile e ingiustificato titolo. Riprende anche due aspetti a lui cari: le parenti pazze (Elena Sofia Ricci sempre uguale a se stessa e Carla Signoris sempre meravigliosa in qualunque ruolo) e i bambini dalla lingua lunga che più di tutti masticano gli errori della sceneggiatura (se avessi risposto così io, a mia madre, non avrei le dita per scrivere). Perde altre due cose a lui care: il cameo di Serra Yilmaz e la tavola imbandita. Vorrebbe affrontare i problemi mucciniani non dei trentenni ma dei quarantenni ma ogni tanto perde i pesi delle digressioni; alcuni personaggi scompaiono, alcuni sono troppo presenti. L'originalità del tema (e per una volta la musica!, dopo una serie di colonne sonore splendide – soprattutto quella di Andrea Guerra – continua il sodalizio col Pasquale Catalano di Mine Vaganti e Magnifica Presenza) non raggiunge il già imperfetto precedente film, sebbene il cast si faccia valere a partire dalla carinissima protagonista. Gli anni avanzano, ripeto, ma il migliore resta Un Giorno Perfetto.
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