Turner
Mr. Turner, 2014, UK/ Francia/ Germania, 150 minuti
Regia: Mike Leigh
Sceneggiatura originale: Mike Leigh
Cast: Timothy Spall, Paul Jesson, Dorothy Atkinson,
Marion Bailey, Karl Johnson, Ruth Sheen, Sandy Foster,
Amy Dawson, Lesley Manville, Martin Savage
Voto: 8/ 10
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Candidato a 4 Premi Oscar:
fotografia, scenografia, costumi, colonna sonora
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L'arte contemporanea si può così riassumere: Joseph Mallord William Turner con conseguenze, Marcel Duchamp con conseguenze. E molto prima che Marcel Duchamp abbandonasse la tela, William Turner «si congedava dalla forma», premonendo quello che avrebbero fatto gli impressionisti in seguito allo scoppio della fotografia e alla decadenza dell'arte accademica – ormai inutile rappresentazione del vero già rappresentabile. E il processo di anticipazione che ha portato Turner all'allontanamento delle barche vere, delle tempeste vere, è stato lento come il secolo in cui è vissuto, e puntellato da fattori umani che di volta in volta hanno contribuito a far esplodere l'impeto, a far emergere l'impulso, a superare lo scoglio. Ci viene presentato, all'inizio, come curioso esploratore di paesaggi, di mondi altri, sempre col taccuino in mano e sempre immerso nella natura quasi incontaminata illuminata dalla luce, dono del Signore che già produce metà dell'opera – ci viene poi presentato in un'altra veste, quella di figlio, figlio di William Turner sir., quasi devoto a un padre che è a lui devoto, una squadra vincente su più fronti, quello del commercio delle opere, quello della loro preparazione. E una domestica in casa, una «damigella», che nonostante la malattia all'epidermide galoppante sarà la testimone di tutta la narrazione. Turner ha due figlie che nasconde al mondo, non esige la solitudine per dipingere, considera quell'atto come l'ultimo di una lunga preparazione mentale; non vive nemmeno isolato dal mondo, anzi è socialmente inserito soprattutto nell'ambito pittorico, che gli riconosce il primordiale talento, fatta eccezione per quel Constable a cui viene data piccolissima parte e che rappresenta quel rivale “già battuto”, quel tentativo non completamente andato in porto di raggiungere gli stessi scopi. Timothy Spall vaga all'interno di paesaggi praticamente già dipinti, lavoro magistrale del direttore della fotografia Dick Pope (fedele al suo regista e già nominato all'Oscar per The Illusionist) che raggiunge vette cinematografiche esemplari, vaga alla ricerca di ispirazione continua soprattutto ora che la minaccia della camera sta incombendo su mestieri come il suo; vaga, grugnendo e borbottando e avendo amplessi come i maiali, alla ricerca di una trama che il film non ha, una vicenda narrativa burrascosa o sentimentale (eppure c'è una moglie teneramente conquistata) che il pubblico si aspetta, e che lo fa uscire dalla sala sospirando che «dal trailer sembrava più avvincente». Mike Leigh è un regista inglese sopraffino, accusato di andare sul set senza una vera sceneggiatura, di averci appena dato il minore dei suoi film – eppure all'interno di un percorso che spazia tra il passato e il presente, tra le famiglie e tutti gli altri tipi di relazione umana, tra le profonde depressioni e le felicità incontenibili, Mr. Turner trova il suo posto di animo pienamente analizzato, sviscerato dal profondo, e pretesto per raccontare una società che si muove più lentamente del suo spirito. Il pressappochismo della messa in scena è confutato dai movimenti di camera, dagli interni costruiti come nature morte, dai salotti, dai paesaggi cercati perché colossali. Eppure non si tratta di kolossal, non si tratta di un ampio budget; ma «eravamo ossessionati dai dettagli: i costumi (di Jaqueline Durran, Oscar per Anna Karenina, n.d.r.) sono repliche esatte del periodo e gli attori indossano perfino copie di mutande d'epoca». È curatissimo il linguaggio, è curato l'atteggiamento e il modo di dipingere di Spall, un atto viscerale, di cui sente l'esigenza anche colpito dalla polmonite, anche privato delle forze. Quello di Leigh è un profondo atto d'ammirazione verso un genio della sua terra e lo rende senza orpelli, senza romanzi. Ecco perché il pubblico in sala sbuffa dopo due ore: siamo lontani dagli alti e bassi di Frida o dai sentimentalismi alcolici de I Colori Dell'anima. Nella tradizione difficile, difficilissima della biografia d'artista, che quasi mai ha avuto ampio consenso (basti guardare ai due Caravaggio, al più recente film su Goya, a Big Eyes adesso in sala e ai futuri Mordecai ed Effie Gray), l'unico paragone che si può pescare è quel I Colori Della Passione, in originale The Mill And The Cross, che come questo si sforzava di rendere il mondo nel modo in cui il pittore lo guardava, di filtrare l'esterno attraverso i suoi occhi. Palma d'Oro al suo protagonista, che è il film, era già stato dimenticato e grazie a questi Oscar riportato alla luce.