venerdì 28 settembre 2012

Venezia 69: Kim Ki-duk.



Pietà
Pieta, 2012, Corea del Sud, 104 minuti
Regia: Kim Ki-duk
Sceneggiatura originale: Kim Ki-duk
Cast: Cho Min-soo, Lee Jung-jin
Voto: 8.5/ 10
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Venezia 69
Leone d'Oro al miglior film
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“Il diciottesimo film di Kim Ki-duk” si legge prima dei titoli di testa. “Il diciottesimo?” mi sono domandato. E quando sono usciti i precedenti diciassette? Del cinquantacinquenne regista coreano, in realtà, da noi sono arrivate a malapena sei pellicola (questa è la settima) di cui quattro sono passate in concorso a Venezia; e se aveva sfiorato il Leone d'Oro con Ferro 3 - La Casa Vuota, con questo Pietà lo conquista (molto molto facilmente) facendo battere le mani ai giornalisti una volta tanto contenti.
Leone d'Oro meritato, e non solo per celebrare una carriera famosa solo a pochi, a chi ha amato e consiglia Primavera, Estate, Autunno, Inverno... E Ancora Primavera e a chi apprezza particolarmente il cinema orientale; un Leone meritato perché finalmente si racconta una bella storia che ammazza nello sviluppo e nello svolgimento la sua banalità (vogliamo parlare dei due Leoni precedenti?).
Min-Son è un uomo non ancora fatto e compiuto ma che ha già in sé il seme dell'autosufficienza e della solitudine. Vive in una casa per una persona sola, senza ospiti né amici, e le donne (o gli uomini?, boh) gli vengono in sogno la mattina presto e senza nemmeno svegliarsi si masturba. Poi si sveglia e si pulisce. Poi si alza, e va a lavorare: nella Corea delle baracche di periferia, delle persone povere con le porte delle case di cellophane, dei negozietti di meccanici e metalmeccanici e fabbri va a riscuotere i debiti, i soldi prestati (da qualcun altro), che puntualmente questi poveretti non possono pagare. Lui, allora, passa dalle minacce alla violenza, e li rende storpi, mutilati, monchi, facendoli finire nei loro stessi attrezzi di lavoro, in modo da poter ricevere il sussidio per invalidità col quale possono pagare ciò che devono. A volte, li ammazza proprio. E lo fa davanti alle loro mogli, alle loro madri. È, insomma, una persona senza pietà, senza un briciolo di bontà o di gioia. A sua volta, il suo capo, colui che i soldi ce li mette, lo schiaffeggia in confidenza. E la causa di tanto male, di tanto dolore, potrebbe trovarsi nell'assenza della madre durante la crescita, che l'ha abbandonato quando lui era piccolo. La mamma, un'immensa Cho Min-soo, poi succede che torna, così, dal nulla, noi lo capiamo ma lui no, e quando anche lui lo capisce c'è la metamorfosi. Ha finalmente qualcuno, qualcuno a cui tiene, qualcuno che lo ami. Ma la madre non è tornata per restare. E non aggiungo altro.
Film di pochi personaggi e pochi ambienti e poche parole, tutto silenzi e sensazioni, viene un po' rovinato dalla telecamera a spalla che non sta mai ferma, anche nel massimo dramma traballa e si sposta un po' come vuole, ci regala zoom terribili per poi tornarsene indietro, quasi pare di essere in un proto-reality di Mtv, causa anche delle pelli liscissime dei personaggi, della fotografia algida e del fuoco sempre su tutto. Come al solito, coi film orientali, alcune pause e alcune risposte non ci appartengono e suonano istrioniche, ma ormai c'abbiamo fatto l'abitudine e neanche ce ne accorgiamo più.
Film meno silenzioso e sfiancante dei precedenti, anzi si fa guardare con foga di capire come andrà a finire, sebbene non ci sia niente in ballo. La Corea potrebbe rubarci l'Oscar?

giovedì 27 settembre 2012

ubriacarsi senza calorie.



Magic Mike
id., 2012, USA, 90 minuti
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura originale: Reid Carolin
Cast: Channing Tatum, Alex Pettyfer, Matt Bomer, Cody Horn,
Joe Manganiello, Matthew McConaughey, Olivia Munn
Voto: 6.9/ 10
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Esisteva un canale, su Sky, morto all'età di 14 anni, che si chiamava Jimmy, ed esisteva un telefilm, su quel canale di telefilm cult (dal geniale quanto irrintracciabile G-Spot al fenomeno gay anglo-americano Queer As Folk) che si chiamava The Strip. In quel telefilm succedeva che la protagonista, neo-quarantenne tradita dal marito e con figlia smart a carico (ciao, Gilmore Girls) decide di rinnovarsi e di rinnovare i propri giorni lasciando il mediocre lavoro e aprendo un locale di strip maschile, arruolando un esercito di tori da monta e di pollastre da uovo, e così ce la fa: ogni sera vanno in scena spettacolini, balletti, show tematici e colorati e urla femminee.
Tutto questo, viene adesso riproposto dall'idolatrato regista di Ocean's Eleven/ Twelve/ Thirteen che sposta questi manzi dalla televisione al cinema e li sceglie tra i migliori in Hollywood. Dall'uomo-lupo di True Blood (un incantevole e superdotato Joe Manganiello che nella prima scena in cui appare appare divinamente) all'uomo-bestia di Beastly (film che mi auguro non abbiate visto) passando per l'investigatore canterino Matt Bomer di Whtie Collar (e Glee) e l'investigatore ispanico Adam Rodriguez di C.S.I. (e Ugly Betty). Non ci sono, però, quarantenni frustrate e reinventate. C'è questa trama: un ragazzetto di diaciannove anni inizia a guadagnare molti soldi spogliandosi e strusciandosi e avendo diciannove anni fa un po' di cagate.
Vi aspettavate una storia più grassa? Approfondisco: c'è un ragazzetto di diciannove anni che non sa cosa farsene di sé e dei propri giorni e che va a lavorare dove capita in scarpe da ginnastica mentre la notte dorme sul divano della sorella. È estate, e siamo sulla costa, per cui la nudità e le ville con palme sono in una scena sì e una scena no a prescindere; aggiungeteci poi che siamo in mezzo a persone inspiegabilmente ricche (un muratore, un'amministratrice di infermiere) e il binomio si fa parola: invidia perché queste case esistono veramente, questi corpi esistono veramente, esistono davvero questi soldi, ma non esistono nelle nostre vite. Il ragazzetto in questione, una notte, cappuccio sulla testa e barba incolta, viene adescato da un collega piastrellista, questo Mike del titolo che in fondo protagonista non è, e insieme abbordano due pulcine, e se le trascinano nel locale di spogliarello dove il magico lavora “per arrotondare”, e guarda un po' c'è un buco da colmare, chi mandiamo in scena?, oddio cosa facciamo? E il diciannovenne sale. Impacciato e vestito male e con passi di danza «a cazzo di cane», ma ci fa vedere il culo e tutto trova un senso.
Presto detto, il lavoro è trovato. E al magico Mike non può non piacere l'unica ragazza che lo respinge, che guarda caso è la sorella del pischello.
L'esile trama sta in piedi perché in fondo è tutta verità: l'attore Channing Tatum, arrivato alla gloria grazie a Step Up in cui già gli ballavano tutti i muscoli, prima del grande salto al cinema di mestiere faceva davvero questo, si spogliava. Guadagnava, beveva, trombava, si impasticcava - prendeva il GHB, la vecchia droga da stupro che fa sballare senza calorie ma che, vi assicuro, non vi lascia così lucidi né nel camerino né sul palco.
Steven Soderbergh un giorno dice a Tatum: dovresti scrivere la tua storia e farne un film. Channing non la scrive (ma la produce) e Soderbergh finisce per dirigerla (quarto film in poco più di un anno). E la mano del maestro, si vede: inquadrature di corpi tagliati, pance, cosce, braccia; scene di dialoghi simultanei e sovrapposti con personaggi esclusi dallo schermo, mentre la camera è fissata in modo bizzarro. Una fotografia incantevole, irreale, luminosissima, e un buon montaggio sonoro. Ma, certo, è un film di puro intrattenimento che ahimè riempie le sale di ragazze e di gay - e infatti ha incassato un putiferio.
Potrebbe arrivare a qualche premio? Forse, per la coraggiosa interpretazione di Matthew McConaughey - che stiamo ancora aspettando in Killer Joe - che alla sua età si spoglia e si diverte con estrema dignità. Mentre Alex Pettyfer, alla sua età, cresce davvero bene.

lunedì 24 settembre 2012

Venezia 69: Daniele Ciprì.



È Stato Il Figlio
id., 2012, Italia, 90 minuti
Regia: Daniele Ciprì
Sceneggiatura non originale: Massimo Gaudioso & Daniele Ciprì
Soggetto: Roberto Alajmo, Daniele Ciprì, Miriam Rizzo
Basato sul romanzo omonimo di Roberto Alajmo (Mondadori)
Cast: Toni Servillo, Giselda Volodi, Fabrizio Falco, Aurora Quattrocchi,
Benedetto Raneli, Alfredo Castro, Pier Giorgio Bellocchio
Voto: 7.7/ 10
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Venezia 69
Miglior fotografia: Daniele Ciprì
Miglior attore emergente: Fabrizio Falco
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In una Puglia travestita da Sicilia (leggere il seguito per approfondimento) c'è un attempato popolano che passa le sue giornate in fila alla Posta in attesa del turno per non fare quasi niente, perché tra i sedili della Posta c'è sempre qualcuno ben disposto ad ascoltare una storiella. A questo signore dalla dizione quasi immacolata piace tantissimo raccontare aneddoti, e ce ne regala subito due. Del primo, non ho già più memoria; del secondo, se ne occupa poi tutto il film.
Negli anni Settanta travestiti da Novanta con qualche camicia in più e con assolutamente nessun ideale né nessun movimento politico né nessun interesse a qualcosa diverso dal campare, il camaleonte Toni Servillo si porta dietro padre e figlio per raccattare pezzi in rame da navi dismesse che potrebbero venir buoni. E mentre i suoi fanno poco o niente, il nipote acquisito Riccardo Scamarcio Jr carica furgoncini interi; lui, che ha vent'anni appena, è capace (chissà in che modo) di mantenere la famiglia intera, mentre Tancredi, il figlio di Servillo, che di anni ne ha ventuno, non è capace nemmeno di sintonizzare il televisore, di prendere due bulloni, di guidare una macchinina. Passa le giornate a reggere il moccolo facendosi mettere i piedi in testa quasi anche da sua sorella minore, la quale un giorno...
E dopo quest'accaduto, la famiglia di Servillo vive la magra e la grassa. Durante la magra, succedono cose di un folkloristico quasi felliniano, a cominciare da un elegante prestasoldi con alter-ego cameriere che ama la musica e le spiegazioni taciute, fino ai treni che passano nel bel mezzo dei discorsi e alla telecamera che va indietro, e poi ritorna. Durante la grassa, con duecentoventi milioni di lire in casa, la moglie di Servillo Giselda Volodi meno siciliana di tutte continua a condurre la vita di sempre tra la cucina e il salotto, con però in più uno specchio nell'ingresso, e il figlio Tancredi è sempre scemo, e il nonno sempre mezzo sordo.
E quando il racconto dell'attempato signore povero si interrompe nella Posta perché è il turno di Pier Giorgio Bellocchio di essere servito, quasi speriamo che il film finisca, ma grazie a Dio non lo fa: il monologo di Aurora Quattrocchi, lucidissima nonna di casa, vecchissima ma con tutta la parlantina dei vivi, vale quasi la pellicola intera. Al fattaccio, il secondo morto, trova subito una soluzione e un colpevole, e convince noi tanto quanto lui.
Si respira l'odore della salsedine di Terraferma anche se Palermo in realtà è molto lontana: non avendo dato il permesso di girare nell'isola, per paura di dover elargire anche fondi, la Sicilia è stata ricreata in accento e bagnasciuga sulle strade e le spiagge della mia Puglia - che pur di comparire in un film farebbe di tutto - e regista e produttori, alla prima palermitana, hanno esplicitamente dichiarato che «Palermo non merita neanche la nostra presenza». Daniele Ciprì, il regista e sceneggiatore, è anche direttore della fotografia, ed è anche direttore di fotografia in Bella Addormentata di Bellocchio (e di Vincere) e arriva in concorso a Venezia e nei nostri cinema per la prima volta senza Franco Maresco come co-regista. Il film, pare che voglia essere qualcos'altro, di altri tempi; si vede che Ciprì sa bene di cosa sta parlando (le scene apparentemente inutili della spiaggia e del bagno nel cinema, le urla per l'acqua che manca al balcone e per le scale, le bombolette scoppiate nei falò giù al parcheggio) ma pare anche che effettivamente qualcosa gli manchi, che sia incerto, e se non finisce con l'essere poco chiaro finisce con l'impazzire. E ci dona dei ralenty di cui faremmo volentieri a meno.

Venezia 69: Frédéric Fonteyne.



Tango Libre
id., 2012, Francia, 98 minuti
Regia: Frédéric Fonteyne
Sceneggiatura originale: Philippe Blasband, Anne Paulicevich
Cast: Anne Paulicevich, François Damiens, Zacharie Chasseriaud,
Sergi López, Jan Hammenecker, Corentin Lobet
Voto: 8.6/ 10
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Venezia 69
Premio Speciale della Giuria - Orizzonti
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Vince a Venezia 69 un premio minore di una sezione minore il più bel film presentato quest'anno al Lido: originale, drammatico, spassoso, ben diretto, ben interpretato, benissimamente montato e musicato. È un film che prende, che piace, che incanta, che sorprende, che strappa l'applauso alla fine sebbene poi, riflettendoci, si notato le imperfezioni.
Ma cosa importa; si parte già col mordente: una guardia carceraria prende lezioni di tango e al corso si imbatte in una intrigante donna silenziosa che già al primo giorno fa ritardo e che la telecamera proprio non vuole inquadrare. Ci balla assieme, e se lui è “tutto tecnica” lei è “tutto trasporto”. I due, poi, si incontreranno poco dopo in altra sede, perché lei andrà in prigione a incontrare un detenuto. Poi, chiederà di incontrarne un altro. Si porta dietro il figlio e col pargolo si divide tra un tavolo e l'altro, tra un uomo e l'altro, e se capiamo subito chi sia il padre del (bellissimo) fanciullo, non ci è mai chiaro perché la donna baci entrambi sulla bocca - o meglio, questa mossa la possiamo anche capire, ma l'amicizia fraterna dei due omoni allora su cosa si basa? Le lezioni di tango proseguono, l'iniziale sparatoria a rallentatore con musica bislacca continua a non trovare una giustificazione, e lei con la guardia carceraria che si chiama C.J. non ci balla più perché lui è un tipo bizzarro, oltre che pessimo danzatore, e i due mariti sono un pelo gelosi, e la guardia che se ne sta sempre zitta e buona non riesce proprio a non farsi scoprire mentre se ne sta ad osservare e spiare gli incontri programmati. Accecato dalla gelosia, allora, il marito 1 (il bravo Sergi López) cerca due argentini tra le celle e chiede loro di poter ricevere lezioni di ballo, ma questo gli ridono in faccia e dicono che no, non sono capaci, gli unici due argentini che non sanno ballare il tango. Ma poi succede qualcosa e si scatena il tormentone tra le gabbie, altro che “Waka Waka”, qua tutti i detenuti, come gli artisti di Cesare Deve Morire, trovano qualcosa con cui riempire i giorni e in cui mettere dell'impegno e pieni di daffare sgambettano e simulano cerchi, e ballano a coppie di uomini, tanto che male c'è?, così pare sia nato il tango argentino, agli albori.
Poi il film prende una piega bizzarra: tragica, ma non si smette mai di sorridere - e di ridere, in scenari di degrado come possono essere quelli della prigione e in coloratissime e contrastanti case. Con un finale alla Little Miss Sunshine.
Il generale Franco del capolavoro Il Labirinto Del Fauno continua ad essere cattivo ma un po' meno e più umano, più attaccato al figlio che (non) ha. Parla un impeccabile francese, nonostante sia spagnolo, ma all'occorrenza parla anche spagnolo, ed è circondato da francesi (per proseguire la tradizione de Le Donne Del 6° Piano), tra cui l'attrice Anna Paulicevich che è anche sceneggiatrice - oltre ad essere l'unica donna del film. A differenza di quest'ultima, esordiente, Lopez con Frédéric Fonteyne aveva girato anche Una Relazione Privata (1999) che l'aveva portato a Venezia in concorso e aveva fatto vincere la Coppa Volpi a Nathalie Baye.

i film italiani.



E festeggiamo il primo anno di vita di questo blog tornando a parlare di ciò per cui è nato: l'annuale Oscar al film straniero. Sebbene una prima lista di pellicole scelte dai Paesi diversi dagli Stati Uniti e dall'Italia sia già stata resa nota, ci soffermiamo sulla probabilità nostrana di tornare a calcare il tappeto rosso dopo sei anni di assenza. Era stata, infatti, solo La Bestia Nel Cuore, nel 2006, a riuscire a finire (chissà poi come) nella cinquina dei candidati di febbraio, passando anche la scrematura di gennaio, cosa che poi è successo a Tornatore con scarsi risultati. L'ultimo Oscar al film straniero che abbiamo vinto, poi, l'abbiamo ritirato nel 1999 - con una ormai epica passeggiata sulle spalliere delle poltroncine di Roberto Benigni - per La Vita È Bella, secondo dei film italiani più visti in Italia sovrastato da poco da Cado Dalle Nubi - e qui taccio.
Parlando di incassi, nell'elenco che la commissione dell'Anica ha resto noto e tra cui mercoledì 26 sceglierà il film che manderemo in America, il più visto è, sentite un po', quello di Verdone, già abbondantemente premiato ai Nastri d'Argento. Seguono Özpetek e Vicari, bocciati dalla stampa estera (a Berlino Diaz vinse un Premio del Pubblico ma fu criticatissimo dai giornalisti inglesi e tedeschi).
Stando al risultato al botteghino (operazione che ha fatto la Francia schierando il tremendo Quasi Amici), dovremmo quindi mandare oltreoceano per la prima volta una commedia pura e propria, che affronta sì un tema scottante e attuale come quello della crisi, ma che potrebbe fare la stessa fine de La Prima Cosa Bella (mandato due anni fa) dato che a noi piace parlare in toscano o in romanaccio per farci tre risate.
La mia speranza, è inutile pure dirlo, è stravolgere tutti e tutto con un film finalmente originale, diverso, non narrativo, sperimentale: il docu-fiction Cesare Deve Morire potrebbe sciogliere il cuore dell'Academy anche solo per l'età dei due registi. E magari ci scappa anche la nomination alla fotografia (come fu per Malèna, che ottenne due nominations tecniche tra cui la musica di Morricone ma non quella per il film in lingua straniera).
Troppo freschi sono i veneziani È Stato Il Figlio, Gli Equilibristi (che compare a sorpresa insieme a Là-Bas) e Bella Addormentata. Quest'ultimo, poi, risulta essere troppo italiano perché «è cruciale sapere qualcosa del caso Englaro» scrive il Variety. E troppo fischiato per un premio forse non meritato è stato Reality di Matteo Garrone, che arriva «troppo tardi a parlare del mito televisivo».
I dieci film selezionati per scegliere la pellicola da far concorrere alla nomination per l'Oscar al miglior film straniero, quindi, sono:

Bella Addormentata di Marco Bellocchio
Cesare Deve Morire di Paolo & Vittorio Taviani
Il Cuore Grande Delle Ragazze di Pupi Avati
Gli Equilibristi di Ivano De Matteo
Diaz. Don't Clean Up This Blood di Daniele Vicari
È Stato Il Figlio di Daniele Ciprì
Là-Bas. Educazione Criminale di Guido Lombardi
Magnifica Presenza di Ferzan Özpetek
Posti In Piedi In Paradiso di Carlo Verdone
Reality di Matteo Garrone

domenica 23 settembre 2012

Venezia 69: Rama Burshtein.



La Sposa Promessa
Lemale Et Ha'Chalal, 2012, Israele, 90 minuti
Regia: Rama Burshtein
Sceneggiatura originale: Rama Burshtein
Cast: Hadas Yaron, Hilda Feldman, Yiftach Klein, Renana Raz,
Ido Samuel, Irit Sheleg, Chaim Sharie
Voto: 6.6/ 10
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Venezia 69
Miglior attrice: Hadas Yaron
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Che locandina meravigliosa, eh? Quasi come la scena d'apertura: una ragazza e una signora, che poi scopriremo essere madre e figlia, in agitata attesa, sono al supermercato e si guardano intorno, scrutano, cercano, poi squilla il telefono, ricevono un'indicazione e vanno. E vedono. Se ne sta, vicino al banco frigo, un ometto, che a prima vista non si riesce a non ridere, per noi occidentali: rabbino con boccoli laterali e barba asimmetrica e cappella nera in testa. La ragazza quasi sorride, la madre pure, e se ne tornano a casa.
Si capisce, poi, che questo fanciullo che hanno spiato con attenzione potrebbe essere il futuro promesso sposo della donzella, che si chiama Shira e ha diciott'anni e un sacco di bei vestiti con femminei decori. Sarebbe, per lei, il primo coetaneo che le viene proposto. La regola del matrimonio, e del fidanzamento prima, prevedono adesso che i due si vedano, che si parlino, che poi decidano. Ma non c'è tempo, perché la sorella di Shira sta per partorire un maschio e le cose da fare sono molte; sono anche il doppio, poi, quando muore e lascia il bambino orfano e il marito vedovo. La famiglia di Shira interviene in soccorso al malcapitato dal nome Yochai, a cui viene consigliato di cercare un'altra moglie. La scelta potrebbe cadere su un'esterna al cerchio familiare, ma se poi questa prende marito e figliastro e se ne va in Belgio, da dove è venuta? La madre di Shira si preoccupa, e inizia a meditare: perché non Shira stessa? Alla ragazza, allora, verrà proposto e riproposto ma lei non sarà proprio convinta. Lui pare starci, il rabbino forse anche, ma il vuoto da riempire del titolo è troppo grande, troppe pretese, troppe aspettative, troppa rivalità con la pretendente. La scelta si fa da sola, alla fine, e da qui ne deriva l'immagine della locandina.
Con piccole incursioni di religiose richieste che mi hanno ricordato Il Padrino, quando una volta nella vita si può andare a chiedere un favore al pappone del paesotto, e il favore può anche essere un consiglio su un forno da comprare (momento geniale). Le pecche del film però sono due, e sono grosse: la più grande, è che oltre a questo tema, e a questa preoccupazione generale, nel film non c'è altro: non si mangia, non si beve, non si balla, non si suda, non si ride, non si pulisce la casa, niente. Tutto il santo tempo questi personaggi sono là ad arrovellarsi su questo matrimonio da fare, sulla futura sposa, su un altro pretendente, sul marito, sulla moglie. Non c'è altro pensiero al mondo. E la seconda pecca riguarda la fotografia; belli i fuochi e soprattutto i fuori fuoco, ma quanta luce, per la Madonna!, pare di essere in una soap argentina, tutta brillante, tutta luminosa, tutta raggiante, abbagliante, tendente al bianco.
La protagonista Hadas Yaron è quasi un'esordiente come la regista Rama Burshtein che è un'esordiente totale e dall'Israele con furore si aggiudica la Coppa Volpi per l'interpretazione femminile a primo festival. Cosa bizzarra, dato che ha la stessa identica faccia dalla prima all'ultima scena, fatta eccezione per un piantino finale.
Io questi giurati non li capisco proprio.

Venezia 69: Ulrich Seidl.



Paradise: Faith
Paradies: Glaube, 2012, Austria, 112 minuti
Regia: Ulrich Seidl
Sceneggiatura originale: Ulrich Seidl
Cast: Maria Höffstatter, Nabil Saleh
Voto: 7.8/ 10
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Venezia 69
Premio Speciale della Giuria
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Non fa in tempo a tornarsene in Austria da Cannes, dove era andato a presentare Paradise: Love, primo film di un'annunciata trilogia, che Ulrich Seidl deve subito ripartire per un altro festival, quello di Venezia, dove della suddetta trilogia è stato presentato il secondo capitolo (il terzo, in cantiere, annunciato per il 2013, andrà a Berlino? Sarebbe record). E se in Francia aveva solo seminato lo scompiglio venendo definito il più “scandaloso” film dentro e fuori alla gara (ma attenzione: c'era The Paperboy), in Italia non solo fa lo stesso, scandalizzando tutti, ma si aggiudica anche uno dei due secondi premi più importanti, quello della Giuria. Sarà anche stata una mossa per alleviargli il dolore d'oltralpe, ma è un premio che, a guardare i due film in sé, è tutto meritato. Primo, perché scavano a fondo di un animo umano, uno e uno solo, mostrando come e perché è giunto ad essere tale; secondo, perché con coerenza stilistica riesce a farsi riconoscere senza mai ripetersi. Mi spiego: le immagini di Paradise: Love, colorate, tagliate dalla luce a metà, sempre fisse e fissate in inquadrature lunghissime, erano rimaste impresse tanto quanto i loro contenuti, i balletti dei kenioti prostituti venditori di compagnia alle “suga mamas” formose e benestanti; in questo Paradise: Faith, dove non si esplora più il bisogno dell'amore ma la certezza di averlo, e la rassegnazione, la devozione totale all'ideale, quasi ossessione, la regia è sempre la stessa, simmetrica, fissa, a volte a spalla dietro a chi cammina, ma la fotografia riprende altri e più incredibili colori, più coerenti col sapore del tema, fatti di ombre e di luci divine.
Anna Maria lavora in ospedale come tecnico radiologo e riempie le sue giornate di contatto umano, contatto anche fisico, per aiutare il prossimo e intervenire nel suo male. Saluta il suo “capo” prima di andare in ferie, e gli annuncia che «resterà a casa». E in effetti a casa resta, a lavare scale e spazzare soprammobili e cantare alla pianola “Gesù è il Signor che passa in mezzo a noi”. Però poi esce, inforca un fagotto ed esce, prende il treno, arriva nelle periferie di Vienna, tra le case popolari e le baraccopoli degli immigrati, coloro che sono più deboli, e li aiuta, li mette in contatto con la Madonna e li rassicura, prega, insegna la devozione, la fede(ltà). Sono però ambienti particolari, e quando non sono bizzarri sono anche pericolosi, e noi che guardiamo ora ridiamo ora stiamo sull'attenti. Ogni volta Anna Maria però ne esce e torna a casa, e colma di tanto peccato si infligge punizioni corporali davanti al crocifisso per chiedere perdono per gli errori altrui. Scorrono così le sue giornate, mentre sua sorella Teresa è in Kenia a illudersi di essere desiderata, fino a quando non torna a casa, disabile e non più autosufficiente, l'ex marito musulmano. Lui rappresenta un'altra cultura, un'altra religione, ma è detestabile tanto quanto la moglie, anche se in modo opposto.
Ancora una volta, Seidl dirige egregiamente un'attrice formidabile, che per lui arriva a fare di tutto - come pure era stato per Margarete Tiesel. Maria Höffstatter non solo è azzeccatissima nel ruolo, volto e veste da catechista e capello démodé, ma arriva a farci dimenticare che siamo davanti a un'attrice e un personaggio perché, merito anche delle lunghe scene di dialoghi e liti domestiche, sembra di assistere di nuovo a un documentario. Attendiamo trepidanti l'epilogo Paradise: Hope in cui la nipote si abbandona al desiderio sessuale.

Venezia 69: Susanne Bier.



Love Is All You Need
Den Skaldede Frisør, 2012, Danimarca/ Svezia, 116 minuti
Regia: Susanne Bier
Sceneggiatura originale: Anders Thomas Jensen
Cast: Trine Dyrholm, Pierce Brosnan, Paprika Steen, Kim Bodnia,
Sebastian Jessen, Molly Blixt Egelind, Bodil Jørgensen
Voto: 5/ 10
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Togliete da Midnight In Paris la Francia, e togliete da Mamma Mia! la Grecia. Togliete poi, dal film di Allen, il ritorno alla Francia del passato e dei grandi scrittori/ registi/ pittori, e al film con la Streep la musica degli ABBA. Spero che ci sia da togliere anche gli incassi record di uno e dell'altro film. Poi mischiateli, e otterrete questa cosa, questa commedia romantica, che quando a Venezia l'hanno vista due non-critici hanno gridato al capolavoro, hanno cominciato a urlare: «geniale!», «avrebbe dovuto essere in concorso!».
Questo Love Is All You Need (a cui è stato tolto il punto interrogativo del titolo iniziale) è assolutamente l'anti-genialità. Mentre lo guardavo, mi dicevo: se alla fine 'sti due non si mettono insieme, gli dò la sufficienza. Guardare il voto per capire l'esito. Non sto facendo dello spoiler, eh, anche perché non ce n'è assolutamente bisogno: basta che la protagonista femminile, la brava Trine Dyrholm, scossa ma poi non troppo dal tradimento del marito, che ama e che venera e che se la spassa sul divano con la contabile dell'azienda, vada a schiantarsi con la macchina in modo patetico sul Mercedes del ricco Pierce Brosnan proprietario di una ditta che smercia frutta e verdura, basta questo scontro/ incontro, dicevo, per capire subito come finirà, perché nonostante dietro alla macchina da presa ci sia il premio Oscar Susanne Bier (per In Un Mondo Migliore, edizione 2010, e notare la grandezza del suo nome in locandina, più grande del titolo), appena uno cala il piede nel posso della commedia romantica si rovina la carriera. Brosnan parla americano, suo figlio parla inglese e tutti gli altri parlano danese, e si capiscono!, e io mi chiedevo: ma... perché? Qua c'è puzza di attore americano preso d'amblè. Il mistero non ci viene svelato. Su Brosnan, poi, c'è il fantasma della moglie morta in un incidente e quello di una cognata fin troppo viva (Paprika Steen, uno spasso), che lo brama; sulla Dyrholm c'è una malattia terminale trattata come in un Harmony, che non volge mai al peggio, e una parrucca che copre la chemio, mentre un figlio va in guerra (per tre giorni) e una figlia va in Italia (per sposarsi). E indovinate chi è il fortunato. Ma il figlio di Pierce, ovvio, e allora ecco tutti i personaggi riuniti per una settimana di festeggiamenti in questa villa con acri e limoneti che al minuto 00:10 è completamente marcia, sudicia e vuota, priva di mobilio e luce elettrica e al minuto 00:27 è miracolosamente arredata e sforzesca, piena zeppa di cibo e bevande e sedie e camere per gli ospiti. Ma sono persone ricche, per cui tutto è giustificato. Sono, anche, ricchi di dubbi: i novelli sposi non scopano perché lui cela un'ambigua attrazione (che ci è chiara da subito ma la regista non lo sa); la madre della sposa non riesce a riempire di pugni il marito che si porta dietro la nuova fiamma; il padre dello sposo che ha sempre voluto restar da solo inizia a sentire il ritorno dell'amore.
Non nego che, ogni tanto, a qualche battuta si sorride, ma poi parte “That's Amore” e ci chiediamo: in quanti altri film ambientati in Italia dobbiamo ancora sentirlo?, quante altre volte dobbiamo sentire questa canzone mentre sullo schermo c'è una pizza?
Quanta banalità, quanti cliché, anche questa volta, anche in questo film. Ha fatto benissimo il nuovo direttore a metterlo fuori concorso perché già Venezia 69 odorava di troppa mediocrità.

Venezia 69: Olivier Assayas.



Après Mai
id., 2012, Francia, 120 minuti
Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura originale: Olivier Assayas
Cast: Clément Métayer, Lola Creton, Felix Armand,
Carole Combes, Mathias Renou, Léa Rougeron, Martin Loizillon
Voto: 7.2/ 10
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Venezia 69
Migliore sceneggiatura: Olivier Assayas
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In questo festival veneziano fatto di film del tutto privi di trame o storie forti non poteva non scappare il più forte applauso (secondo solo a Pietà) per una pellicola che almeno giustifichiamo nel suo impianto narrativo: Après Mai, titolo bellissimo ed evocativo, ci racconta qualcosa in particolare, e cioè la storia di un gruppetto di ragazzi e qualcuno dei loro amici, ma ci racconta soprattutto una storia generale, ben più grande, quella degli anni '70 in Francia e nell'Europa intera, nelle scuole e nelle case e nelle strade. In questo, si fa impeccabile: perfette scenografie e meravigliose ricostruzioni, identiche monete, identici vestiti, capelli, fumi delle droghe, corpi nudi, musica, aspirazioni artistiche e debolezze psicologiche, ché il premio più meritato sarebbe stato appunto quello tecnico, e non quello all'inesistente sceneggiatura.
Anche se si percepisce poi quale potrebbe essere l'obiettivo del film: mostrare come si viveva in quegli spensierati anni in cui si sceglieva se aderire o meno alla corrente libertina, politica o naturalista, sempre però con la latente e amara consapevolezza che i giorni della quiete prima o poi avrebbero raggiunto la fine, e allora che fare?
Il protagonista (più protagonista degli altri) Gilles (l'azzeccato Clément Métayer) è un esempio in questo: vede la sua fidanzata scappare per inseguire un fuoco fatuo di sogno in Inghilterra e inizia a domandarsi cosa farne di se stesso. Partecipa alle riunioni comuniste, alle proteste, agli atti vandalici (pacifici) ai danni di palazzi e facciate di casermoni, stampa a ciclostile riviste e manifesti da lanciare in aria per smuovere l'opinione pubblica e le masse, ma in fondo una strada non ce l'ha: a casa non si trova bene, e infatti ci passa meno tempo possibile (meraviglioso il dialogo col padre, autore delle trasposizioni cinematografiche di Simenon), e fuori non sa dove andare. Gli viene in soccorso la faccia-da-pesce-lesso di Lola Creton che avevamo lasciato nel surreale Un Amore Di Gioventù e ritroviamo papale papale, forse leggermente meno sbarazzina, che lo trascina in Italia per assistere a un documentario politicizzante. Gilles allora è a metà tra l'amore per il disegno, astratto e non, e quello per il cinema sperimentale, e passa giorni interi con altri amici ad acquerellare bassorilievi di grotte e catacombe e guardare pellicole e leggere saggi pesantissimi.
Si salta senza un ordine da un personaggio all'altro, da una storia all'altra, e si procede per immagini apparentemente fini a loro stesse, che dopo due ore di film forse fini a loro stesse lo diventano: amori che vanno e che vengono, persone che partono e non tornano, lettere inviate, uomini persi, e poi ritrovarsi notando che niente è cambiato, imbrattare ancora i muri, lanciare sassi ai fascisti. Non si fatica a capire che dietro tutto ciò c'è dell'autobiografia, dell'intimismo che si ritrova dopo il successo internazionale avuto con la miniserie Carlos che ha portato Olivier Assayas ai Golden Globes, agli Emmy, agli European Film Awards. A Venezia non c'era ancora stato, e se ne va dal Lido a testa alta. Per quanto riguarda la critica.

Venezia 69: Manoel De Oliveira.



Gebo E L'ombra
O Gebo E A Sombra, 2012, Francia/ Portogallo, 95 minuti
Regia: Manoel De Oliveira
Sceneggiatura non originale: Manoel De Oliveira
Basata sullo spettacolo teatrale omonimo di Raul Brandão
Cast: Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Janne Moreau,
Leonor Silveira, Ricardo Trepa, Luís Miguel Cintra
Voto: 5.9/ 10
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Alberto Pezzotta, giornalista cinematografico del Corriere, abbiamo capito che De Oliveira lo ama proprio. Oltre ad avergli dato un putiferio di pallini sul quotidiano per Singolarità Di Una Ragazza Bionda (che noi invece abbiamo approvato a malapena), nella presentazione che ha fatto di questo Gebo E L'ombra all'anteprima milanese si è proprio sprecato in complimenti: «De Oliveira, con incredibile lucidità, prende un testo del '29 e lo adatta; fa un film di economia e di personaggi che restano nella memoria, che va visto e rivisto, come Singolarità, apparentemente semplice ma in realtà molto profondo».
Allora, la profondità de La Ragazza Bionda noi ancora non la troviamo (lui si innamora di lei guardandola dal balcone, le chiede la mano, lavora per sposarsi, lei ruba un anello, lui la molla), e la profondità di questo film è ancora meglio nascosta: Gebo è un vecchio contabile che conserva una valigetta piena di denaro e un libro di fogli bianchi su cui scrive e riscrive conti e operazioni che appartengono a qualcun altro, a un'altra famiglia; l'“ombra” del titolo è suo figlio, si suppone, il ribelle João, che, indovinate un po', è il Ricardo Trepa del film precedente, scappato chissà dove e sempre presente nei dialoghi caserecci (sua moglie vive in quella casa). Nell'umile fine-ottocentesca dimora di Gebo una sera fanno capolino un paio di amici, per discutere della situazione moderna (contemporanea?) e del ritorno del figliol prodigo nei cui occhi si riconosce un velo di malvagità. C'è una lampada a olio, un centrino a uncinetto nel piatto di biscotti, una scenografia misera e claustrofobica che sono l'aspetto più apprezzabile del film insieme alle interpretazioni di Janne Moreau e Claudia Cardinale (elegantissime, lucide) a differenza dell'odiosa e istrionica Leonor Silveira che non sa mai dove guardare né dove tenere le mani.
Nonostante siano carne della stessa carne, Gebo e João sono il bene e il male, uno l'opposto dell'altro, e la scena finale ce lo dimostrerà, mentre invece servono a molto poco i surreali dialoghi, eccessivamente teatrali, eccessivamente profondi, tipici di chi fissa il vuoto e si auto-analizza.
Piuttosto che chiederci se si tratti di teatro filmato, se questo sia o no il film manifesto del regista portoghese (ma che gira in francese) come avevamo già fatto dodici anni fa per Ritorno A Casa (quando Manoel De Oliveira aveva novant'anni), dovremmo domandarci: è giusto considerare un film in base all'età di chi lo scrive e dirige? Certo, tanto di cappello: la sceneggiatura di partenza di Raul Brandão è ben diversa dal risultato cinematografico e dimostra la cultura a tutto campo di quest'uomo centenario, ma come consideriamo i film di Woody Allen belli o brutti a prescindere dalla carriera passata di Woody Allen, così dobbiamo considerare questo film a prescindere dall'età del regista. È certo una lezione di cinema per certi aspetti, per certe scene, come quella iniziale e illusoria (che è poi l'immagine della locandina), l'unica con luce vera e non artificiale, ma è anche un film d'altri tempi, di altri critici, di altri personaggi. Se già in Singolarità la storia era troppo esile, qua si fa esile e cervelloticamente insipida. Nonostante per la prima volta, a 103 anni, De Oliveira si abbassi all'uso del digitale.

sabato 22 settembre 2012

Venezia 69: Mira Nair.



The Reluctant Fundamentalist
id., 2012, USA, 128 minuti
Regia: Mira Nair
Sceneggiatura non originale: Ami Boghani, Moshin Hamid, William Wheeler
Basata sul romanzo omonimo di Moshin Hamid
Cast: Riz Ahmed, Kate Hudson, Kiefer Sutherland,
Liev Schreiber, Nelsan Ellis, Martin Donovan, Om Puri
Voto: 6.1/ 10
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Il nome di Mira Nair non dovrebbe dirvi assolutamente niente. Eppure l'indiana regista quasi sessantenne è stata candidata a un Golden Globe, due BAFTA, un EFA, un Nastro d'Argento, ed è stata a Venezia cinque volte, tre in concorso, vincendo nel 2001 il Leone d'Oro per il film della consacrazione, Monsoon Wedding, da noi passato in silenzio. E a Venezia c'è tornata quest'anno, fuori concorso, per presentare il suo primo film tutto americano ma con il seme dell'Oriente all'interno, anzi del Pakistan, basato su un romanzo (di Moshin Hamid) che da noi non è mai arrivato (ma qua sì).
C'è un ostaggio americano preso da alcuni integralisti di Al Quaeda, e c'è dello scompiglio: rivolte popolari, manifestazioni studentesche, la polizia irrompe dovunque e perlustra e perquisisce. Il clima teso deriva soprattutto da ciò che è successo da qualche anno: la caduta delle Torri Gemelle. America e Pakistan non vanno proprio d'accordo, e il sequestro di un americano è visto come atto di guerra. Tra fiotti di persone scalpitanti, il giornalista Bobby Lincoln (scelta bizzarra del nome) si ferma a intervistare il giovane Changez Khan, e in due mandate quest'ultimo gli racconterà la sua storia - ora in inglese e ora nella sua lingua. E la sua storia, è assai cinematograficamente banale: giunto dal Medio Oriente con furore, Riz Ahmed (faccia fin troppo azzeccata) prova a entrare in una prestigiosa compagnia di econom(ist)i e siccome risponde bene a una provocazione (del magnate Kiefer Sutherland, elegantissimo) ce la fa, e non solo: si scopre poi essere il più bravo della classe, il più dotato, il più promettente, il prescelto per le grandi commissioni, senza scatenare la gelosia e la ferocia dei compagni (tra cui l'irriconoscibile Lafayette di True Blood). E proprio mentre s'arricchisce e s'ambienta e si costruisce il futuro accende la televisione e vede il disastro: la prima torre crolla, poi la seconda. Rivelerà - e questa è la mossa vincente del film - che non ha provato assolutamente niente: non è ancora americano, e non è più pakistano. O forse, è già americano e ancora pakistano.
Interessante spunto di riflessione: ma non l'ha avuto la regista, dato che si basa su un libro.
I giorni di Changez poi diventeranno turbolenti: l'ansia dello straniero si respirerà per le strade e la sua morosa, una Kate Hudson invecchiata, mora, grassa, tutta il contrario di ciò che vediamo adesso in Glee, gli regala una mostra che lui fraintende - perché lei ovviamente fa l'artista.
L'altro aspetto interessante del film, e questo forse è merito della regista, è l'atteggiamento di dubbio che si ha verso questo ragazzo, di sospetto. Rientrato in patria, è effettivamente diventato integralista, capo di una banda di esaltati? Ha a che fare con il rapimento dell'americano?, sa dove si trova?, interverrà per la sua liberazione? È, questo ragazzo, cattivo o buono?
Ma poi anche il giornalista si scopre che ha un paio di segreti, e una triste vita, ed è subito accozzaglia.
Voto molto basso sebbene siano fioccati gli applausi a Venezia 69, dove questo film è stato presentato per primo in quanto film d'apertura. Sono sbagliati i tempi, la sceneggiatura è troppo americana nella prima parte, ci mostra immagini viste e riviste con sottofondo indiano, e i titoli di testa, infiniti quasi quanto il film, cominciano che sembra di essere davanti a una spy-story aziendale ambientata in un grattacielo comunista.
Stavamo meglio quando la Nair ci aveva dato il solo episodio del collettivo 11 Settembre 2001, che aveva lo stesso sapore, lo stesso sospetto da giallo, e non si era impelagato nella co-produzione americana.

un film di gay.



Come Non Detto
id., 2012, Italia, 90 minuti
Regia: Ivan Silvestrini
Sceneggiatura originale: Roberto Proia
Cast: Josafat Vagni, Monica Guerritore, Antonio Bruschetta,
Valentina Correani, Valeria Bilello, Francesco Montanari
Voto: 7.6/ 10
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Questa è l'Italia: seduti davanti a me, in sala, ci sono tre ragazzi, due femminucce e un maschietto, c'avranno avuto l'età del liceo, le due tipe si fanno largo tra le poltrone della seconda fila e si siedono il più avanti possibile «che fa figo» e lui continua a ripetere: «ma io volevo vedere Madagascar». Il film comincia con la voce fuori campo che davanti allo specchio fa le prove di coming out, «mamma, papà. Sono omosessuale». Il ragazzo davanti a me urla e fa per andarsene, ma le fanciulle lo tirano per il cappuccio. Nell'intervallo, poi, loro andranno a comprare i viveri e lui rimarrà in seconda fila a chiamare al Gigi per dirgli «Gigi, la Cami e la Claudia mi hanno portato a vedere un film di gay!» abbassando il tono sulle ultime quattro parole.
E anche questa è l'Italia: su per le scale verso l'uscita, alla fine del film, due eleganti signore di quelle che vanno al cinema alle quattro del pomeriggio per ammazzare il tempo commentano: «beh è stato bello no?», «sì, sì, molto fine, per niente volgare, nonostante il tema».
Ecco. Questa è l'Italia: un paese dove esistono “i film di gay” ma non certo “quelli di etero” né quelli “di animali” (come Madagascar), e ci si sorprende che “i film di gay” non siano volgari dato il tema. Per cui, diamo a Come Non Detto due meriti: essere un film di gay non volgare e che i liceali vedono fino in fondo.
In realtà, di meriti se ne potrebbero trovare degli altri: le interpretazioni dei non protagonisti su tutti (mai nella vita Monica Guerritore ha toccato questi livelli di credibilità, e ci inchiniamo davanti alla mejo der Colosseo Valentina Correani che avevamo lasciato tutta educata a condurre Mtv, come l'altro genio Francesco Montanari, e Nanni Bruschetta che fa sempre la stessa parte, e la fa bene), mentre la figura centrale ed esordiente di Josafat Vagni ogni tanto c'azzecca il tono e ogni tanto no, ma a un musetto come il suo perdoniamo qualunque cosa, e poi non ha colpe: sono i dialoghi che ogni tanto s'accasciano, insieme agli attori più stretti (l'amica Valeria Bilello). Su una sceneggiatura che però sta in piedi (una gran fretta di arrivare a questa cena in famiglia tanto nominata e viaggiare per flashback su diversi livelli, cosa non facile) si spalmano le storie di questo nucleo roman(esc)o in cui marito e moglie si sono separati per i continui tradimenti di lui e la continua sottomissione di lei, mentre la nonna sta a guardare in silenzio, troppo impegnata a lasciare curricula a negozi e agenzie di tutti i tipi perché ossessionata dalla volontà di lavorare (ha 83 anni), ed è la trovata geniale del film. I figli, sono la cocca di papà - burina, maschiaccia, violenta, volgare, con generosa prole al seguito e marito meccanico - e il cocco di mamma - educato, perfettino, composto, benvestito, e senza vita sentimentale o sessuale. Quest'ultimo, molto banalmente, comincia col parlare davanti allo specchio (pecca numero uno) come facciamo noi tutti, d'altronde, perché ha deciso di fare coming out a causa della calata del moroso spagnolo dalla Catalogna che vuole essere presentato ai genitori. Dalla sua parte, il nostro eroe ha: l'amica di tutta la vita che in fondo è innamorata di lui (pecca numero due) e un gay navigato che di notte è regina del deserto e di giorno stende e stira a pagamento. Con loro, dalla metà in poi, si ritroverà in una serie di sketch degli equivoci e delle coincidenze tipiche di Bugs Bunny & Co. (pecca numero tre). Ma son ben fatte, e noi ci crediamo.
Ottima fotografia, buona regia (pure esordiente), a volte sorprendente, che non si avvicina per niente al temuto Ferzan Özpetek con cui il paragone era doveroso, neanche quando si sta a tavola a mangiare, ma forse si avvicina di più al Pappi Corsicato de Il Seme Della Discordia.
Lo sceneggiatore sostiene che non esista una guida su come dire ai propri genitori che si apprezza la nerchia e pubblica una “spassosa guida” con in copertina la locandina del film. Mentre Syria passa alla radio con una canzone tremenda dallo stesso titolo.
L'Italia: operazioni di marketing malriuscite.

giovedì 6 settembre 2012

solo Dio può decidere, le persone no.



Bella Addormentata
id., 2012, Italia, 110 minuti
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura originale: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli
Soggetto: Marco Bellocchio
Cast: Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher, Maya Sansa,
Michele Riodino, Pier Giorgio Bellocchio, Gian Marco Tognazzi,
Fabrizio Falco, Roberto Herlitzka
Voto: 8/ 10
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Eh.
E come comincio?
Allora. L'anno scorso il Festival di Venezia numero 68, ancora diretto da Marco Müller e pieno di filmoni e attoroni e aspettativone, aveva deciso di assegnare il Leone d'Oro alla Carriera a un regista vivissimo e attivissimo e manco tanto vecchio - cosa decisamente insolita: Marco Bellocchio, che cominciò a far cinema quando ancora c'era il bianco e nero obbligato e che più di tutti, forse, si porta addosso gran parte della tradizione nostrana, sia sul campo tematico (basti pensare ai film sempre italianissimi come L'ora di Religione e Vincere e anche questo) sia su quello stilistico (basti pensare all'ombra di Fellini che si cela dietro Il Regista Di Matrimoni). Ero su un vaporetto prima di andare ad assistere alla premiazione (Bertolucci dava il Leone mentre in sala c'erano Nicola Piovani e Filippo Timi ed echeggiava un discorso sulla coerenza da far venire i brividi) e una ragazza commenta così: «che ridere, il premio alla carriera a Bellocchio, vorrei andare a fischiare: avanti, mica quello è un regista».
Bellocchio, a mio avviso, è uno dei migliori registi che l'Italia abbia mai avuto e forse quello che si può amare con più difficoltà. Ha la capacità di fare cinema partendo da un articolo di giornale, un episodio di cronaca, una fotografia, una leggenda. E fa del cinema vero, rigoroso ed elegante, di classe, sempre ben musicato, che purtroppo per lui (o per fortuna) si trascina poi dietro un bagaglio di polemiche di cui ne sa molto Nanni Moretti. S'era preso una specie di pausa dopo la triste capatina francese di Vincere, aveva portato in sala l'antologia Sorelle Mai, raccolta di cortometraggi girati a Bobbio in vent'anni con i suoi alunni e la sua famiglia e i suoi attori di sempre, e adesso torna non solo al cinema ma anche a Venezia, in concorso, dove forse aveva detto che non sarebbe tornato - come dice sempre Olmi.
E il film parte da ciò di cui si parlò per mesi nel 2009, e cioè i diciassette anni di coma vegetativo di Eluana Englaro, per poi spostarsi però (attenzione!) su altro, e cioè sull'approccio e la considerazione che si ha della morte in base a dove ci si trova, cosa si fa, cosa si ha subito.
Toni Servillo e Alba Rohrwacher guardano lo stesso filmato girato a Lecco mentre un gruppo di estremisti religiosi assale un'autoambulanza che trasporta il corpo della bella addormentata a Udine, nella clinica La Quiete, e assistono alle scene con approccio diverso: Servillo è deputato parlamentare di destra con qualche ripensamento, la Rohrwacher è una fanatica religiosa che mette zaino in spalla e raggiunge la morta viva per cantare il Gloria in strada con altri suoi simili. Qui conoscerà il poco utile Michele Riodino col fratello mezzo pazzo, mentre un'ex tossica tenterà furti e suicidi come fossero acqua fresca per venire sempre fermata dallo stesso medico, mentre un'ex attrice celeberrima sposata a un ex attore mediocre coltiveranno la speranza e le foglie secche di un matrimonio fallito nella casa con il figlio vivo e la figlia in coma.
Tutti questi personaggi così umani, così scavati, così psicologicamente approfonditi, così disperati, così diversi e uguali, hanno alle spalle televisioni e radio e voci di politici e presentatori che parlano del caso Englaro mentre davanti c'è la vita vera, i giorni da affrontare, le decisioni da prendere. La posizione politica e religiosa del regista (a noi comunque notissima) qua non è messa in mostra se non nella scelta degli stralci di discorsi mandati in onda qua e là.
Il risultato, comunque, è un film a cui non si potrebbe neanche dare un voto, un coinvolgimento emotivo, un'esperienza, che non è né cinema politico o religioso né pura arte visiva come era L'ora Di Religione (che parlava di un altro tipo di santi e, a mio avviso, il capolavoro inarrivato).
Maya Sansa ci regala un'ultima scena fortissima, ben scritta e ben interpretata insieme a Pier Giorgio Bellocchio, azzeccatissima, una messa a nudo dell'animo umano sui due fronti, mentre per tutto il film si susseguono interpretazioni magistrali di un'inspiegabile Isabelle Huppert, un sempre impeccabile Roberto Herlitzka, che cascano sull'approfondimento della famiglia di attori con un pessimo Brenno Placido.
Applaudito dalla stampa alla proiezione di ieri, ha poi subito i prevedibili attacchi dagli esaltati che «avete ucciso Eluana due volte!» gridavano. In realtà, loro non riflettono, morirà ad ogni spettacolo di ogni città, più volte al giorno.

la ribelle conformista.



Ribelle
Brave, 2012, USA, 100 minuti
Regia: Mark Andrews & Brenda Chapman
Sceneggiatura originale: Mark Andrews, Steve Purcell,
Brenda Chapman, Irene Mecchi e Michael Arndt
Soggetto: Brenda Chapman
Voci originali: Kelly Macdonald, Emma Thompson,
Billy Connolly, Julie Walters
Voci italiane: Rossa Caputo, Emanuela Rossi,
Ugo Maria Morosi, Anna Mazzamauro
Voto: 7/ 10
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Merida galoppa sul suo cavallo poco importante ai fini della storia, e il ritmo del film trotta con lei, e parte una delle due canzoni interpretate per la nostra patria che l'inglese proprio non lo digerisce da tale Noemi - una di quelle cantanti senza cognome che escono dalla televisione - e io volevo alzarmi e andarmene dalla sala. Perché Brave - che in italiano, forse per paura che venisse letto come il plurale di “brava”, è diventato Ribelle, sempre per la storia dell'inglese indigesto - parte e prosegue con molto sprint ma quanto è banale!, quanti cliché!
Certo, noi che siamo sempre cattivi, un po' pensiamo che l'ambientazione scozzese e la musica celtica le avevamo già masticate a fatica in Dragontrainer, un po' pensiamo che quei maschilisti maschiacci della Pixar proprio non ci riescono ad avere una protagonista femminile (la prima!, dopo più di una dozzina di pellicole prodotte dalla Disney, che invece sulle gentili curve c'ha costruito case); fatto sta che tutto è visto e rivisto, trito e ritrito, prevedibile e previsto: da piccola è la cocca di papà e la luce di mammà ma quando cresce, con in testa un ammasso informe di ciuffi rossi ereditati da nessuno, Merida, principessa di qualche regno di Scozia, si rifiuta di comportarsi con eleganza e compostezza e pensa solo a tirar di arco e scoccar frecce nei boschi e sulle cascate, mentre i tre fratellini gemellini rubano dolci a chiunque passi davanti a loro. Per dovere di copione, Merida sarà data in sposa al primogenito di un regnante limitrofo che per primo e meglio degli altri supererà una prova di coraggio o di destrezza, me lei mica vuole - ovviamente, anche perché a veder i tre pretendenti...
E per questa prima metà di film, c'è tutta la Disney. Come era stato per la seconda metà di WALL•E, la seconda metà di Up: quando c'è della fretta narrativa e dei canoni rispettati, sicuramente la Pixar non c'entra. Perché, noi che siamo cattivi solo con alcuni, lo sappiamo che teste matte ci sono in quegli Studios, e sappiamo cosa non si inventano. E mannaggia a loro, ci hanno abituati troppo bene. E allora per cambiare il suo destino Merida insegue dei fuochi fatui (animazione sopraffina, come tutto il resto del resto) che la conducono da una strega che... Ed è colpo di genio. Certo, anche qui noi che siamo cattivi potremmo sentire l'odore di un lontano plagio shakespeariano, un po' Romeo & Giulietta un po' Sogno Di Una Notte, ma a differenza di questi componimenti i film Disney devono finire bene, perché sono per tutte le famiglie, figli inclusi che poi vanno a comprare i pupazzini al Disney Store e cantano versi tradotti male. E pensare che nella sceneggiatura fa una capatina il premio Oscar Michael Arndt, autore di Little Miss Sunshine, osannato come pochi scrittori.
Sul piano tecnico, cosa si può dire? Ma niente, Gesù mio. Sempre la solita perfezione, dai petti che si riempiono di aria ai fili d'erba che si contano sul prato, magari è un poco fluorescente l'acqua del ruscello, ma mica ci attacchiamo alla carta del pepe. E apprezzabili anche le voci nostrane, affidate a veri doppiatori per i protagonisti e a personaggi ben più noti per il contorno (Enzo Iacchetti, Giobbe Covatta, Shel Shappiro) che a differenza degli altri film d'animazione non spiccano nella loro incapacità. Anzi: Anna Mazzamauro è azzeccata come poche, nel ruolo della strega.

mercoledì 5 settembre 2012

il perdono del sangue.



La Faida
The Forgiveness Of Blood, 2011, USA/ Albania, 109 minuti
Regia: Joshua Marston
Sceneggiatura originale: Andamion Murataj & Joshua Marston
Cast: Tristan Halilaj, Sindi Lacej, Refet Abazi, Ilire Vinca Celaj
Voto: 7.9/ 10
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«Grazie a Dio non hanno tradotto il titolo!» ricordo che disse la mia accompagnatrice alla visione di Maria Full Of Grace nel lontano (lontanissimo) 2004, prima che il film venisse osannato dalla critica internazionale e portasse Joshua Marston, regista e sceneggiatore, alla notte degli Oscar, dove quel suo primo lungometraggio era candidato alla statuetta per la migliore attrice protagonista (Catalina Sandino Moreno, all'epoca ventiduenne; ma vinse Charlize Theron). “Purtroppo” ho pensato io questa volta “non hanno tradotto il titolo”, che è The Forgiveness Of Blood (anche se il film è recitato in albanese) e non significa “la faida” ma calza a pennello quasi quanto quello italiano. Di una faida si tratta, in fondo, che può trovare soluzione solo con il perdono dato dal sangue di un morto ammazzato: due famiglie della periferia campestre albanese sono in conflitto perché una si trova sui terreni che furono di quell'altra e pretende di passare col carretto tutte le mattine, ma questa gli sbarra la strada. Nasce una discussione che vediamo, e poi una rissa che non vediamo, e ci scappa il morto. L'assassino è lo zio dei due giovani protagonisti, due di quattro figli di una famiglia medio-povera che beve al mattino il latte conservato nelle bottiglie della Coca-Cola (senza etichetta) e si veste coi residuati degli anni '90 ma ha la PlayStation in casa con dei giochi tremendi. Il maschio, Nick, è il primogenito “difficile” tutto entusiasmo e voglia di essere adulto; la ragazza, Rudina, è un portento nello studio e si vede costretta a rinunciare alla scuola per portare avanti l'unico lavoro che tiene in piedi la famiglia, la consegna del pane. Per assurdo, sarà lui a trovare una via di fuga. I paesaggi arcaici in cui sono inseriti, fatti di cavalli che trainano e cancelli costruiti in casa e sigarette senza bollo di contrabbando, si scontrano con la tecnologia che spinge per essere presente (moto taroccate, cellulari che fanno video) che a sua volta si scontra con le leggi del popolo che hanno la meglio su qualsiasi altra voce: per rispettare il lutto commesso, la famiglia protagonista è costretta a rinchiudersi in casa e guai al primo che mette piede fuori: rischia la vita.
Telecamera a spalla per le soggettive e regista quasi totalmente assente ma sempre molto vicino ai volti di chi ci interessa per quest'altra indagine di un microcosmo nel mondo dopo quello che era stato sulle mule sudamericane di Maria. Orso d'Argento a Berlino 2011 per la migliore sceneggiatura e Premio FIPRESCI. Entrambi i due ragazzi (che vedete nel manifesto) sono esordienti: facce azzecatissime che non rivedremo mai più.