lunedì 30 giugno 2014
il congresso futurista.
The Congress
id., 2013, Israele/ Germania/ Polonia/ Francia, 122 minuti
Regia: Ari Folman
Sceneggiatura non originale: Ari Folman
Basata sul romanzo di Stanislaw Lem
Cast: Robin Wright, Harvey Keitel, Jon Hamm, Paul Giamatti,
Kodi Smit-McPhee, Danny Huston, Sami Gayle, Evan Ferrante
Voto: 6.8/ 10
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Definito «un pasticcio» dal Corriere Della Sera, a cinque anni di distanza dal «ben lontano» Valzer Con Bashir il nuovo film di Ari Folman fa quest'operazione alla Roger Rabbit che mischia realtà e finzione tanto nel genere quanto nel modo – ma all'inizio non sa di pasticcio: Robin Wright è se stessa e vive in un hangar con due figli, la femmina adolescente ribelle al mondo e il maschio con problemi di udito, di vista, sogni di gloria nell'aerostatica, conoscenza mnemonica di grandi nomi del passato a partire dai fratelli Wright, con cui condivide uno dei nomi. Come sempre quando siamo dentro al meta-cinema, crediamo a tutto: che Robin Wright viva così, con questi figli, e che sia arrivata al declino della sua carriera; insultata per gli errori commessi, per «i fiaschi e le scelte sbagliate degli ultimi quindici anni», teniamo da una parte iMDB aperto e dall'altra ci sforziamo di ricordarcela prima di House Of Cards: è vero, la Jenny di Forrest Gump dov'è poi finita? (Risposta: tra le altre cose, nel capolavoro Nove Vite Da Donna). I ruoli-ghigliottina di cui si urla sono l'emblema della evanescente fama, della vita di Hollywood, della labilità con cui si affronta il successo; le viene proposto un ultimo contratto: farsi scannerizzare in modo da non dover più recitare sul serio ma essere infilata digitalmente nelle pellicole. Lei protesta: a quel punto non mi verrà chiesto il permesso di interpretare una nazista o un ebreo!, risposta: non te lo chiedono neanche adesso. La carne a cuocere è molta: la figura dell'agente pescecane, le regole commerciali dello star-system, l'importanza del ruolo, l'avvento in parte funesto del motion graphic, l'effettiva utilità dell'attore davanti all'animazione digitale. Senza molta altra scelta, accetta; e poi facciamo un salto di vent'anni. Il «pasticcio» arriva adesso: un'apocalisse cartoon che simula il grandioso congresso futurista in cui viene celebrata la figura simbolo della prima attrice scansionata e resa celebre da un genere che altrimenti non avrebbe mai fatto, la sci-fi. Secondo contratto: le viene chiesto di accettare di diventare liquido, composizione chimica bevibile, in modo da poter far vivere al fan l'esperienza di essere lei, di stare con lei, di avere lei. L'esaltazione è generale, la partecipazione variopinta: da Elvis e Gesù e Picasso (che si vedono su questo manifesto) a Tom Cruise parte attiva ridente e la voce di Jon Hamm su un personaggio che fa il lavoro dietro a tutto questo, l'animatore. È difficilissimo stare dietro alla trama, a questo punto: la realtà è divisa in due, quella fisica da una parte, fatta di povertà e cataclismi e mestieri comuni e cielo grigio e l'altra realtà, quella di allucinogeni e sogni, realizzata a caratteri digitali che permettono di far fiorire le persone, di far volare i pesci e i palazzi. In tutto questo, la ricerca spasmodica non più di se stessi, non più della propria identità, del proprio ruolo, ma di un figlio perso, che regala le immagini più poetiche e meglio riuscite, a partire dalla sequenza finale. Nel complesso, però, pare di assistere a un prodotto non finito, non completamente scritto né ordinato. Delle due abbondanti ore, la seconda è un effettivo «pasticcio» che aveva avuto buoni intenti e non li ha saputi collocare al momento giusto. È tutto da rimontare, alcune cose da rivedere, alcune figure da spiegare o eliminare. Gli avvenimenti perdono di logica e se la giustificazione a tutto questo sta nelle sostanze chimiche che la producono, grazie alle quali le persone riescono ad andare avanti, dall'altra parte è un peccato che un film così provocatorio (la Miramount Nagasaki?) esponga tutti questi temi utopistico-spinosi e poi si getti nel vortice dell'LSD.
sabato 28 giugno 2014
#Mix: i cowboys.
G.B.F.
id., 2013, USA, 92 minuti
Regia: Darren Stein
Sceneggiatura originale: George Northy
Cast: Michael J. Willett, Paul Iacono, Sasha Pieterse, Andrea Bowen,
Xosha Roquemore, Molly Tarlov, Evanna Lynch, Joanna “JoJo” Lovesque,
Derek Mio, Natasha Lyonne, Megan Mullally
Voto: 6.7/ 10
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Nella solita high school americana ci sono le solite fazioni non dichiarate: cheerleader e giocatori di football e figli di ricchi (che spesso sono in una delle due categorie precedenti) da una parte e dall'altra i giocatori di scacchi, i giocatori di videogiochi, i giocatori ai giornalisti con tendenze hippy, quelli con l'apparecchio, quelli con i brufoli, quelli con i vestiti che da noi potrebbero essere di Original Marines. Sebbene regola statistica voglia che il 10% di un gruppo non selezionato di persone abbia preferenze omosessuali, in questo liceo nessuno ha dichiarato i suoi gusti inversi – ma noi spettatori ne conosciamo subito due: uno, che definiremmo la sfranta; e un altro, che definiremo il protagonista. Il primo è visibilmente gay ma come spesso accade in questi casi l'argomento non si affronta né fuori casa né dentro, per cui la madre (tacitamente consapevole della cosa) evita che si sfoci in argomenti che potrebbero lasciar intendere dei trasporti sentimentali di ogni tipo, ed è convinta che lui stia con l'amichetto protagonista, che per brevità chiameremo Tanner (dove abbiamo già visto questo Michael J. Willett? Ah ecco era il fidanzato del figlio di Toni “Tara” Collette); il secondo, che abbiamo deciso di chiamare Tanner, la vive meglio sapendo che sarà Brent a fare coming-out per primo a scuola, ma un'applicazione per smartphone che rintraccia i gay più vicini tipo bussola, che conduce esattamente di fronte a questi gay, fa sì che alla fine di una lezione una classe intera più professore lo trovino iscritto alla suddetta trovata tecnologica, e dal giorno dopo gli sportivi si copriranno il pacco convinti di essere guardati là sotto. Il giorno dopo succederà anche un'altra cosa – ed è il succo e la trovata carina del film: alle ragazze popolari manca esattamente quell'accessorio, quell'elemento alla moda che viene sbandierato nelle televisioni e sui giornali del ventunesimo secolo, l'amico gay con cui fare shopping non mangiare carboidrati bere a stomaco vuoto parlare del sedere dei compagni – e partirà la caccia, fra le tre co-protagoniste, per accaparrarsi il primo-omosessuale-dichiarato-del-campus Tanner, rivestirlo e portarlo a spasso in attesa che lui decida la preferita con cui proseguire in simbiosi. Sono, queste: una reduce dal getto nero che spera nell'incoronazione del primo re del ballo gay e della prima reginetta di colore; una mormona dai capelli rossi fidanzata a un etero-curioso (ma lei non lo sa), ed è l'Andrea Bowen colonna portante di Susan Mayer in Desperate Housewives; la solita bionda benvestita, dalla battuta prontissima, dalla camminata leggiadra e pure brava in chimica con nascoste ambizioni altisonanti di cui non avremmo mai supposto l'esistenza che la faranno adorare tanto a Tanner quanto a noi (Sasha Pieterse; anche lei reduce televisiva da Pretty Little Liars). A questo punto gli sviluppi narrativi del film copiano e incollano e frullano ed eseguono ciò che è stato sempre fatto in passato e sempre fatto sarà: una lite, un accidente, una riappacificazione, un evento finale a cui tutti giungono, una politicizzante che aveva avuto inizialmente la trovata utile alla società ma è messa in disparte perché nel club degli sfigati (dove abbiamo visto anche questa faccia? Ah ma è la cantante JoJo). Sebbene il film non aggiunga assolutamente niente di nuovo – eccetto, in parte, questo ribaltamento della figura del gay – è totalmente consapevole delle sue trovate camaleontiche strizzando un certo occhio a Mean Girls e ai film di genere scolastico. Le numerose battute sono spesso riuscite, a volte riuscitissime, e regalano siparietti di puro realismo trattando l'omosessualità con tutti i cliché del caso, ma i cliché veri (chi non è morto d'imbarazzo con la scena-della-tenda di Brokeback Mountain visto con la mamma?) e si concludono con la solita battuta con cui si concludono i film in cui si dice «se questo fosse un film si concluderebbe così»; ma in realtà come si concluda non si sa, e le figure macchietta e i cerchi che si chiudono da una parte compensano il verismo dall'altra, con tutti quelli che, andato male il primo appuntamento, tirano fuori il cellulare e trovano una sveltina in macchina.
sabato 21 giugno 2014
#Mix: la lista.
Gerontophilia
id., 2013, Canada, 82 minuti
Regia: Bruce LaBruce
Sceneggiatura originale: Bruce LaBruce & Daniel Allen Cox
Cast: Pier-Gabriel Lajoie, Walter Borden, Katie Boland,
Marie-Hélène Thibault, Yardly Kavanagh, Jean-Alexandre Létourneau,
Brian D. Wright, Nastassia Markiewicz
Voto: 5.4/ 10
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«Questo è un film insolito per me» esordisce Bruce LaBruce presentando la pellicola al secondo giorno del 28° Festival Mix, «perché ho lavorato con attori professionisti, mi sono affidato ad agenzie di casting, avevo un grosso budget e poi, soprattutto, non si scopa». I titoli di testa però compaiono mentre sentiamo rantoli di piacere: è un bacio appassionato che Desirée intervalla all'elenco delle donne rivoluzionarie della sua lista – di cui fa parte Winona Ryder in quanto taccheggiatrice – bacio col fidanzatino Lake, che poi tutto imbacuccato nel freddo Canada anglo-francofono torna a casa in skate passando per la stradina dove un vecchietto aiuta i pedoni ad attraversare. Primo ralenty: capiamo, grazie al titolo, del latente feticismo. Lake, con bizzarra madre Peter Pan in casa e nessuna figura maschile se non quella di Gandhi sul letto, fa il bagnino per racimolare qualche soldo, in piscina, e recuperando un vecchio mezzo annegato, un giorno, facendogli la respirazione bocca-a-bocca, ha un'erezione che non riesce a nascondere: secondo ralenty. Finirà a lavorare in una casa di cura dal nome intelligente Colpo Al Cuore, per merito della genitrice che non si capisce come sia diventata amministratrice dello stabile, grazie a un'ellisse gigantesca che accorcia il già corto film. Qua dentro il bel giovinastro – labbra carnose e spalle chilometriche – potrà realizzare le sue fantasie di ritrattistica matusa, e tra un'accurata pulizia di un vecchio e la scoperta di una masturbazione di un altro, si insidierà nell'edificio senza passare dalla strada più ovvia: quella dei suoi colleghi coetanei. «Credo di avere un feticismo» dice alla fidanzatina, che resta sempre, e che sempre crede nella rivoluzione; «tipo la pelle?» chiede lei, e lui risponde che no, non così tanto. In effetti il feticismo non c'è, e se c'è non è sviluppato. Eccetto qualche disegno e il durello di cui prima, Lake è totalmente mancante di spessore psicologico: l'averlo privato del padre è una trovata banalmente semplicistica, l'avergli dato una madre che pensa più agli uomini che al mantenimento di se stessa idem; Pier-Gabriel Lajoie è, effettivamente, l'unico che ne esce sconfitto perché completamente vuoto, svuotato da caratteri d'interesse. Parrebbe un neo-nonsessuale ingenuo che trova un primo grande mecenate in questo vecchio, elegantissimo, colto, navigato, che decide di portare in giro per l'America come se fosse un parente, più che un amante. È bravo a piangere alla fine ma per tutto il resto del film mantiene la sua mono-espressione da copertina indie – ed effettivamente LaBruce ci dice che «si trova a Milano, ma non ha potuto essere qui perché domani sfila per Armani». È un modello, prima di essere un attore, e si vede. Al contrario i tre figuri che lo circondano sono splendidi: a partire da Walter Borden, prima grande fonte di comicità nella pellicola – e poi Katie Boland, con la sua faccia da Disney Channel (era in un cameo in The Master). LaBruce è simpatico e lo sa, è uno spasso: sa tenere il pubblico in sala sia quando parla sia quando scrive i suoi copioni. Si ride moltissimo, i più trasportabili avevano le lacrime: ma non è sempre un pregio, sganasciarsi, perché si è sprecata l'occasione di affrontare un tema così insolito, patologicamente quasi, per favorire qualche bella immagine, ben fotografata, che (complice la troppa musica indie di sottofondo) crea una lunga pubblicità di profumo più che un film. Impossibile non farsi venire in mente il ben più funereo e poetico e raffinato Harold & Maude; eppure c'è una scena, in un motel, con un preservativo e un vecchio stesso che, specularmente, cita in modo chiaro Gli Abbracci Spezzati. Ecco, quella era una gerontofilia al contrario; questa è, semplicemente, una relazione.
venerdì 20 giugno 2014
#Cannes: Gloria.
Party Girl
id., 2014, Francia, 96 minuti
Regia: Samuel Theis, Marie Amachoukeli-Barsacq e Claire Burger
Sceneggiatura originale: Samuel Theis, Marie Amachoukeli-Barsacq e Claire Burger
Cast: Sonia Theis-Litzemburger, Joseph Bour, Mario Theis,
Samuel Theis, Séverine Litzemburger, Cynthia Litzemburger, Chantal Dechuet
Voto: 6.5/ 10
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Camera d'Or, Premio del Cast
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Quand'era ancora studente di Cinematografia, a Samuel Theis fu chiesto di approfondire un esercizio scolastico, raccontare cioè la storia bizzarra di sua madre. Lo fa adesso, affiancandosi Marie Amachoukeli e Claire Burger dietro alla macchina da presa e mettendoci davanti mezza famiglia e molti conoscenti. A partire da Sonia, la genitrice che prende qua il nome di Angelique Theis-Litzemburger, sia sulla locandina che dentro alla pellicola. Frequentatrice e amministratrice di uno strip-club, direbbero in Francia, agée, ha sfornato quattro figli cedendoli al mondo e cedendone soprattutto una, affidata a un'altra famiglia e quasi scomparsa per anni. Si ritrova, con piercing vicino al labbro e sessant'anni, a patire la solitudine del non essere sposata, e non le serviranno grassi corteggiamenti per accettare le avances di un suo cliente abituale, Michel, ex minatore, pacatamente silenzioso fino alla proposta di matrimonio. Il film è spaccato in due parti: la prima, che ci presenta la stravagante situazione familiare e affettiva, le “colleghe” di lavoro del bar-cabaret, le discussioni in casa, i the del pomeriggio e gli smalti sulle unghie; e la seconda, lungo resoconto dell'addio al nubilato e celibato, della cerimonia e della festa che ne segue. E, inevitabilmente, si pensa a: Tournée di Mathieu Amalric (sempre nell'Un Certain Regard di questo Festival di Cannes con La Camera Azzurra) per la prima metà, storia circense di un gruppo di entusiaste ballerine di burlesque che vivono e preparano spettacoli in simbiosi col loro mentore; e al cileno Gloria per la parte finale, soprattutto l'ultima scena, ripresa pari pari, con l'aggiunta della canzone di chiusura che, tanto qui quanto là, dava poi titolo a tutta l'opera. Se però la straordinaria pellicola di Sebastián Lelio raccontava senza patetismi né prese di posizione la vita di una donna preoccupata del restare da sola al traguardo dei suoi giorni, facendole apprezzare solo alla fine i risvolti amari ma positivi della solitudine, Angelique appare come una ragazzina che non ha mai accettato di crescere e non è stata in grado di crearsi un nucleo affettivo attorno, dando via in principio una bambina. Troppo tardi si accorge di non avere niente, e se le amiche-colleghe la dovessero tagliare fuori il mondo le si frantumerebbe addosso. È, quindi, colpa sua; nonostante ciò non riesce a non piacerci, non riusciamo a non volerle bene. È sboccata, senza filtri, ironica, semplice – ecco perché ci ricorda le ragazze on tour. Ma non è Paulina García: è cinéma-vérité troppo scontato sui luoghi comuni dei sentimenti e troppo fiducioso nei suoi non-attori. Camera d'Or contestata per un film che «ha registro uguale a se stesso» e non si evolve all'evolversi della trama, che scorre, s'ingrassa, si spezza, si ripiglia – ma viene documentato nel modo in cui è nato: e cioè come esercizio scolastico. Parrebbe, come hanno notato alcuni, un'esorcismo, una terapia di famiglia.
#Cannes: lundi matin.
Due Giorni, Una Notte
Deux Jours, Une Nuit, 2014, Belgio/ Italia/ Francia, 95 minuti
Regia: Jean-Pierre & Luc Dardenne
Sceneggiatura originale: Jean-Pierre & Luc Dardenne
Cast: Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne,
Simon Caudry, Catherine Salée, Batiste Sornin, Alain Eloy
Voto: 8/ 10
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Premio Speciale della Giuria Ecumenica
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La vita vera non è nella vita vera ma nei film dei Dardenne – con questo pensiero e il dvd di Rosetta sulla scrivania vado ad affrontare il nuovo Due Giorni, Una Notte, uscito puntuale dopo tre anni e puntualmente in Concorso a Cannes dopo i precedenti Il Ragazzo Con La Bicicletta e Il Matrimonio Di Lorna, entrambi premiati con qualcosa – ma sarebbe stato impossibile che venisse data, per la terza volta, la Palma d'Oro ai fratelli Dardenne – ed entrambi abbastanza didascalici già dai tutoli. Questi due giorni, invece, sono quelli che Sandra ha a disposizione, sabato e domenica, per convincere i sedici colleghi della ditta di pannelli in alluminio per cui lavora a votare per il suo non-licenziamento; un voto per lei è un voto di rinuncia al premio aziendale da mille euro che il temutissimo capo concede a ogni impiegato, ed è dura fare in modo che la gente rinunci a dei soldi per avere ancora una collega. «Durante la tua assenza ci siamo accorti che riusciamo a lavorare bene in sedici, non c'è bisogno di un diciassettesimo» si sente dire – e lentamente scopriamo che l'assenza è stata causata da un periodo di depressione che le ha conservato dello Xanax nell'armadietto dei medicinali, in bagno, dove i due bambini piccoli non potrebbero arrivare. A quell'armadietto ogni tanto Sandra si reca, spesso di nascosto, sempre colta da attacchi di pianto. Distrutta, sola al mondo, col pensiero costante di essere tanto inutile quanto invisibile, viene tentata a tutte le ore dal letto mentre il marito le grida di lottare, provarci ancora. Il piano è recuperare i sedici indirizzi e citofonare e parlare direttamente coi colleghi, chiarire la situazione e pregare che votino per lei, rinunciando al denaro. In quest'odissea corta s'imbatterà(nno) in famiglie precarie, uomini sensibili che scoppiano in lacrime, donne vittime del proprio matrimonio, lavoratori in nero durante il fine-settimana, padri e figli violenti. È la periferia della vita che i registi belgi hanno sempre documentato e che qui, più delle altre volte forse, sfiora il documentario. «Si vede che sono due vecchi» dicevano dal posto dietro al mio, «la scena in cui cantano in macchina, si vede che è girata da due vecchi». Io, invece, ho trovato la scena in cui cantano in macchina semplicemente naturale: girata così come noi la vedremmo se fossimo in macchina. L'uso degli interminabili pianisequenza, la telecamera a spalla, la decisione di non tagliare tempi (per cui vediamo l'uomo che ci corre incontro per l'intero tragitto della sua corsa, per quanto potrebbe sembrare noiosa), sommati al tema attualissimo e tremendo, alla trovata geniale di mettere delle persone davanti alla scelta tra la pietà cristiana e il materialismo economico, fa di questo film un punto d'arrivo a cui un giovinastro non potrebbe mai giungere – perché pericolosissimo: al terzo tentativo di Sandra ci viene da pensare: oddio ma tutta la pellicola parlerà di questo? E in effetti lo fa: la magia sta nel come. E in altre due cose: l'interpretazione straordinaria di Marion Cotillard, incontro strepitoso col cinema dei due maestri, su cui loro fanno totale fiducia inquadrandola infinitamente e senza sosta (non c'è una scena in cui lei manchi), nei vari cambiamenti di umore, nei pianti e nelle risate, nelle poche prese di posizione e nei tanti sconforti, grazie anche a una sceneggiatura che, naturalmente, rivela piano piano i pezzi di storia che ci mancano e che ci servono; e, seconda cosa, un finale che confeziona impeccabilmente, senza calare di tono, l'originale trama. Il «piattume» che si sente dire dalle file in fondo va preso come un «nervosismo minore» dei precedenti, Rosetta in primis; senza corse né inseguimenti né tensioni inaspettate: solo l'attesa del lunedì mattina.
mercoledì 18 giugno 2014
#Cannes: vivo per lei.
Mommy
id., 2014, Canada, 139 minuti
Regia: Xavier Dolan
Sceneggiatura originale: Xavier Dolan
Cast: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément,
Alexandre Goyette, Patrick Huard
Voto: 9.1/ 10
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Premio della Giuria
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La Palma d'Oro mancata di quest'anno (che ogni anno non manca mai) si accontenta del Premio della Giuria ex-aequo con Adieu Au Langage, l'addio in 3D al linguaggio narrativo di Godard a favore di un'esperienza cinematografica di immagini e sensazioni. È ironico, non solo perché i due film sono opposti ma anche perché i registi erano il più giovane e il più anziano concorrenti a Cannes. Xavier Dolan aveva festeggiato poco prima del concorso i venticinque anni, gli ultimi cinque dei quali spesi a dirigere cinque film che ha portato quattro volte al festival francese e uno, l'anno scorso, a Venezia, in concorso. Si chiamava Tom À La Ferme, verrà proiettato in anteprima per il Festival Mix e aveva abbastanza convinto critica e giuria, a dispetto delle opere precedenti, visibilmente giovani(li), dall'indie-esteta Les Amours Imaginaires al trans-opic Laurence Anyways. Ma con questo Mommy – che ovazioni!, che applausi! Pare effettivamente uscito da chissà dove, visceralmente diverso dagli altri (sono, in realtà, tutti diversi tra loro) e maturo, nonostante il manierismo che lo soffoca di tanto in tanto. Merito, anche e soprattutto, di una protagonista stupenda, Anne Dorval, in estasi, colonna portante dell'opera, madre non cresciuta di un ragazzino difficile che, nell'ipotetico 2015 in cui si può “cedere” un figlio affinché venga curato se in preda a malattie patologiche, porta avanti la sua vita vestita da Spice Girl, firmando col cuore e con la penna attaccata ai portachiavi, (de)colorandosi un ciuffo biondo tra i capelli e salutando garbatamente i vicini con cui non entra in contatto. Dopo un confusionario incidente in auto, va a ritirare il ragazzino dal non-ancora-riformatorio con tanto di medico preoccupato di quel che sarà. A casa, in effetti, le cose andranno bene a intermittenza: basta una scintilla per far inalberare Steve, capace di alzare le mani e ribaltare armadi perché privo di controllo. Entrerà, in casa e nella vita, in punta di piedi, la dirimpettaia Suzanne Clément, balbuziente, composta, bravissima nel parlare con lo sguardo e con il corpo. Nascerà, come sempre quando non ce lo si aspetta, uno strano triangolo familiare fatto di cene, birre, compiti, scampagnate, progetti. Ma la vita, come i rapporti, è fatta di alti e bassi: e la trovata quasi geniale è nel formato dello schermo, che segue gli sbalzi d'umore del protagonista, uno scioltissimo Antoine-Olivier Pilon, senza inibizioni né freni, sempre a suo agio davanti alla macchina e ben azzeccato per il ruolo, ora sereno ora inquieto, perennemente preoccupato, angosciato che l'amore materno finisca. Perché è di questo che parla il film: dell'unico bene che non si smette di provare, quello di una madre per un figlio, o di un figlio per una madre, quando non si ha nient'altro nel mondo e ogni cosa appare precaria. E nonostante si proietti nel futuro, sebbene prossimo, forse per il tema più antico del mondo forse per l'età del regista che è cresciuto negli anni '90, la pellicola pare guardare indietro, facendo quasi a meno di ciò che per noi è ormai irrinunciabile: la tecnologia – privando la madre dell'automobile dalla prima scena, non mettendole il televisore in casa, né un computer, a malapena un cellulare, affidandosi a una colonna sonora che era «di un viaggio in California» fatta, fino all'azzeccata Born To Die, delle hit di due decadi fa. L'interpretazione della cosa va ovviamente alla genuinità del sentimento: la telecamera lavora benissimo, soprattutto attraverso carrellate a seguire e interruzioni di scena, a calarci nella tensione o nella commozione (ruffiana) del momento, a mostrarci la psicologia del personaggio. Solo alla fine verrà detto che semmai sarà Steve ad «amare sua madre sempre meno, crescendo», di fronte alle immagini di quello che potrebbe essere il futuro, a schermo intero, se il futuro fosse sereno. Ma se lo sarà non lo sappiamo né lo sapremo: certi personaggi, ed è la dannazione dei personaggi che restano indimenticabili, come questi tre, sono condannati, fisicamente malati di solitudine. Si sforzano di amarsi, e più lo fanno più lo schermo si stringe.
#Cannes: le pecore e il pastore.
Jimmy's Hall
id., 2014, UK/ Irlanda, 109 minuti
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura non originale: Paul Laverty
Basata sull'opera di Donald O'Kelly
Cast: Barry Ward, Simone Kirby, Andrew Scott, Jim Norton,
Brían F. O'Byrne, Paul Fox, Aisling Franciosi, Karl Geary
Voto: 8.2/ 10
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Coppia che vince non si cambia – eppure dopo la Palma d'Oro a Il Vento Che Accarezza L'erba e l'Osella alla Sceneggiatura de In Questo Mondo Libero... il sodalizio tra Ken Loach e Paul Laverty ha dovuto affrontare qualche ignoranza da parte di critica e pubblico (L'altra Verità) per sfociare poi nel totale fallimento (La Parte Degli Angeli). Si riprendono, grazie a Dio, tornando a ciò con cui sempre a Cannes trionfarono: i paesaggi d'Inghilterra di inizio Novecento, i bei costumi zozzi, la bella fotografia, le casupole in legno e pietra, l'accento stretto. E lo fanno, come son soliti fare, senza apparire neutrali, costeggiare l'opinione: comunisti sono e comunisti si presentano, e la sala da ballo di Jimmy racchiude perfettamente e completamente i loro ideali. È il Jimmy Gralton realmente esistito, interpretato accademicamente da Barry Ward, di ritorno in Irlanda dopo dieci anni di esilio a New York a causa della sua posizione politica; torna con un grammofono, qualche passo di danza, la conoscenza della musica ne(g)ra, i capelli bianchi tra le orecchie e una madre che lo aspetta, ormai rimasta sola, che ci appare inizialmente scema e paesana, rimbambita perennemente a casa – invece è lei il merito di tutto: ex insegnante di Letteratura, ha passato al figlio la cultura attraverso i libri, la curiosità di conoscere il mondo, il dono del ragionare e del pensare prima di rispondere – tutti fattori che lo rendono una minaccia per la locale fazione religiosa. Si aggiunge la sala di cui prima, locale in legno costruito dalla comunità e poi abbandonato, utilizzato per ballare, insegnare canto, pittura, giocare a carte, ritrovarsi alla sera, leggere poesie. Centro attivo di ritrovo e buon impiego del tempo, è l'oggetto del desiderio della nuova generazione del villaggio, che vede in Jimmy un eroe martire, mandato al confino per aver fronteggiato il sistema, ed è l'oggetto della diaspora con reverendi e cardinali, il pastore del luogo, lo schieramento cattolico che vede nello stanzone dismesso un nervo scoperto di satanismo, anticristianesimo, lontananza da quello che dovrebbe essere il vero fulcro del popolo: la parrocchia, dove già si balla e si canta e si glorifica il Signore. Ne scaturiscono una serie di dialoghi, discorsi, botta-e-risposta ecclesiastici, visite pastorali in case sempre accompagnate da offerte di the e biscotti appena fatti, che annientano la tragicità e la serietà della vicenda. Si ride in modo amaro: e non è mai facile farlo né farlo fare. Ciò che è incredibile, oltre all'intelligenza e all'arguzia dei dialoghi, alla furbizia della trovata scenica, è l'incredibile possibilità di raccontare una storia con così sfacciataggine. I pastori morali non ne escono splendenti, seppure vincitori alla fine della trama; il popolo non più gregge reclama una libertà che nella religione non trova – seppure sia fedele al cristianesimo e vada in chiesa a sentirsi bacchettare. Il rischio, nelle pellicole tipo questa, è sfociare nel patetismo del compianto da biopic, ciò che l'ultimo fotogramma effettivamente fa. Altro canale di lettura: la speranza in un futuro gestito da una generazione non così succube delle proprie «superstizioni». Tanto di cappello al coraggio etico di una coppia storica che affronta a testa alta una storia di vera tristezza facendo sganasciare (tristemente) la sala.
sabato 14 giugno 2014
Nick & Meg.
Le Week-End
id., 2013, USA, 93 minuti
Regia: Roger Michell
Sceneggiatura originale: Hanif Kureishi
Cast: Jim Broadbent, Lindsay Duncan, Jeff Goldblum,
Olly Alexander, Judith Davis, Xavier De Guillebon
Voto: 8.2/ 10
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«Nick e Meg», così cominciano tutte le recensioni e le trame di questa pellicola: ci sono Nick e ci sono Meg che trascorrono un fine settimana a Parigi per celebrare i trent'anni di un matrimonio apparentemente traballante, professore universitario lui, insegnante di Biologia lei, arrivano in Francia e noi li conosciamo e seguiamo minuziosamente da qui: dal primo deludente albergo in cui entrano al secondo, lussuoso e forse impossibile da permettersi; i pranzi fuori, le cene senza conto, le passeggiate tra vie e chiese e taxi ma soprattutto i dialoghi, i discorsi, i battibecchi, le liti. Il potere di questo film, oltre che in due attori in stato di grazia altissima (Jim Broadbent sempre meraviglioso, era il capo-famiglia di Another Year altrettanto tenero ma con un'altra consorte; Lindsay Duncan si era ritagliata a fatica piccoli segmenti in Sotto Il Sole Della Toscana e poi Alice In Wonderland e qui esplode in tutta la sua sapiente ironia) è una sceneggiatura quasi magistrale firmata da Hanif Kureishi, alla quarta collaborazione con l'autore del cult dei cult degli anni '90 – che dopo una gavetta tra il teatro shakespeariano e Beckett approdò in sala col Notting Hill che Canale 5 passa in prima serata da allora, regista di cui poi ci siamo dimenticati (i film più recenti sono gli stroncati Il Buongiorno Del Mattino e A Royal Weekend), Roger Michell. «Insieme facciamo i film che non potremmo fare con altri» ha detto Michell parlando del suo sceneggiatore, il quale gli aveva proposto questo copione sette anni fa, quando poi hanno effettivamente vagato per le strade francesi a fare quello che Nick e Meg adesso fanno, ora che hanno due volti a cui è stato possibile pensare lentamente. Michell è capace di seguire la coppia di anziani, luogo comunque nel suo più recente cinema, tra gli alti e bassi, le cadute e i giuramenti rinnovati. Le Week-End è, infatti, un film senza peli sulla lingua, che mostra e dimostra come a sessant'anni si covi ancora del desiderio sessuale, ammazzato dalla consapevolezza del proprio aspetto fisico in decadimento; è fatto della voglia di fermare il tempo, la non accettazione di deperire, la conoscenza del mondo e dell'altro che porta al menefreghismo verso certi sistemi etici. Nick e Meg stanno insieme da così tanto tempo che ormai hanno dimenticato gli errori commessi, i tradimenti, allo stesso modo in cui se ne ricordano e li sfoderano come arma all'occorrenza. La stanchezza della presenza sempre costante della stessa persona contrasta con l'incapacità di farne a meno, e crea una serie di scompensi che li fanno litigare e sorridere nello stesso minuto. È un film-verità che sfocia, come molte pellicole del genere, nella cena-scoperta a casa altrui. Invidiosi della condizione di chi, invece, ce l'ha fatta, toccheranno con mano propria la società dell'oggetto e della finzione, dell'apparenza e del sogno non infranto, per rendersi conto che il sentimento, la serenità, si trovano in un posto che hanno già scovato. Altro merito, oltre al finale tutto francese, è il non dire troppo e non dire troppo poco: la presenza del figlio, il motivo del viaggio e quello di un licenziamento, ci vengono svelati poco a poco perché noi spettatori entriamo e usciamo dalla storia in punta di piedi e tutto ciò che possiamo fare è solo ascoltare e cercare di capire. Il botta-e-risposta continuo, tanto arguto da sfociare nell'impossibile, e questi due caratteri così ben delineati rendono credibile ogni scena, anche la più assurda (vedi alla voce: fuga dal ristorante).
Per persone intelligenti, anziani adolescenti e per giovani maturi.
David di Donatello - vincitori.
Di seguito, dopo il salto, tutti i candidati e i vincitori per i lungometraggi di finzione; rimando qui per i corti e qui per i documentari.
miglior film
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto
Il Capitale Umano di Paolo Virzì
Smetto Quando Voglio di Sydney Sibilia
La Sedia Della Felicità di Carlo Mazzacurati
migliore regista
Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza
Ettore Scola per Che Strano Chiamarsi Federico
Paolo Virzì per Il Capitale Umano
Ferzan Ozpetek per Allacciate Le Cinture
Carlo Mazzacurati per La Sedia Della Felicità
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venerdì 6 giugno 2014
#Cannes: l'aria.
Incompresa
id., 2014, Italia/ Francia, 103 minuti
Regia: Asia Argento
Sceneggiatura originale: Asia Argento & Barbara Alberti
Cast: Giulia Salerno, Charlotte Gainsbourg, Gabriel Garko, Carolina Poccioni,
Alice Pea, Anna Lou Castoldi, Max Gazzè, Gianmarco Tognazzi
Voto: 5/ 10
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Pare di essere nel Tempo Delle Mele a giudicare da questi titoli di testa: scritte opache su diari, disegni, dediche, cartoline, figurine, aforismi trascritti, penne coi brillantini, risposte multiple per le amiche e svolgimenti di temi. Il tempo è più o meno quello: gli anni Ottanta degli abbinamenti tessili del raccapriccio, e Aria e la sua migliore amica “Ist” sono fiere di essere diverse dalle altre in aula, con i seni già sviluppati e i rimproveri della maestra. Speriamo però che la scelta del miglior tema della classe non sia costantemente influenzata dal fatto che il padre di Aria è un famoso attore del cinema, habitué dei film d'azione e in odore di copione d'autore, inguaribile superstizioso che si ricorda della figlia solo quando funge da positivo amuleto. Gabriel Garko è sempre in casa a urlare, strillare, dettare legge, non mangiare, spargere sale, fare croci; lo vediamo nella sequenza iniziale sbraitare con la compagna Charlotte Gainsbourg (che accoppiata) per delle polpette prima, per le figlie poi, per il mal di testa infine. Lui le grida che è una pianista fallita, lei che è un attore cane. Si separano, e forse da questo punto la sceneggiatura si fa meno imbarazzante. Oltre alla regista si cela, dietro ai dialoghi, Barbara Alberti, che può vantare nella sua carriera la trasposizione di 100 Colpi Di Spazzola aka Melissa P., dove già si era lavorato di sfacelo. Questa volta la Alberti si riconosce nella sua furia satirica in piccoli e intelligenti trovate, tipo la presenza di qualche David di Donatello in casa, un film che passa in TV in cui Garko succhia un seno – e il film è Senso '45, gli insulti «cane di cani» che il meta-attore si becca, coraggiosamente, e la gioia di fare un film d'autore, finalmente, che dopo tante fiction potrebbe essere quello che è effettivamente in sala. Asia Argento, invece, sembra ancora interessata ai meccanismi disfunzionali dello stare insieme: dalle situazioni da denuncia, come le liti fino ai cazzotti per strada o le teste sbattute sui banchi della maestra, fino al rapporto madre-padre-figlia che già era stato nucleo di Ingannevole È Il Cuore Più Di Ogni Cosa. Non pare essersi discostata troppo: c'era lì l'eccesso fisico, la carne, il disfacimento, che qui mancano, ma si mantiene il disinteresse dei genitori, nella ricerca di farsi una nuova vita, per questa bambina non tanto “incompresa” quanto proprio “ignorata”. La giustificazione: lei ha una figlia precedente, lui ha una figlia precedente. Ad Aria non resta che il gatto, ovviamente nero, e l'amica, che presto la tradirà, perché «bambina normale». Paradossalmente funzionano meglio le sequenze dell'infanzia: le spensierate ricerche di gente a cui si è rubata la posta, la conoscenza dei freak per strada, le feste in casa (quando non sfociano nell'apocalisse), grazie soprattutto a un cast quasi eccezionale: Giulia Salerno su tutte, giustamente protagonista con quegli occhi e quei capelli e quell'incarnato che coronano la tavolozza di colori che ogni scena assume: colori vivi, accesi, marci, brillanti, una fotografia ben virata, l'aspetto senza dubbio migliore della pellicola insieme ai costumi. Complice forse l'accento nella parlata italiana, Charlotte Gainsbourg è un po' sottotono. Le si addice il ruolo di madre che cambia un fidanzato al mese, che è andata «anche con donne, con nani», che ci fa pensare al recente Nymphomaniac, ma quanto è credibile una genitrice vittima di tutti questi sbalzi d'umore, di tutti questi giri di vento, ora indi-fissata, ora stella del rock alla deriva, che costringe la bambina prima a mangiare in camera e poi la stringe al petto come se niente fosse? Eppure, il dolore latente della storia, parrebbe essere quello dell'autrice, figlia d'arte e apparentemente lasciata a dormire in strada, ogni tanto. Purtroppo, a metà il film ha finito di dire quello che deve, tutto è chiaro e si fa solo opera di esorcismo – e se si fosse scelto un incipit meno estremo, forse, sarebbe stata la sufficienza.
domenica 1 giugno 2014
Bonnie & Clyde.
Un Giorno Come Tanti
Labor Day, 2013, USA, 111 minuti
Regia: Jason Reitman
Sceneggiatura non originale: Jason Reitman
Basata sul romanzo di Joyce Maynard
Cast: Kate Winslet, Josh Brolin, Gattlin Griffith, Tobey Maguire,
Tom Lipinski, Maika Monroe, Clark Gregg, James Van Der Beek
Voto: 7/ 10
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Nell'afoso agosto della provincia americana degli anni '60 Kate Winslet è madre di un tredicenne con le prime pulsazioni sessuali frenate da una usuale ma difficile situazione: il padre si è risposato con la sua segretaria, che già aveva un figlio, e le ha dato un altro pargolo, per cui Gattlin Griffith – azzeccatissimo per il ruolo – ha due mezzi fratellastri ed è il maschio di casa; la genitrice non esce mai ed è nota per questo, non è abile a cucinare, scopriremo, e affronta le sue giornate con stanchezza. Il ventilatore è sempre acceso, anche quando escono per il centro commerciale dove lui si butta sui numeri di Vogue, nascondendosi dai presenti, e lei sulle lampadine di cui non capisce il voltaggio. Da una porta non identificata spunterà Josh Brolin che li costringerà prima ad accompagnarlo, poi ad accompagnarlo a casa, poi a restare fino al giorno dopo. Si scoprirà col notiziario della sera che è un ricercato, scappato dall'ospedale carcerario dopo essere stato operato di appendicite, e c'è una taglia di diecimila dollari sulla sua testa. La Winslet, che già trema di suo, mantiene a fatica l'agitazione, ma lui pare un gigante buono: pulisce le grondaie, ripara il cigolio della porta, tira su un muretto, insegna al figlio a tirare a baseball. Per non farla accusare di sequestro di fuggitivo, la lega alla sedia e prepara una sorta di ragù, prima fra tante ricette che si vedranno sfornare in casa. La Winslet, i vestiti a fiori, la fotografia legnosa e luminosa, i dolci: eccoci di nuovo dentro Mildred Pierce e la difficoltà di rifarsi una vita, per una donna, dopo che il marito se ne va. «Pensavo che non avrei amato nessun altro all'infuori di te» dice al figlio, spettatore e voce narrante per tutto il tempo. Perché la tensione diventa sempre più erotica, in casa, nei cinque giorni che fanno dal giovedì al martedì, un fine settimana non-lavorativo, come il titolo vorrebbe, ma dedito ai lavori di casa. La polizia è però sempre in agguato e i vicini ficcanaso mormorano.
Il tutto, soprattutto certi picchi di tensione nello scorrimento parallelo degli avvenimenti, è trattato come una serie o un film per la televisione: con quel mordente da seguire e la necessità di arrivare in fondo. Meravigliosa la trovata un po' malickiana di puntellare il racconto con immagini di cui inizialmente non abbiamo la chiave, ma che poi ci vengono rivelati; peccato che ci vengano rivelati male, così come male si conclude la vicenda, frettolosamente, e con una trovata pasticcera sempre alla Mildred Pierce e una detenzione carceraria di lettere e vecchiaia alla The Reader. Kate Winslet è ormai un mostro sacro che si trascina dietro le esperienze passate ma senza mai copiarsi; per questo ruolo è stata candidata al Golden Globe e il film, previsto per marzo in Italia, non è effettivamente mai uscito. Strano: dietro di lui c'è il nome-garanzia di Jason Reitman, apprezzato con Thank You For Smoking ed esplodo con Juno prima, con Up In The Air dopo. Sarà colpa del precedente mezzo flop, Young Adult – che a noi era piaciuto moltissimo, e al sodalizio finito con Diablo Cody? Dopo aver cambiato quattro diversi registri narrativi si scrive da solo il copione e il risultato, tra tutta la carriera, è quello più sottotono.
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