venerdì 28 novembre 2014
32TFF: il reame
Stella Cadente
id., 2014, Spagna, 105 minuti
Regia: Lluis Miñarro
Sceneggiatura originale: Sergi Belbel & Lluis Miñarro
Cast: Àlex Brendemühl, Lola Dueñas, Lorenzo Balducci, Bárbara Lennie, Francesc Garrido, Àlex Batllori, Gonzalo Cunill, Francesc Orella
Voto: 4/ 10
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1870, novembre: con il doppio dei voti ottenuti dalla Democrazia, Amedeo d'Aosta fratello di ciò che sarà Umberto I e iniziatore della dinastia dei Savoia diventa Re di Spagna (ma si trova a Torino). 1871, gennaio: Amedeo arriva in Spagna pieno di ideali progressisti e innovativi e subito gli consigliano di ritirarsi – il suo predecessore è stato assassinato, nell'aria si espande il rumore delle bombe. La Spagna non è pronta a questo stacco generazionale, a quest'apertura di mente: lavora ancora su intrighi e corruzione dentro al castello. Rifiutandosi di abdicare, allora, Amedeo passerà la maggior parte dei suoi giorni rinchiuso nelle stanze, ad aspettare fremente l'arrivo della moglie María Victoria, ad intravedere le nudità della cuiñera Lola Dueñas tanto cara al maestro Almodóvar, a farsi servire e riverire dal suo fedele assistente e dal giovanissimo cameriere di corte – e qui iniziano le bizzarrie: quest'ultimo, si diverte a sottrarre al sovrano indumenti e accessori che usa o lecca o indossa per travestismi danteschi; quell'altro, nel raccogliere la frutta e prepararla per il pasto (rigorosamente privo di carne), buca meloni e c'infila dentro il già turgido pisello per masturbarsi – e poi servire in tavola. Finiranno ovviamente in una tresca omosessuale che si conclude con l'origine du monde ribaltata al maschile in un primo piano anatomico di Lorenzo Balducci di cui si parlava molto prima che questo film arrivasse al festival. Di passaggio in Tre Metri Sopra Il Cielo e Il Cuore Altrove e poi nell'anche gay-friendly Ma L'amore... Sì!, Balducci non è mai riuscito, nonostante l'eredità familiare, a sfondare nel nostro Paese, ed espatria per trovare effettivo chiacchiericcio sul Web che si diverte a votargli il pene. Come attore c'è ben poco da giudicare: il suo personaggio, come quasi tutti, sfiora il mutismo. Le scene, forse a voler rappresentare il peso dei giorni sempre uguali e tutti di fila, in questa clausura a quattro tra le stoffe e i banchetti, sono costruiti come quadri pre-barocchi, dove le frutte trovano colori brillanti, innaturali, le composizioni sui tavoli spiccano in simmetrie e accostamenti. A sottolineare ciò sono le riprese fisse, di pochi secondi, su pochi dettagli, e la telecamera sempre ferma a inquadrare i dialoghi a due, o i silenzi di coppia. Spezzerà l'incanto l'arrivo di Bárbara Lennie, una regina poco credibile che presto tornerà da dov'è venuta ricacciando il marito nello sconforto politico tra solitudine e alienazione. Àlex Brendemühl, il re, ogni tanto si perde in dialoghi o meglio monologhi che sfiorano la Filosofia e la Storia, la Politica e l'Estetica – ma non ci crede nessuno, dato che la scena successiva sarà di due natiche al bagno e la precedente una macchia di sperma sui pantaloni. Lluis Miñarro, costruendo una lingua a metà tra il castigliano e il catalano antichi, non si prende sul serio né cerca di fare un film dal serio contorno storico, dalla credibile costruzione realistica. L'attenzione a scene costumi trucchi si concede delle immagini claustrofobiche che passano in secondo piano rispetto all'assurdità del resto; se l'obiettivo era sconvolgere o infastidire, però, non c'è riuscito: il film manca di eccesso: in un senso o nell'altro. Non è davvero ironico né è grottesco fino in fondo. Resta in quel limbo pericolosissimo che lo rende artisticamente insufficiente, la solita storia contro cui si scagliano tutti. Non serviranno gli istrionici titoli di coda a far cambiare idea. Qualcuno uscendo dalla sala ha anche esagerato: «se la giornata non era un granché, questo me l'ha rovinata».
32TFF: il fisico.
La Teoria Del Tutto
The Theory Of Everything, 2014, UK, 123 minuti
Regia: James Marsh
Sceneggiatura non originale: Anthony McCarten
Basata sul romanzo di Jane Hawking
Cast: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Harry Lloyd, Emily Watson,
Michael Marcus, Alice Orr-Ewing, David Thewilis
Voto: 7/ 10
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Stephen si alza al mattino quando gli altri hanno già seguito la prima lezione, mette su Wagner, beve il caffè che non rovescia sugli appunti sparsi in fogli sulla scrivania, esegue gli esercizi di Fisica dietro al libretto degli orari dei treni in mancanza di altri supporti, il giorno prima di consegnarli, senza aver letto le tracce per i sei giorni precedenti. Divide la stanza con Harry Lloyd che è al Festival di Torino anche in Big Significant Things, insipidamente in concorso, e con lui ride e bivacca e beve birra e corre in bici verso le feste di Cambridge durante le quali non ha tempo né modo di pensare al tema della sua tesi, né al suo dottorato. Pensa però a Jane, che incontra all'improvviso, vede tra la folla, come solo nei film succede o che solo i film ci sanno raccontare in questo modo. Jane, religiosissima studentessa di Lettere, Francese e Spagnolo, Poesia medievale, e Stephen, che riuscirà a corteggiarla con l'eleganza degli anni '60 e la tenacia delle persone argute, prenderanno dopo il matrimonio il di lui cognome: Hawking. Ma il matrimonio arriverà solo dopo la malattia che tutti conosciamo: un atrofizzarsi dei muscoli degenerativo, una incipiente capacità di camminare, muovere le mani, poi anche parlare – solo un organo funzionerà benissimo, perché «automatico», e darà loro tre figli nonostante l'aspettativa di due anni diagnosticata dai medici. Ma essere giovani negli anni '70 e avere tre figli e non essere una famiglia normale nonostante la fama in tutto il mondo «per i buchi neri e non per i concerti rock» non sarà facile, soprattutto per Jane, una Felicity Jones finalmente protagonista assoluta di una grossa produzione che la lancia alla mercé del pubblico e dei colleghi, dopo l'immenso ruolo da protagonista passato inosservato in Like Crazy. Ed è questa la maggiore lode al film: che mette in scena le doti interpretative altissime di due giovanissimi attori british, a cominciare da Eddie Redmayne sempre non-protagonista nei recenti Les Misérables e My Week With Marilyn e nel primo Savage Grace, immenso, devoto al ruolo fin nelle più piccole espressioni, nella postura, nelle patate lanciate fuori dal piatto, nell'articolazione degli arti: per lui il lavoro è stato lento e profondo, come racconta ricevendo il premio Maserati (accettandolo dicendo: «siete un Paese famoso per le sculture e si vede in queste splendide statuette»): dopo studi sul vero Stephen Hawking è arrivato a incontrarlo impedendogli di parlare per quarantacinque minuti, parlando soltanto di Stephen Hawking a Stephen Hawking, che ha visto il film sulla sua vita ai tempi del college e del primo matrimonio, concedendo l'utilizzo della sua voce elettronica, «così iconica», che è protetta da copyright. Il film, sembrerebbe, la trasposizione romanzata di una dolorosa fiaba d'amore – dove l'amore, come nelle fiabe tradizionali, finisce e diventa altro. Eppure di romanzato c'è poco, essendo la storia vera della longeva coppia. Ma la romanzazzione è sottolineata da tutti quegli ingredienti cinematografici d'intrattenimento a cui l'industria USA ci ha abituato (però questo è un film UK, e lo sappiamo dal solito cameo di Emily Watson, che dice «la cosa più inglese che si possa dire», e cioè risolvere i propri problemi andando al coro della chiesa): mai la musica fu così presente in un film, diciamo, sulle Scienze Matematiche, dai tempi di The Proof. Di Jóhann Jóhannsson, autore della colonna sonora di Prisoners, l'accompagnamento musicale sfiora la potenza del John Williams disneyano e si concede lunghe iperboli narrative fatte, per esempio, di filmini familiari, scene oniriche e sfuocate, titoli di coda un po' fuori luogo che però ci riempiono di quella sensazione cinematografica ruffiana con cui si esce dalla sala annuendo. James Marsh è però il regista di Man On Wire, e sappiamo che è capace di ben altro: si affida ai due interpreti in odore di Oscar che fanno dimenticare tutto il resto e si dimentica lui per primo come si confeziona un film originale.
32TFF: lo sposo.
Big Significant Things
id., 2014, USA, 85 minuti
Regia: Bryan Reisberg
Sceneggiatura originale: Bryan Reisberg
Cast: Harry Lloyd, Krista Kosonen, Sylvia Grace Crim,
James Ricker II, Travis Koop, Elisabeth Gray, Bess Baria
Voto: 6/ 10
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Dispersi negli stati americani si nascondono ai turisti ma soprattutto agli abitanti delle zone alcuni tra gli oggetti più grandi del mondo: il più grande cesto in legno di cedro, la sedia a dondolo, la padella, la stella al neon... Sono, questi luoghi, il pretesto per Craig di intraprendere un viaggio in totale solitudine tra le autostrade della Virginia e del Mississipi per trovare se stesso attraverso gli incontri fortuiti e i programmi in radio: trentenne con le paure dei trentenni, sta per affrontare un trasloco a San Francisco con la ragazza che sposerà con forse troppa poca convinzione e che gli telefona costantemente per fargli sapere gli avanzamenti immobiliari, ai quali il padre mette pressione; Craig non le ha detto di essere da solo, né le ha detto le mete (o tappe) del suo viaggio. Ingannandola ad ogni chiamata, le fa credere di essere in un business trip con altri colleghi senza patente, e quindi costantemente alla guida. S'imbatterà in ridenti villeggianti, albergatori despotici, incuriositi ragazzi, gruppi di adolescenti che lo inviteranno a feste adolescenti e bar. S'imbatterà in un'altra ragazza, con la quale nascerà quella tensione che va bene fino al momento in cui non sfocia in altro, smettendo il platonicismo. Sarà lei, forse, e un programma in radio continuamente trasmesso e molto ascoltato, a fargli capire se è arrivato o meno il momento di tornare, e rinunciare a vedere il fratello che lo maltratta al telefono. Film di formazione come tanti, Big Significant Things ha la sua buona trovata nel titolo e negli oggetti a cui si riferisce, queste gigantografie della vita quotidiana totalmente fine a se stesse. Sono big ma forse non significant i problemi di Craig, che ingigantisce tutto ingiustificatamente, che per paura di mentire finisce col mentire troppo, che s'impappina, s'inceppa, s'imbarazza, confezionando un trentenne-macchietta che risponde alle esatte caratteristiche che ci aspettiamo: è il ragazzino del liceo incapace di instaurare rapporti con gli sconosciuti, è colui al quale si risponde male o non si risponde affatto, e così in effetti proseguono gli incontri nei vari stati, fingendo di bere birra in attesa di amici inesistenti per non apparire sfigati agli occhi dei più giovani. Craig e il suo interprete Harry Lloyd del Trono Di Spade ma anche del blockbuster scientifico La Teoria Del Tutto, si inseriscono nella via di mezzo tra gli high school movies e le pellicole degli adulti, interpretando la crescita morale con quella materiale delle sedie. Spesso gli viene detto «sei giovane per sposarti» e lui e noi lo sappiamo, e da qui scaturiscono le incertezze, le insicurezze, il desiderio di trasgredire alle feste e dormire in macchina che dovrebbe appartenere a una generazione ancora successiva e non a lui. Ma il personaggio non evolve, e niente di nuovo neanche sul road-movie che ci regala: un viaggio tra le Americhe con belle scritte in impressione ma in fondo nessun aspetto trascendente, nessun vero scontro con se stessi, ma solo con il prossimo, indifferente al dialogo, ed è solo l'improvviso finale che salva la trama ormai andata dove doveva andare: messe le carte in tavola lo spettatore non ha che da attendere la fine senza muoversi, paziente; un finale che forse in realtà non lascia aperte molte conclusioni.
32TFF: le bici.
Violet
id., 2013, Belgio/ Olanda, 85 minuti
Regia: Bas Devos
Sceneggiatura originale: Bas Devos
Cast: Cesar De Sutter, Koen De Sutter, Mira Helmer,
Brent Minne, Fania Sorel, Jeroen Van Der Ven
Voto: 7.6/ 10
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Siamo in un centro commerciale, ma la telecamera indietreggia e siamo negli uffici di un centro commerciale in cui vediamo quello che succede nei corridoi e tra i negozi (del centro commerciale) dalle telecamere disposte all'interno. Le immagini si susseguono mostrando tutti i desolati angoli mentre un uomo, una guardia, controlla che tutto vada bene. Ci sono dei ragazzi ad aprire il film, quattro: due coppie e una bici – e iniziano a litigare, e il tempismo fa alzare la guardia poco prima che uno probabilmente accoltelli l'altro, finito steso a perdere sangue in una pozza, mentre l'amico osserva e gli altri due scappano e la desolazione non ha testimoni là dentro. Siamo nel più completo silenzio e siamo in 4:3, per un primo pianosequenza potentissimo, ai limiti della videoarte (soprattutto per l'incipit). Scopriremo che videoarte è tutto il film, ricordandoci del primo e buon caro Steve McQueen che lentamente, da Hunger a 12 Anni Schiavo ha perso la sua volontà di fare tecnica a prescindere dalla narrazione. Qui quell'intento è esaltato all'ennesima potenza: potrebbe non esserci trama – che in effetti non c'è, o che è semplicemente l'elaborazione di questo lutto – perché quello che conta sono le immagini, anzi la costruzione delle immagini, anzi la loro regia. Per accettare la morte si rinuncia completamente al suono e quasi anche al dialogo a discapito di un silenzioso scorrere dei giorni alienante e alienato, un giro con gli amici del defunto, un pianto nella vasca da bagno, un ritrovato rapporto fisico con il padre. A noi spettatori è però impossibile empatizzare col personaggio, coi personaggi, che sono delle lastre di ferro impossibili da penetrare, degli inespressivi, asettici corpi che si relazionano senza peso, senza trasporto. L'asetticismo dei luoghi e di chi ci abita è l'asetticismo di tutto il film che rimanda a quelle atmosfere un po' autoctone e irreali, congelate, di Elephant ma ancora meglio di Paranoid Park: il BMX (Bicycle Motocross) è il collante tra questi adolescenti che non hanno niente da dire né la maturità adatta per dirlo, riguardo questo decesso precoce, e allora condividono la passione e le vie del quartiere in silenzio, mentre il tecnicismo della telecamera gli corre dietro. Ma qualcosa è cambiato e, anche se per pura suggestione o auto-convinzione, Jesse il protagonista (il giovanissimo e androgino Cesar De Sutter della locandina, che non interpreta la Violet del titolo) sa di essere guardato con occhio diverso, in quanto unico testimone della morte di Jonas; sa di dovere alle famiglie e agli amici delle spiegazioni, dei racconti, e vive il peso di questa partecipazione involontaria con notti insonni e tentate fughe, con la testa bassa e la solitudine. La scena finale è potente quanto la prima, ma più destabilizzante. I titoli di coda completano questo quadro di novità, dimostrando che è molto più leggibile un blocco di testo già presente sullo schermo che un'epigrafe infinita che scorre a fondo nero. Ma Bas Devos, al suo esordio al lungometraggio, sa che la sua operazione è di difficile masticazione, e infila un concerto rock, quasi metale, durante il quale le opinioni di gusto sono discordanti: perché alcuni spettatori cercano il suono altri il rumore.
domenica 23 novembre 2014
un chien.
Addio Al Linguaggio
Adieu Au Language, 2014, Francia, 70 minuti
Regia: Jean-Luc Godard
Sceneggiatura originale: Jean-Luc Godard
Cast: Héloise Godet, Kamel Abdeli, Zoé Bruneau,
Christian Gregori, Jessica Erickson
Voto: n.p./ 10
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Detto addio alla narrazione tradizionale già col tecnicismo frammentario del Fino All'ultimo Respiro che gli diede fama, detto addio alla trama a discapito del messaggio, come conferma l'ultimo lavoro in sala Film Socialista, e abbracciata la nuova tecnologia insieme a Peter Greenaway in 3x3D, la lunga filmografia di Jean-Luc Godard fatta di corti e soprattutto documentari, aggiunge un tassello inclassificabile, che non rientra nella prima categoria (sebbene duri una sola ora) né nella seconda: non è un documentario ma ha troppi pochi spunti narrativi, e soprattutto troppo mal ordinati, perché sia un film. Ecco, è un saggio: se esistesse un termine per identificare, come i libri, le opere che non raccontano storie o meglio se ne avvalgono per raccontare altro. Ciò di cui il vate della Nouvelle Vague si avvale, questa volta, è: su un piano, un calderone di elementi artistico-filosofici, psichiatrico-psicologici, di critica letteraria e sociologici; dall'altra parte, di tutta la gamma di mezzi e strumenti che il cinema gli mette a disposizione. Entrambe queste cose sono nei titoli di coda, avendo un cast misero ed evanescente: gli preferisce i nomi degli obiettivi, o William Faulkner e Claude Monet che cita di sfuggita (ingiustificata la presenza fisica di Mary Shelley). Da una parte: una coppia in crisi, forse due coppie, forse in crisi perché lei ama un altro – e poi un cane, l'unico essere vivente «che ama l'altro più di se stesso», che è nudo «ma non come è nudo l'uomo», un cane libero perché solo, alienato, estraneo al mondo, che passa attraverso le stagioni, si rotola nell'erba e nella neve, e che poi incontra questa coppia, o questa coppia di coppie. Dall'altra parte: un 3D fastidioso, impossibile da seguire soprattutto per noi che vediamo il film coi sottotitoli (noi = le poche persone che hanno accesso alle uniche tre sale che proiettano la pellicola a Milano, Roma, Bologna, prima che l'11 dicembre il film sia disponibile allo streaming e al download), un 3D che si sfrutta al massimo, creando piani non solo per le immagini ma anche per le parole, che stratifica i capitoli di cui è composto, Natura e Metafora, e dentro al 3D tutti gli obiettivi, le riprese oblique, i pixel, le saturazioni eccessive, i contrasti, le immagini perfette e pulite e poi quelle sgranate e poi il nero, le voci fuori campo e i rumori assordanti che si interrompono, si sovrappongono, costringono i sottotitoli a sovrapporsi e lo spettatore a scegliere se vedere o leggere, prima che sia impossibilitato a entrambe le cose. Si esce dalla sala frastornati, distrutti, provati: è un film-esperienza che non è un film da cinema (motivo per il quale esce solo in tre sale), che delude tutti a meno che non conoscano a fondo il regista o non hanno le chiavi per decifrare le immagini. Basterebbe soffermarsi, per una volta, sul titolo. L'addio al linguaggio è esattamente la trama e la sostanza e la tecnica del film. Mille modi, e quindi nessuno, per raccontare una storia semplice mentre il mondo è presente, mentre le persone che la vivono hanno pensieri, filosofeggiano, creano neologismi, vivono le stagioni, trovano cani. A differenza dell'ultimo Fellini che non aveva più niente da dire «ma lo diceva benissimo», l'ottantacinquenne Godard, un po' come il centenario Manoel de Oliveira, sa di stare raggiungendo la morte e nella sua cultura, nel suo fervore politico, si accinge a incontrarla con gli strumenti dell'oggi e non con quelli degli esordi, con temi e problemi attuali, con sperimentazioni artistiche che vogliono ancora provocare, creare fastidio. L'addio al linguaggio è chiaro nelle prime scene: bancarelle di libri e insieme dita sugli smartphone, senza che nessun volto sia inquadrato. Da un lato, la spocchia di chi i libri li ha letti e dall'altro la critica ai nuovi strumenti di alienazione, da cui la crisi di coppia. Ma il linguaggio perso è anche quello del cinema, che è finito dentro la televisione che è finita per non essere vista: sempre accesa come sottofondo di ogni scena. L'esperienza sconvolgente in sala trova giustificazioni logiche: ma è difficile ammetterlo tanto quanto dare un voto.
sabato 22 novembre 2014
stare da soli ha sicuramente dei vantaggi.
Lo Sciacallo
Nightcrawler, 2014, USA, 117 minuti
Regia: Dan Gilroy
Sceneggiatura originale: Dan Gilroy
Cast: Jake Gyllenhaal, Rene Russo, Riz Ahmed,
Bill Paxton, Kevin Rahm, Kent Shocknek, Sharon Tay
Voto: 7.9/ 10
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Louis Bloom si guadagna da vivere rubando biciclette e rivendendole, infiltrandosi nei depositi di rame e sottraendolo, spacciandosi non per un ladruncolo ma per un esperto – preparato su più fronti, e la preparazione giunge dal Web, questo buco oscuro da cui Louis non si fa risucchiare ma che risucchia, da cui ricava tutto, ogni dato, tutta la conoscenza, i corsi, le specializzazioni, i mestieri. È disposto a qualsiasi mestiere: si offre dovunque vada, ma è un periodo di crisi anche nelle Americhe e trova ben poco. Di lui non sappiamo il nome per la prima mezz'ora di film, non sappiamo la provenienza per la prima ora, a malapena intuiamo quali siano le sue poche stanze e finita la pellicola ancora non abbiamo idea di chi sia, cos'abbia veramente studiato, come mai viva da solo, alienato dal mondo, estrapolato, privo di affetti, famiglia, amici. In una scena, in una potente scena, intuiamo però di questa forma sottesa di autismo nel senso socialmente accettabile del termine: privo di filtri, Louis dice quello che pensa, fa quello che crede, la sua mente funziona a percorsi: c'è un obiettivo e un'unica strada per raggiungerlo, che lui intraprende. Ma questa non è la trama: la trama è la storia di come diventa videoreporter notturno, partendo da una telecamerina comprata con i guadagni di un furtarello fino alle botte di fortuna che lo portano a vendere i servizi per un notiziario locale dagli ascolti in calo. La trama però è nulla di fianco al personaggio; perché il film è stato fatto, scritto, inventato, attorno al personaggio. Il personaggio è il film – e da questa constatazione nascono e si sviluppano le pecche del prodotto finito. Dan Gilroy, sceneggiatore al suo debutto dietro la macchina da presa, sceneggiatore tra le altre cose di The Fall, visionario e splendido esempio di storia nella storia che se non avesse delle immagini così potenti sarebbe una robetta piena di errori di scrittura, ci illude e spesso ci convince con sequenze pazzesche, inseguimenti, montaggi forti, tensioni soprattutto sul finire e un colpo di scena bang bang – e poi intermezza queste chicche con sciape sequenzuole figlie del genere americano, trovate un po' banalotte, un po' fuori luogo, sempre molto brevi, e menomale. Salva la situazione Jake Gyllenhaal che, in quanto interprete del personaggio, è per la proprietà transitiva il film. Scavato in viso, magro, dagli occhi immensi, allucinati, sempre aperti, sempre a parlare, a parlare per paragrafi interi, si sobbarca tutte le scene eccetto nessuna, non manca mai, è sempre nel quadro – e lo è anche quando i suoi insegnamenti trapelano dalla bocca di Rene Russo, la donna che ha puntato e che, nel suo percorso obiettivo-raggiungimento dell'obiettivo, deve avere. Lei lavora per un telegiornale diurno: è meraviglioso il modo in cui la storia affianchi questi due aspetti poco considerati della vita cinematografica: la notte e l'alba. La notte, fatta quotidianamente di disastri e disagi, e il giorno, fatto di quelle notizie della sera prima, con la gara a chi le mandi in onda prima. Riz Ahmed è la terza figura che completa questo quadro monocentrico: un alter ego di Louis senza lavoro, senza soldi, col problema del letto tutte le sere, ma con un approccio alla situazione totalmente diverso. Grazie a lui esistono i momenti comici più riusciti, le battute più azzeccate. E si riflette molto quando si esce dalla sala, sulla qualità dell'opera: probabilmente non si arriva a nessuna risposta.
martedì 18 novembre 2014
prendete e bevetene.
The Look Of Silence
id., 2014, Danimarca/ Finlandia/ Indonesia/ Norvegia/ UK, 99 minuti
Regia: Joshua Oppenheimer
Cast: Adi Rukum
Voto: 7.9/ 10
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Ricordo che quando vidi Changeling ero arrabbiatissimo: stringevo le unghie nei pugni sui braccioli, e ricordo che la sala era piena, ed eravamo tutti arrabbiati. Una sensazione come quella (di ingiustizia, vergogna per il complottismo, sfiga madornale) non è tornata neanche coi film sulla Seconda Guerra, e anche di fronte a storie vere è sempre comparsa con un trasporto minore. Fu solo l'anno scorso, di fronte alla visione, alla presentazione e alla conferenza di The Act Of Killing, che il disagio è esploso. Inutile ripetere l'accaduto per intero: siamo nel 1965, in Indonesia, dove il regime golpista stabilisce la morte di ogni civile comunista e rade al suolo più di un milione di persone. Quel film – a cui rimando sinceramente, tanto al link quanto alla visione – era nato quasi per caso, dalla presenza del regista inglese Joshua Oppenheimer in Indonesia, la scoperta di questa storia tenuta nascosta all'estero, il divieto di raccontarla prendendo i superstiti e quindi la trovata geniale di ingannare i carnefici con una serie di riprese che ricostruivano gli episodi fatti di lustrini, costumi pacchiani, sperpero di denaro: quella gente è ancora al governo, ancora libera in città; sono persone arricchite, orgogliose delle loro vittime, dei morti ammazzati con le proprie mani, che di fronte alla telecamera interpretavano tanto il ruolo dei deportati quanto quello degli assassini cadendo a volte in disgusti subito mascherati da ilarità e risate aneddotiche. Si rimaneva agghiacciati davanti a quelle immagini, e lo si rimane ancora adesso, a un'anno di distanza, ci rimane Adi Rukum, unico volto a cui si associa il nome in questa seconda pellicola di quello stesso regista che di nuovo conta nei titoli di coda una serie di Anonimo tra la troupe e il cast, tutti terrorizzati dall'ipotesi di essere scoperti, di essere minacciati, di vedere «il veleno nell'acqua offerta», come dice qui la madre di Adi, pregandolo di smetterla di andare in giro a parlare con gli assassini di suo figlio. Perché questa volta il punto di vista è opposto: Adi non ha mai conosciuto il fratello, morto due anni prima che lui nascesse, e sua madre non si è mai liberata del dolore di averlo perso, visto deportare da casa con la menzogna di accompagnarlo in ospedale e poi massacrare nel camion, evirare, pugnalare nel costato fino a far uscire gli intestini. Adi incontra uno per uno i carnefici sopravvissuti e le famiglie di quelli deceduti, e racconta loro la storia di quella morte fra tante. Alcuni orgogliosamente rievocano l'accaduto, altri nascondono la vergogna dietro urla e ordini di uscire da casa. Il tutto inframmezzato dalle intime immagini della vita domestica, dei bagni al padre vecchissimo e ormai demente, i canti indonesiani, la vegetazione, la fauna, i tessuti. Le splendide sequenze e il crudo linguaggio però perdono la forza del primo film, che si contraddistingueva per una necessità diventata virtù (quella di poter inquadrare solo i gangster), per cui le ricostruzioni vanesie degli sgozzamenti sui terrazzi non avevano controcampo pietoso, restavano nel loro grottesco essere Storia Nazionale, non venivano immediatamente rimproverati dallo strazio personale. Lì succedeva che il quasi-protagonista Anwar Congo a furia di giocare a riprodurre le morti e interpretare di tanto in tanto il crepante finiva con l'avere conati di vomito, mancamenti, perché la vergogna somatizzata smetteva di reprimersi. In The Look Of Silence, dove lo sguardo è quello di un ottico/ oculista a domicilio, che smette il suo silenzio, dal principio alla fine siamo in condizione di arrendevolezza: le cose sono andate così, non ci possiamo fare niente, anzi non dovremmo farci niente perché rischiamo altrimenti di farle succedere di nuovo – come minaccia uno dei generali. Ma la rabbia resta, e l'unico modo per placarla è considerare che siamo davanti al secondo film in due anni che tratta questo argomento finora nascosto.
European Film Awards - nominations.
Paolo Virzì alla regia de Il Capitale Umano e Valeria Bruni Tedeschi come interprete, Pierfrancesco Diliberto aka PIF per la commedia La Mafia Uccide Solo D'estate, Alessandro Rak regista del film d'animazione napoletano L'arte Della Felicità, Gianfranco Rosi documentarista romano con Sacro GRA – sono questi gli italiani in gara ai 27esimi European Film Awards, che vedranno l'annuncio dei vincitori la sera del 13 dicembre a Riga, la Capitale della Cultura Europea 2014, vincitori scelti dagli oltre 3000 membri che non hanno inserito la nostra proposta italiana per gli Oscar nella cinquina dei migliori film: ci sono però i super-favoriti Ida, Il Regno D'inverno, Leviathan e Turist – quest'ultimo in anteprima la prossima settimana al Festival di Torino – ai quali fa compagnia il mediocre Nymphomaniac che conta anche una nominations per i due attori protagonisti. Ma è il film polacco di Pawel Pawlikowski che porta avanti la gara con cinque candidature e un premio già ottenuto: la splendida fotografia in bianco e nero che ritrae una giovane suora e la sua navigata zia alla scoperta del loro più profondo lato femminile. Segue bene anche Locke, micro-film con un solo attore in una sola automobile e molte conversazioni telefoniche nella sera della sua più importante decisione, e ancora dietro Due Giorni, Una Notte dei geniali fratelli Dardenne, per i quali Marion Cotillard è la più promettente migliore attrice in gara. Con giustizia, è andato ad Under The Skin il premio per la musica: una sperimentale colonna sonora di Mica Levi. Entrambi i film concorrenti della nostra pellicola animata sono stati selezionati dall'Academy, mentre Party Girl in lizza contro PIF è stato la Camera d'Or di questo Festival di Cannes.
Di seguito e dopo il salto tutte le nominations e i vincitori già annunciati.
film
Ida di Pawel Pawlikowski (Polonia & Danimarca)
Il Regno D'inverno di Nuri Bilge Ceylan (Turchia, Francia e Germania)
Leviathan di Andrey Zvyagintsev (Russia)
Nymphomaniac Director's Cut - Volume I & II di Lars von Trier (Danimarca, Germania, Francia e Belgio)
Turist (Force Majeure) di Ruben Östlund (Svezia, Danimarca, Francia e Norvegia)
commedia
commedia
Carmina Y Amén di Paco León (Spagna)
Le Week-End di Roger Michel (UK)
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto (Italia)
Le Week-End di Roger Michel (UK)
La Mafia Uccide Solo D'estate di Pierfrancesco Diliberto (Italia)
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Sacro Gra,
Turist,
Under The Skin,
Valeria Bruni Tedeschi,
Winter Sleep
footloose.
Guardiani Della Galassia
Guardians Of The Galaxy, 2014, USA, 121 minuti
Regia: James Gunn
Sceneggiatura non originale: James Gunn & Nicole Perlman
Basata sul fumetto di Dan Abnett & Andy Lanning
Cast: Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Vin Diesel,
Bradley Cooper, Lee Pace, Michael Rooker, Karen Gillan,
Djimon Hounsou, John C. Reilly, Glenn Close, Benicio Del Toro
Voto: 7/ 10
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1988. Il mangianastri portatile con cuffie in spugna manda l'Awesome Mix Vol. 1 che astutamente Spotify ha adesso creato come playlist (vedi sotto) e Peter Quill è in ospedale ad aspettare che la madre spiri, divorata dal cancro, esanime, circondata dalle Marie piangenti. In punto di morte lo paragona al padre che non sappiamo dove sia, come ogni americano farebbe in punto di morte, e rifiutandosi di tenerle la mano Peter perde l'ultima occasione di sentirla calda: la lezione gli servirà per salvare il mondo. Viene cacciato dalla stanza, corre dall'ospedale e una navicella improvvisa lo risucchia strappandolo alla terra. 2014. Siamo su un altro pianeta, uno dei molti pianeti abitati dai molti nuovi ceppi umanoidi (attenzione: non terrestri) che popolano la galassia. Peter è una specie di ladruncolo su commissione, un gangstar interstellare, si fa chiamare Spacelord e con la stessa solita musicassetta nelle cuffie riesce a recuperare una misteriosa sfera argentea dal ricordo di Fantaghirò: viene circondato, attaccato, ma lui e la sua maschera evanescente hanno la meglio e riescono a fuggire a bordo di un'astronave che nessuno pulisce dal giorno dell'acquisto. Siamo in una costola del Fantaghirò di cui prima: alberi antropomorfi, animali parlanti, persone verdi, persone fucsia, persone blu. Interni luridi, scenografie e costumi apparentemente posticci, fatiscenti, eppure così meticolosamente lavorati (anche in post-produzione); certo sono effetti speciali impeccabili, un montaggio sonoro da inchino, ma in questo mare di modernismo il regista James Gunn ci mette del suo: è pur sempre l'autore di Super!, cine-comic su due supereroi senza poteri ma con qualche turba mentale, che indossata una tutina credono di poter fracassare il cranio ai passanti ritenuti malvagi senza rischiare la gattabuia. L'aspetto grottesco, lo humor, il kitch e il gusto dell'assurdo incontrano una super-produzione Marvel, e questo è l'unico risultato che si poteva ottenere. Hanno scritto: il miglior film Marvel di tutti i tempi; sarà vero?, io non lo so perché è l'unico film Marvel che ho visto e non ho il metro di paragone dal fumetto, fatto sta che si riconosce una volontà di non guardare solo in avanti ma anche indietro: l'incipit degli anni '80 e la colonna sonora tutta di vecchie glorie, l'uso di persone colorate piuttosto che mostri o creature totalmente digitali... Soprattutto, la base mai seria e perennemente comedy su cui la sceneggiatura si basa: dalla scena in balconcino tipica del ballo di fine anno di ogni high school, con lui e lei che sicuramente si baceranno, che scade nel racconto di Footlose, fino a un doppio-campo in cui dietro succede l'opposto di quello che viene spiegato in avanti. Come Gunn è al posto giusto e a proprio agio dietro la macchina da presa, così lo è il suo protagonista Chris Pratt, americanotto scemotto simpaticone che la scampa sempre, belloccio e con la tradizionale shirtless scene; gli farà da spalla mogia Zoe Saldana, la cui filmografia è zeppa di blockbuster fantascientifici, che sveste i panni blu di Avatar per farsi verde e figliastra del cattivo dei cattivi Lee Pace, irriconoscibile ma sempre splendido, tristemente nostalgico di The Fall. L'ex WWE Dave Bautista completa il bizzarro quadretto insieme ai due non-live-action personaggi della gang, l'alberoide Groot e il procione Rocket, rispettivamente doppiati in originale da Vin Diesel e l'onnipresente Bradley Cooper. La gang del bosco funziona: si dice, perché tutti privi di qualsiasi potere e qualsiasi missione morale, sete di vendetta, passato burrascoso da rivangare. Cercano di scappare dal carcere e poi semplicemente di accaparrarsi un bottino grazie a una reliquia voluta da tutti; funzionano anche perché si completano nei dialoghi, dal bisillabico all'aulico, dal silenzioso al parlantino. La psicologia scavata di questi personaggi non va però così a fondo: e nella fretta dell'incipit del film, che racconta tutto così velocemente da confondere, ci si rende conto di quanta carne al fuoco è stata messa e di quanto questa sia, in fondo, non così diversa dalle altre grigliate.
(Dopo l'interruzione lo streaming della colonna sonora).
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venerdì 14 novembre 2014
il lato negativo.
Una Folle Passione
Serena, 2014, USA/ Repubblica Ceca, 110 minuti
Regia: Susanne Bier
Sceneggiatura non originale: Christopher Kyle
Basata sul romanzo Serena di Ron Rash
Cast: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Toby Jones,
Sean Harris, Rhys Ifans, Sam Reid, Blake Ritson,
Ana Ularu, Charity Wakefield, Mark O'Neal
Voto: 5/ 10
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Candidata all'Oscar per il bel Dopo Il Matrimonio e poi vincitrice per il niente-di-che In Un Mondo Migliore, Susanne Bier ha lentamente abbandonato la terra natìa per spingersi in territorio hollywoodiano passando dalla commedia “made in Italy” che a Venezia dell'anno scorso ha diviso il pubblico in due: io ero tra quelli divisi male, perché Love Is All You Need non aveva praticamente neanche un pregio. Abbandonata la Danimarca, ha visto il suo Non Desiderare La Donna D'altri trasformarsi nel Brothers tutto U.S.A. e saltando da un genere all'altro si è completamente persa, perduta, mantenendo salda la volontà di raccontare l'amore, le storie d'amore, le storie di coppie, le coppie e l'amore, le coppie e le storie d'amore che finiscono, l'amore finito affrontato dalle coppie. C'era una folle passione nella Donna D'altri che bisognava mettere a tacere e c'era una folle passione in Love dove folle ha l'accezione simpatica del termine – ed era folle la relazione omosessuale e il matrimonio della figlia. Nessuna di queste storie era accettabile non tanto per la latente assurdità del racconto quanto per il modo in cui erano fatti, rasentando le banalità, privandosi del trasporto sentimentale. Ecco: Serena, in italiano Una Folle Passione, completamente made-in-USA, è il punto di arrivo di questo percorso algido, di freddezza estrema: un racconto fatto dall'esterno, asettico. Dispendio di energie e di denari per ricostruire l'ambiente boschivo in cui Bradley Cooper cresce e lavora e cresce lavorativamente: vede cavalcare la giovane e bellissima Jennifer Lawrence e decreta che sarà sua moglie: «mi vuoi sposare?» le chiede per prima cosa, prima ancora di dirle ciao, e lei ride, e se ne vanno verso una ellissi ben pensata – forse la sola cosa ben pensata del film – che ci riassume e taglia tutto ciò che di romantico non vogliamo vedere, di cui siamo saturi: il sesso, l'amore, il matrimonio, la frequentazione, il principio di gravidanza. La Lawrence aveva in mano un personaggio complessissimo psicologicamente: orfana di entrambi i genitori, ha perso anche il fratello in un incendio: è stata salvata, raccattata dalle macerie, dopo giorni dal disastro, ancora urlante. Tutto questo non lo vediamo, ma ci aspettiamo di vedere i risultati di questo trauma: una possessione estrema, altissima, la paura dell'abbandono, l'arrivismo, il cinismo. Però, la più brillante tra le giovani attrici americane ricicla le facce disperate e i musi tremanti di Un Gelido Inverno e la rigidità negli Hunger Games e non aggiunge niente di nuovo: le viene concesso un primo piano straziante post-aborto, un fiume di lacrime spontanee e durature che ci convincono ma fino a un certo punto – e dietro di lei c'è il compagno di molti film, con cui ha funzionato (a detta degli altri) nel Lato Positivo e che qui non s'incastra. Eppure la Bier ha sempre avuto un dono nel dirigere attori uomini: Mads Mikkelsen ne è una prova. Dopo degli imbrogli economici e un arricchimento spropositato, un figlio illegittimo e una gravidanza difficoltosa, tutti ingredienti da soap-opera, l'epilogo sarà disastroso, una doppia rassegnazione che ritorna al fuoco, ma noi spettatori assistiamo alla scena in totale lucidità, senza trasposto, senza la disperazione dei veri amori folli, drammatici, delle passioni che divorano tutto dall'interno, di Romeo e di Giulietta, di Fausto e Anna.
Oscar 2015 - film d'animazione.
Ogni anno, se le industrie cinematografiche riescono a mandare in sala più di sedici pellicole animate, allora l'Academy ha la possibilità di creare una shortlist di cinque titoli da cui scegliere poi il Miglior Film d'Animazione dell'anno. Per il 2015 è stata pubblicata una lista di venti titoli: tra questi verranno scelti i cinque finalisti e poi il vincitore. Le nominations agli Oscar 2015 saranno annunciate giovedì 15 gennaio alle 5:30 americane, le nostre 14:30 circa, mentre la cerimonia di premiazione si svolgerà il 22 febbraio in diretta per la ABC dal Dolby Theater di Hollywood, con la conduzione di Neil Patrick Harris. Moltissima America certamente, per questa categoria, e qualche uscita dal Giappone: La Storia Della Principessa Splendente è sicuramente il film che potrebbe farcela vista l'innovazione tecnica e la poesia visiva; compare anche la solita Francia: Jack E La Meccanica Del Cuore, Song Of The Sea e Minuscule che da noi è appena uscito in DVD. I titoli che però si scontreranno con maggior cipiglio sono il disneyano Big Hero 6, senza concorrenti Pixar, il quasi-messicano Il Libro Della Vita prodotto da Guillermo Del Toro, Dragontrainer 2 osannato dalla critica come il primo che, però, non vide statuetta e The Lego Movie, un tecnicismo minuziosissimo nel ricreare i mattoncini più famosi della storia con un finale live-action che potrebbe non piacere alla giuria. Bocciati sicuramente Planes e Rio; Trilli ci prova anche questa volta senza sicuramente farcela e resta in dubbio Mr. Peadboy & Sherman dal regista de Il Re Leone che forse non ha avuto ciò che si aspettava.
Dopo l'interruzione tutti i candidati alla nomination, i registi e i paesi d'origine.
domenica 9 novembre 2014
dove finisce l'arcobaleno.
#ScrivimiAncora
Love, Rosie, 2014, Germania/ UK, 102 minuti
Regia: Christian Ditter
Sceneggiatura non originale: Juliette Towhidi
Basata sul romanzo Scrivimi Ancora di Cecelia Ahern (Bur)
Cast: Sam Claflin, Lily Collins, Suki Waterhouse,
Art Parkinson, Lily Laight, Tamsin Egerton, Christian Cooke
Voto: 6.9/ 10
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Alex e Rosie si conoscono da quando sono piccoli, da sempre migliori amici, per il di-lei diciottesimo compleanno vanno a sballarsi a furia di shottini sulle note di Crazy In Love e finiscono col baciarsi al bancone; ma lei cade dallo sgabello, (s)batte la testa, il giorno dopo è oggetto di scherni da parte dei due fratellini (che quasi non rivedremo mai più) mentre Alex, seduto sul letto accanto, scoprirà che non ricorda niente, bacio incluso. Arriverà il ballo di fine anno: ci andranno insieme per tacita convinzione reciproca, e poi finiranno col non andarci: il più figo della scuola invita lei, la più figa invita lui – ballando si guardano, si ignorano, si separano. Sarà la notte del fattaccio: il preservativo le rimarrà infilato nella vagina e l'inseminazione andrà in porto: Alex si prepara per il college in America e Rosie resta in Inghilterra a partorire una figlia di cui si prenderà cura per i successivi cinque anni. Niente di nuovo sul fronte cinematografico, a cominciare dall'imbarazzante titolo italiano che mischia la nuova moda dell'hashtag con una frase che non trova giustificazione narrativa. Alex e Rosie si scrivono ancora, si scrivono sempre, ma per SMS, dato che lei e il suo Nokia 33-30 non possono neanche aspirare a Whatsapp, e dato anche l'anno 2009 a cui arriva infine la pellicola. Si scrivono anche per lettera, ma non sempre lei riesce a leggere. Le due vite scorrono diversissime e parallele e mettono in contrasto l'arrivismo economico-sociale da una parte e l'umiltà con cui si lavano i pavimenti dall'altra, ma è analizzato in modo semplice. Tutto, effettivamente, è semplice: talmente semplice che si crede a un'adolescente figlia di genitori cattolici che non abortisce e con accettazione generale dà al mondo e a se stessa una figlia priva di padre, il quale trova lavoro a Ibiza e non si fa sentire per degli anni. Si pensa all'affidamento altrui: ed ecco Juno, il suo modo qui trasposto di non prendere posizioni sull'interruzione di gravidanza. L'aspetto genitoriale non è profondo in nessuna generazione: peccato, poteva essere una trovata alla Gilmore Girls dove anche lo stacco tra mamma e figlia è di troppi pochi anni, e la figlia supera in maturità una mamma che qui finisce ammanettata alla testata del letto dopo una notte fetish con poliziotto dal fisico mozzafiato. Ogni fisico è mozzafiato, quello dei maschi soprattutto ma anche quello di Lily Collins ex Biancaneve che in trent'anni di sua vita che ci viene mostrata non prende un chilo né si consuma in una smagliatura. Anche Alex, studente di Medicina e poi medico che non esercita mai, nasconde sotto i bei vestiti due pettorali preponderanti, e finisce sposato o fidanzato a modelle o presunte tali. Matrimoni e fidanzamenti sono tutti e sempre vissuti male, per costrizione propria mai convinta: queste due persone sono fatte per stare insieme e lo sanno e lo sa il pubblico ma l'incomunicabilità umana impedisce loro di coronare il sogno. Non ci aspettiamo certo l'incomunicabilità com'è affrontata da Antonioni, ma almeno un film leggero e recente che ormai è metro di paragone per ogni commedia romantica doganale: Like Crazy, storia di un amore a distanza tra USA e UK e della modernità con cui è affrontato. Lì vediamo le vite scorrere parallele non con questo semplicismo, con questa ovvietà. Il tutto viene però salvato da una migliore amica e da una condizione irrealistica che scaturiscono in frasi tipo «quando credo di avere problemi penso ai tuoi e l'umore mi migliora». Neanche il regista (di Kebab For Breakfast) si prende tanto sul serio e questa è la dote del film – insieme alle fossette di Sam Claflin.
sabato 8 novembre 2014
Gargantua.
Interstellar
id., 2014, USA/ UK, 169 minuti
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura originale: Jonathan Nolan & Christopher Nolan
Cast: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain,
Michael Cane, Wes Bentley, Matt Damon, Casey Affleck, Mackenzie Foy,
Elyes Gabel, Topher Grace, Ellen Burstyn, Jon Lithgow, Colette Wolf
Voto: 6.5/ 10
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A un'ora e mezzo dall'inizio mi domando: ma dov'è Jessica Chastain, il cui nome è scritto sulla locandina? E Jessica Chastain compare, chiamata al mio cospetto, e mi dico: se adesso il film parla di lei gli dò dieci. Ma il film non parla di lei: non smette mai di parlare di Matthew McConaughey, l'attore dell'anno, il nuovo film di Christopher Nolan che è il regista del decennio. Anni fa, questo genietto londinese ci regalò Memento, ci regalò The Prestige, sceneggiature scritte insieme al fratello (come questa) fatte di incastri logici pazzeschi, di richiami e rimandi, scatole cinesi, svolte inaspettate, promesse, prestigi. Poi è arrivato Batman ed è stata la fine: la fine per il cinema intelligente e l'inizio di un nuovo genere conclamato dal blockbuster, il cinema da cassetta un po' cervellotico davanti al quale tutti si piegano e che nasconde invece grasse lacune narrative, approssimazioni, trovate buttate solo per accaparrarsi due Oscar: non mi riferisco alle formule fisico-matematiche che in Interstellar vengono scritte su lavagne e carte, né ai codici binari che nascondono soluzioni a quesiti di cui non siamo stati fatti partecipi – mi riferisco ai livelli onirici di Inception che senza motivazione alcuna lanciavano i personaggi in inseguimenti, scalate sulla neve, sparatorie (anche lì c'era l'attrice di quell'anno, Ellen Page), e visto quello visto questo: ne è una citazione l'orizzonte ribaltato alla fine, come il personaggio di Matt Damon fatto su quello di Marion Cotillard del Cavaliere Oscuro. Adesso: piantiamola con le venerazioni a priori, con le recensioni lodevoli subito, i voti altissimi: questa volta il gioco narrativo a strati neanche c'è, com'è vero anche che non c'è un trionfo di battaglie inutili e montaggi sonori. Nolan addirittura si carica la telecamera in spalla per costruire l'incipit, costruito benissimo, dove l'abilità da scrittore emerge subito: non capiamo se non da accenni che ci troviamo in un futuro prossimo, che la Terra si sta consumando, la gente muore di fame, l'unica risorsa alimentare è il mais e ironicamente al contrario degli sforzi attuali il mestiere più gettonato sarà quello dell'agricoltore. Sempre ironicamente, si cita l'Apollo 13 e la sua mancata esistenza, trovata geniale per mandare in bancarotta i sovietici. McConaughey è un ex pilota che sogna spesso l'incidente che gli causò la perdita del lavoro. Fu un errore di macchina: ed ecco 2001: Osiddea Nello Spazio, la pellicola-fondamenta di questa, il Vangelo da cui attingere e copiare movimenti di macchina, silenzi nell'etere, musiche classiche. Di 2001 vedremo anche il monolite, umanizzato a robot, che incontra Hal e la sua voce ma non la sua volontà di gerarchia. Tutto questo, e il premio Oscar Anne Hathaway, nella spedizione interstellare che vedrà i nostri eroi alla ricerca di un nuovo pianeta da abitare, per lasciare la morente terra, con un piano A che prevede il ritorno in patria e un piano B che conta sugli embrioni congelati. Tutto è pensato minuziosamente, se non fosse che McConaughey ha il pallino di dover rivedere i propri figli, già orfani di madre, che crescono più velocemente di quanto lui non faccia: è grazie alla bambina che ha scovato la missione NASA, bambina ossessionata dal fantasma che le comunica informazioni criptate attraverso la caduta di libri o lo spargimento di sabbia. Eccola la cagata: la conclusione carina in partenza ma sviluppata male, giustificata male, la trovata pressappochista con cui spiegare e concludere il tutto: e prima di concludere il finale che in pressappochismo e approssimazione esplode, lasciandoci senza spiegazioni narrative ma, in compenso, come dicono alcuni, carichi di emozioni: ma un film non si fa solo con la musica di Hans Zimmer e il citazionismo di Rabelais e Sant'Agostino per cui certo, un prodotto notevole in tutti i suoi aspetti tecnici, nel suo staccarsi da Kubrick che elogiava la macchina-navicella facendola danzare nello spazio (mentre Nolan a malapena ci fa vedere le ali), un montaggio parallelo che alleggerisce le tre ore di storia – ma sono tre ore!, e in tre ore lo spettatore merita di veder sciolti tutti i nodi, e Gravity, nella sua pur imperfezione, ci ha dimostrato un anno fa che nella metà del tempo si possono toccare vette altissime ancora non superate.
venerdì 7 novembre 2014
oh Django Django.
Un Milione Di Modi Per Morire Nel West
A Million Ways To Die In The West, 2014, USA, 116 minuti
Regia: Seth MacFarlane
Sceneggiatura originale: Set MacFarlane, Alec Sulkin, Wellesley Wild
Cast: Seth MacFarlane, Charlize Theron, Amanda Seyfried, Liam Neeson,
Giovanni Ribisi, Neil Patrick Harris, Sarah Silverman, Christopher Hagen
Voto: 5/ 10
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La genialità non totalmente demenziale de I Griffin ha condotto la più comica serie animata d'America – comprensibile da noi solo in parte – a una nomination agli Emmy come Miglior Serie Comedy (e non animata) insieme a cinque altri telefilm fatti di persone vere, qualche anno fa. Fu l'apice della fama di un cartoon e di un creatore che poi avrebbe trovato incredibile ascesa: il film Ted al cinema, fatto di attori veterani (Mila Kunis doppia in originale Meg), la presentazione degli Oscar due anni fa – e sono stati, questi, tutti esperimenti che Seth MacFarlane ha tristemente fallito: sommerso di aspettative, non ha saputo rispondere né all'altissimo apporto comico che si supponeva potesse portare al cinema né alla ventata di giovinezza che gli Academy Awards cercano da anni alla loro conduzione. Torna in sala con un western che è western già dal titolo: Un Milione Di Modi Per Morire pare voglia anticiparci una serie di sparatorie, esplosioni, rapine, inseguimenti che sono tipici dei film delle nuove Americhe pieni di saloon, nativi e donzelle, sceriffi e taglie sui banditi. Il clima è quello, e le scenografie pure (ed è incredibile, nel senso difficile da credere, che tanto denaro sia stato usato per ricostruire questi set), e così i costumi e i ruoli imposti; ma la trama rasenta il cliché dei film di formazione, spesso animati: la pecora rosa tra le pecore nere incapace di fronteggiare un nemico, rispondere al fuoco, governare la fidanzata Amanda Seyfried zuccherosa e benvestita col veleno in bocca all'occorrenza. Seth, che si dà il ruolo di protagonista, è lo zimbello del villaggio, allevatore di pecore che somigliano al suo carattere, privo di iniziative, monotono nella sua condizione di vita, uno sfigato; è oggetto di scherni dal geniale Neil Patrick Harris osannato per i suoi baffi di cui si prende una cura maniacale e con i quali raggiunge spesso l'orgasmo; è amico di Giovanni Ribisi, azzeccatissimo nel ruolo, che a sua volta è fidanzato con la prostituta Sarah Silverman, con la quale intrattiene un rapporto casto in attesa del matrimonio. I personaggi minori sono tutti ben pensati, divertentissimi da sentir battibeccare. I problemi stanno nei protagonisti, a cominciare da Charlize Theron: tipico maschiaccio con la gonna, capace a sparare grazie all'uomo che la possiede con la forza, liquefatta davanti all'animo casto del pecoraro ma consapevole di non essere ricambiata. Tutti i rotolanti cliché si accavallano verso la fine che in cliché esplode – fino alla scena conclusiva, dove finalmente il sospetto viene manifestato: il ricordo, cioè, di un genere ripescato con maggior minuzia da troppo poco tempo, di un film che si chiama Django e al quale si pensa costantemente. Ma in termini diversi: alla violenza sbandierata si sostituisce un cattivo gusto che rasenta la maleducazione: battute becere, diarree, steli di margherite infilati in sederi nudi, volgarità putride e perenni sfondi fisiologico-sessuali rendono quella comicità da popolino basso, da commediola vernacolare davanti alla quale la borghesia giustamente ha sempre storto il naso. Pare di assistere a lotte tra maiali nel fango: per questo è uscito contro ogni aspettativa in una manciata di copie.
Maloja Snake.
Sils Maria
Clouds Of Sils Maria, 2014, Francia/ Svizzera/ Germania, 124 minuti
Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura originale: Olivier Assayas
Cast: Juliette Binoche, Kristen Stewart, Chloë Grace Moretz,
Lars Eidinger, Johnny Flynn, Angela Winkler, Hanns Zischler
Voto: 9.5/ 10
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Era il 1950 ed era Eva Contro Eva: un'attrice, schiacciata dalla perfidia inesorabile del tempo, è schiacciata anche da una più giovane donna che le si promette assistente prima, sostituta poi, che finisce col rubarle la scena prima, e poi un premio. È il 2014 e sempre con un premio si comincia: quello che Maria Enders deve ritirare in vece prima, in memoria poi, dello sceneggiatore e regista teatrale che la portò sul palco per primo, quando lei aveva ancora diciott'anni: era uno spettacolo che metteva a confronto una ragazza avvenente e una donna distrutta nello stesso luogo di lavoro per dimostrare la perfidia inesorabile del tempo. Dopo vent'anni Maria afferma: «non riesco a uscire dal personaggio di Sigrid, sono ancora Sigrid», ma il suo è uno sforzo illusorio: dopo vent'anni dovrebbe essere in grado di calarsi nel ruolo opposto, quello di Helena, la cui disperazione per il rifiuto della giovane impiegata la porterà al suicidio. Un suicidio che nella pièce non viene però dichiarato, «Helena esce per una passeggiata e non torna più» la bacchetta l'assistente Val in una delle numerose prove del testo quando Maria avrà deciso di accettare la parte, cadendo continuamente nella difficoltà d'interpretazione. La lettura del copione si mischia ai dibattiti con Val che si fondono nella casa sulle Alpi a Sils Maria, dove lo spettacolo fu originariamente scritto, e i dibattiti con Val si mischiano alla tensione erotica del testo, allo scontro generazionale, per poi sovrapporsi a partire dalla passeggiata priva di ritorno della fine. Kristen Stewart è ideologicamente azzeccatissima, una baby manager sempre informata sul fatto, risucchiata dai dispositivi mobili con cui fronteggia gli impegni: era il 1950 e l'assistente di Bette Davis se ne stava ferma in camerino; è il 2014 e Val ha due cellulari e un'iPad sulle ginocchia in viaggio in treno. Il suo compito è anche tenere informata la navigata attrice Maria dei personaggi in cui s'imbatterà: il fotografo di Lindsay Lohan, la giovane attrice di sci-fi, la ragazzina che avrà il ruolo di Sigrid in questa nuova trasposizione, un calderone di informazioni sul web legate ai suoi arresti per stato di ebrezza, ai suoi fidanzati sposati ad altre donne: Maria storce il naso di fronte a internet ma è la perfidia inesorabile del tempo: che si palesa nei ruoli che le vengono proposti – una mutante, una donna bionica, un super-eroe con poteri. Spaesata in un mondo che non riconosce più, che è cambiato troppo in fretta, che forse la sta rigettando a causa dell'età che avanza, Maria si rinchiude lontana dalla civiltà, immersa nella natura, nella solitudine dei monti, dedicandosi a un'arte che non le allevia il dolore, richiudendosi su Val che invece trova sbocchi d'aria da ogni crepa della relazione. Lei è l'eroina di Twilight e sa perfettamente cosa voglia dire essere privati della privacy sul web, essere «idolo per i pre-teeneger, che sono milioni». Il coraggio della Stewart a interpretare questo ruolo è lo stesso di Juliette Binoche dal canto opposto, ammettendo di essere stata una bellissima, grande attrice che si sta facendo vecchia, costretta a implorare a una pischella di «restare in scena qualche secondo in più perché mi si veda». Nel botta-e-risposta di cui è composta la pellicola, totalmente piegata sulle due protagoniste e la loro analisi critica del testo teatrale, s'inserisce la terza generazione, quella di Chloë Grace Moretz, che si sovrappone malignamente alla quasi coetanea Val, che genera il contrasto tra persona e personaggio figlio di Tutto Su Mia Madre, e dopo de La Sera Della Prima, e dopo di Petra Von Kant. Due, tre volte Eva, risucchiate da un serpente nuvoloso che non riusciranno a vedere ma che si estenderà inesorabile sulle loro teste: due, tre donne prime nelle diverse sfaccettature di cui la donna è composta, con la maledizione della vecchiaia che la colpisce dalle origini. Un testo magistrale, una sceneggiatura perfetta: Olivier Assayas, dopo il mediocre seppur celebrato Qualcosa Nell'aria, si supera: riesce a non affrontare superficialmente come l'altra volta i suoi personaggi e li scava talmente a fondo che ne vediamo l'acqua interna.
gemma di bambù.
La Storia Della Principessa Splendente
Kaguyahime No Monogatari, 2013, Giappone, 137 minuti
Regia: Isao Takahata
Sceneggiatura non originale: Isao Takahata, Riko Sakaguchi
Voci originali: Aki Asakura, Takeo Chii, Kengo Kora, Nobuko Miyamoto
Voci italiane: Lucrezia Marricchi, Carlo Valli, Flavio Aquilone
Chiara Fabiano, Chiara Salerno, Giorgio Borghetti
Chiara Fabiano, Chiara Salerno, Giorgio Borghetti
Voto: 8.2/ 10
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L'anziano tagliabambù Okina si imbatte, in un giorno d'inverno, in una sorta di gemma all'interno di un fusto che, alla seconda occhiata, prende sembianze umane, e poi antropomorfe, estremamente piccina: la porta a casa dall'anziana moglie e, privi di figli, decidono di tenerla ed accudirla: l'infante-Pollicina cresce, cresce fino ad essere una vera neonata. Seguiranno le più dolci scene dedicate alla prima infanzia che il cinema ci abbia mai dato: la vita quotidiana e casalinga, i primi passi, le prime smorfie, i nudi iniziali privi di malizia, le generazioni precedenti che bivaccano in giardino. Le dànno il nome di Principessa ma attenzione: in lingua originale è Kaguya, letteralmente Notte Splendente, censurato chissà perché. Cresce e aiuta il padre nei lavori di casa e ha come sempei (chiamiamolo patrigno) il “fratellone” Sutemaru, da cui si staccherà per proseguire il suo percorso da principessa dopo che il padre avrà trovato in un bambù un'ampia quantità di oro. Il cielo pretende che la piccola faccia vita reale, si trasferiscono in città, con l'oro comprano una sontuosa residenza e in autunno traslocano: Kaguya diventa Principessa Splendente, e in tutta la capitale si mormora della sua estrema bellezza. Cinque principi si presenteranno al suo cospetto (nascosto) per chiederle la mano, paragonandola a cinque tesori preziosi e inarrivabili – e lei pretenderà di riceverli in cambio della concessione in sposa. Sa di non poterli ottenere: per anni si ribella alla regola per cui una donna di alto ceto deve essere scelta da un uomo che non la vede nemmeno e gli si concede interamente, divenendone proprietà. È, la sua, una volontà di emancipazione altissima, di orgoglio femminile, ribellione: spezza con la tradizione di cui questa storia fa parte, antico racconto popolare giapponese dal quale sono stati tratti numerosi adattamenti cinematografici; Isao Takahata ne trae una propria versione senza guardarsi alle spalle – in cantiere dal 2005, il film è stato annunciato solo nel 2012 con storyboard pronti da quasi due anni – ma soprattutto, ed è la prima qualità che emerge nel film, allontanandosi anch'egli dalla tradizione animata: non solo tridimensionale ma anche a due dimensioni, rinunciando alla perfezione stilistica, ai contorni puliti e ai colori pieni, al disegno tipico dello Studio Ghibli che firma questo lavoro: siamo di fronte a disegni approssimativi, abbozzati, contorni rozzi tracciati a carboncino ancora visibile, e riempimenti ad acquerello le cui macchie sono perfettamente visibili, i piani degli spazi sono fatti di carte messe una davanti all'altra... Eppure, sembra volerci dire il regista e il team che gli sta dietro, non manca niente: tutto è perfettamente comprensibile, le espressioni (le risate, i pianti frequenti, le smorfie infantili) limpidissime, e i paesaggi!, che meraviglia!, e le scene della tradizione giapponese, i costumi, gli esterni, che colori! Pare, questo, essere un film-manifesto – forse l'ultimo di Takahata – che vuole significare come resti sempre, alla base di un film, una storia da raccontare, che anche se attinge alla tradizione passata, è il modo di raccontarla che conta; e che nonostante il tempo passi, le tecniche antiche non è detto che perdano forza di fronte a quelle moderne.
L'anziano tagliabambù Okina si imbatte, in un giorno d'inverno, in una sorta di gemma all'interno di un fusto che, alla seconda occhiata, prende sembianze umane, e poi antropomorfe, estremamente piccina: la porta a casa dall'anziana moglie e, privi di figli, decidono di tenerla ed accudirla: l'infante-Pollicina cresce, cresce fino ad essere una vera neonata. Seguiranno le più dolci scene dedicate alla prima infanzia che il cinema ci abbia mai dato: la vita quotidiana e casalinga, i primi passi, le prime smorfie, i nudi iniziali privi di malizia, le generazioni precedenti che bivaccano in giardino. Le dànno il nome di Principessa ma attenzione: in lingua originale è Kaguya, letteralmente Notte Splendente, censurato chissà perché. Cresce e aiuta il padre nei lavori di casa e ha come sempei (chiamiamolo patrigno) il “fratellone” Sutemaru, da cui si staccherà per proseguire il suo percorso da principessa dopo che il padre avrà trovato in un bambù un'ampia quantità di oro. Il cielo pretende che la piccola faccia vita reale, si trasferiscono in città, con l'oro comprano una sontuosa residenza e in autunno traslocano: Kaguya diventa Principessa Splendente, e in tutta la capitale si mormora della sua estrema bellezza. Cinque principi si presenteranno al suo cospetto (nascosto) per chiederle la mano, paragonandola a cinque tesori preziosi e inarrivabili – e lei pretenderà di riceverli in cambio della concessione in sposa. Sa di non poterli ottenere: per anni si ribella alla regola per cui una donna di alto ceto deve essere scelta da un uomo che non la vede nemmeno e gli si concede interamente, divenendone proprietà. È, la sua, una volontà di emancipazione altissima, di orgoglio femminile, ribellione: spezza con la tradizione di cui questa storia fa parte, antico racconto popolare giapponese dal quale sono stati tratti numerosi adattamenti cinematografici; Isao Takahata ne trae una propria versione senza guardarsi alle spalle – in cantiere dal 2005, il film è stato annunciato solo nel 2012 con storyboard pronti da quasi due anni – ma soprattutto, ed è la prima qualità che emerge nel film, allontanandosi anch'egli dalla tradizione animata: non solo tridimensionale ma anche a due dimensioni, rinunciando alla perfezione stilistica, ai contorni puliti e ai colori pieni, al disegno tipico dello Studio Ghibli che firma questo lavoro: siamo di fronte a disegni approssimativi, abbozzati, contorni rozzi tracciati a carboncino ancora visibile, e riempimenti ad acquerello le cui macchie sono perfettamente visibili, i piani degli spazi sono fatti di carte messe una davanti all'altra... Eppure, sembra volerci dire il regista e il team che gli sta dietro, non manca niente: tutto è perfettamente comprensibile, le espressioni (le risate, i pianti frequenti, le smorfie infantili) limpidissime, e i paesaggi!, che meraviglia!, e le scene della tradizione giapponese, i costumi, gli esterni, che colori! Pare, questo, essere un film-manifesto – forse l'ultimo di Takahata – che vuole significare come resti sempre, alla base di un film, una storia da raccontare, che anche se attinge alla tradizione passata, è il modo di raccontarla che conta; e che nonostante il tempo passi, le tecniche antiche non è detto che perdano forza di fronte a quelle moderne.
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