mercoledì 2 settembre 2015

VENEZIA72.



Presentato senza successo, prima di vincere poi ogni Oscar, qualche anno fa, Gravity, Alfonso Cuarón torna al Lido per la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2015 a presiedere una giuria di molti registi (Hou Hsiao-hsien, Lynne Ramsay e il nostro Francesco Munzi fresco di tutti i premi ricevuti da Anime Nere), le attrici Diane Kruger ed Elizabeth Banks e lo scrittore Emmanuel Carrère: una Mostra che si prospetta eclettica in tutte le sue parti: il Concorso Ufficiale vanta i soliti molteplici italiani, il nostalgic rock di Luga Guadagnino per A Bigger Splash, remake de La Piscina di Deray (nel cast: Matthias Schoenaerts, Tilda Swinton, Dakota Johnson e Ralph Fiennes), L'attesa di Piero Messina, esordiente alle prese con Juliette Binoche, Giuseppe Gaudino con Per Amor Vostro – dopo diciotto anni dall'ultimo lungometraggio di finzione e un ritrovato Marco Bellocchio, di nuovo alle prese con la sua città natale, Bobbio, a cavallo tra il passato e il presente di Sangue Del Mio Sangue. Poi ancora: un film targato Netflix (Beasts Of No Nation) e un lungometraggio animato in stop-motion finanziato via Kickstarter (Anomalisa, del geniaccio Charlie Kaufman con Duke Johnson), e i nomi di rilievo – Amos Gitai, il Leone d'Oro 2011 Aleksandr Sokurov, che dopo l'Ermitage di Pietroburgo va ad esplorare il Louvre durante l'occupazione nazista, fino al Premio Oscar Tom Hooper che racconta, col Premio Oscar Eddie Redmayne, la prima trans della storia, del 1930, Lili Elbe (The Danish Girl). Leone d'Oro alla Carriera per Bertrand Tavernier: il maestro francese, classe 1941, ha scelto le quattro pellicole di Venezia Classici: a queste si aggiungeranno i capolavori restaurati (che gareggiano per il premio tecnico) formando una rosa che spazia da Kurosawa (Barbarossa, 1965) a Chabrol (Le Beau Serge, 1958), Ejzenstein (Aleksandr Nevskij, 1938) e Pasolini (Salò O Le 120 Giornate Di Sodoma, 1975). Ci sarà anche l'immancabile Fellini, presentato da Giuseppe Tornatore, con Amarcord (1973). Fuori concorso i film-evento più attesi: dal kolossal Everest, film di apertura in 3D di Baltasar Kormákur che racconta le spedizioni del 1996, a Black Mass – L'ultimo Gangster di Scott Cooper, con il solito irriconoscibile Johnny Depp, questa settimana sulle copertine di tutti i giornali, stempiato, ingrassato per interpretare James Bulger nella Boston degli anni '70; altri tre italiani: Franco Maresco con Gli Uomini Di Questa Città Io Non Li Conosco, documentario su Franco Scaldati (che va ad affiancarsi ai documentari su De Palma di Baumbach & Paltrow e quello su Jackson Heights di Wiseman), I Ricordi Del Fiume di Gianluca e Massimiliano De Serio e Non Essere Cattivo di Claudio Caligari, sulla mafia ostense degli anni '90. La sezione Orizzonti, invece, è presieduta nientemeno che da Jonathan Demme, con le attrici Anita Caprioli e Paz Vega, i registri Fruit Chan e Alix Delaporte: la carrellata più innovativa della kermesse conta di nuovo Renato De Maria, già lo scorso anno con La Vita Oscena che non vide particolare fortuna distributiva (Italian Gangster, sulla celebre banda Cavallero degli anni '50), e il discusso Shia LaBeouf, con Kate Mara in Man Down, nei panni di un marine nel futuro alla ricerca della moglie. Dopo le due Coppe Volpi dello scorso anno per Hungry Hearts, Saverio Costanzo decreterà il miglior esordio per il Premio De Laurentiis. Dopo le due esperienze a Cannes spunta a Venezia anche Alice Rohrwacher con un cortometraggio, De Djess, in cui dirige sua sorella Alba che gioca a fare la vamp. Di seguito e dopo l'interruzione, tutti i film e i giurati del cartellone ufficiale.

concorso
11 Minuit (11 Minutes) di Jerzy Skolimowski (Polonia & Irlanda)
A Bigger Splash di Luca Guadagnino (Italia & Francia)
Abluka (Frenzy) di Emin Alper (Turchia, Francia e Qatar)
Anomalisa di Charlie Kaufman & Duke Johnson (USA) [animazione]
Beasts Of No Nation di Cary Fukunaga (USA & Ghana)
Behemoth di Zhao Liang (Cina & Francia) [documentario]
Desde Allá di Lorenzo Vigas (Venezuela & Messico)
El Clan di Pablo Trapero (Argentina & Spagna)
Equals di Drake Doremus (USA)
Francofonia di Aleksandr Sokurov (Francia, Germania e Paesi Bassi)
Heart Of A Dog di Laurie Anderson (USA)
L'attesa (The Wait) di Piero Messina (Italia & Francia)
L'hermine di Christian Vincent (France)
Looking For Grace di Sue Brooks (Australia)
Marguerite di Xavier Giannoli (Francia, Republica Ceca e Belgio)
Per Amor Vostro di Giuseppe M. Guadino (Italia & Francia)
Rabin, The Last Day di Amos Gitai (Israele & Francia)
Remember di Atom Egoyan (Canada & Germania)
Sangue Del Mio Sangue (Blood Of My Blood) di Marco Bellocchio (Italia, Francia e Svizzera)
The Danish Girl di Tom Hooper (UK & USA)
The Endless River di Oliver Hermanus (Sud Africa & Francia)

martedì 1 settembre 2015

la terza menzogna.



Il Grande Quaderno
A Nagy Füzet, 2013, Ungheria/ Germania/
Austria/ Francia, 112 minuti
Regia: János Szász
Sceneggiatura non originale: Tom Abrams,
András Szekér e János Szász
Basata sul romanzo Trilogia Della Città Di K.
di Ágota Kristóf (Einaudi)
Cast: László Gyémánt, András Gyémánt, Piroska Molnár,
Ulrich Thomsen, Ulrich Matthes, Gyöngyvér Bognár,
Diána Kiss, Orsolya Tóth, Orsolya Tóth
Voto: 7/ 10
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Ungheria, Seconda Guerra Mondiale. L'occupazione tedesca è agli sgoccioli e la resistenza aspra e imponderabile. Un uomo senza nome, ufficiale richiamato al fronte, decide insieme alla moglie di lasciare la città e affidare i figli, una coppia di gemelli omozigoti tanto identici quanto uniti, alla madre di lei, che abita in un paese, all'ultima casa della via sterrata tra i campi. Questa non ha notizie della figlia da anni, non ne conosce il marito, non sapeva neanche di avere due nipoti. Se li vede piombare in casa, all'improvviso: reagisce alla cosa con i suoi modi burberi, sprezzanti, volgari. La chiama cagna, la caccia da casa, caccia i ragazzi, che passano le prime notti sulla panca in giardino, al gelo. Di giorno la guardano lavorare, lei li insulta: solo dopo, sfiancati dalla noia, si metteranno a tagliare la legna guadagnandosi l'accesso alla stamberga, al pasto – di cui non possono avere seconde razioni. La parente li chiama figli di cagna, li picchia, loro la spiano mentre sotterra i tesori del marito morto, si fanno picchiare: per affrontare questo mondo crudo, inasprito dal conflitto, capiscono di dover imparare a sopportare ogni tipo di dolore: chiedono la violenza, i pugni, ma assolutamente non devono essere separati. Prima di lasciarli andare, il padre regala loro un quaderno bianco, il grande quaderno del titolo, con la preghiera di scrivere tutto, annotare ogni cosa, incollare foto, rifare disegni, la cronaca degli eventi, il diario del conflitto. Così, attraverso di esso – cui sono dedicate grandi inquadrature che spezzano con la narrazione degli eventi – scopriamo l'amicizia che nasce con la vicina, Labbro Leporino, prima causa della loro accusa di furto e poi oggetto di percussioni, infine ammazzata dai soldati che avrebbero dovuto portare la felicità; sua madre, muta e cieca, e la casa che va a fuoco; aguzzini in talare, donnine faccia d’angelo dall’incoffessabile libido, l’omosessualità malcelata di un ufficiale tedesco – fedelissimo al libro da cui parte, János Szász puntella il percorso di formazione (inversa) dei due protagonisti (doppiati dallo stesso attore) di cose e persone sui generis come le tappe iniziatiche dentro a una fiaba. Il libro da cui parte ha un peso notevole: pubblicato nel 1987, Il Grande Quaderno, scritto in francese dall'ungherese Ágota Kristóf, corsa via dall'Armata Russa verso la Svizzera nel '56, sarebbe andato a completare con La Prova e poi La Terza Menzogna la celeberrima, best-seller, Trilogia Della Città Di K., resoconto in prima persona delle conseguenze di una guerra che non vediamo e di cui non sappiamo il nome tra la popolazione più becera di un paese non identificato: corpulento, sudicio, grave, è un romanzo che atterrisce per la sua schiettezza e che è stato trasposto sul grande schermo con una minuzia lodevole: minuzia che, però, toglie (oltre allo stupro subìto dai due protagonisti, che però ne prendono abbastanza) mordente al plot, all'intreccio narrativo, che si dipana arrivando al gelido finale senza farsi particolarmente inseguire – e senza risparmiare né edulcorare le immagini da cui parte. Soprattutto quando abbandoniamo una pazzesca Piroska Molnár nei panni fetidi della nonna, che dà una straordinaria prova d'attrice. Uscito in patria (l'Ungheria) nel 2013, annunciato da noi l'anno scorso, promesso a gennaio e poi continuamente rimandato fino a questo 27 agosto, viene da domandarsi se sarà effettivamente il primo di tre film.

sabato 29 agosto 2015

ukulele!



Minions
id., 2015, USA, 91 minuti
Regia: Kyle Balda, Pierre Coffin
Sceneggiatura originale: Brian Lynch
Voci originali: Geoffrey Rush, Sandra Bullock, Jon Hamm,
Michael Keaton, Allison Janney, Steve Coogan, Jennifer Saunders,
Steve Carell, Pierre Coffin, Katy Mixon
Doppiatori italiani: Alberto Angela, Luciana Littizzetto,
Fabio Fazio, Riccardo Rossi, Selvaggia Lucarelli
Ralph Palka, Roberta Pellini, Max Giusti, Monica Ward
Voto: 6.7/ 10
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In principio il Signore divise la luce dalle tenebre, le acque dalle terre – e nelle acque creò un microrganismo, che crebbe a mo' di girino, che mise su due piedi e due mani e, a volte, due occhi, scampò alle fauci dei mostri marini e popolò la terraferma: un microrganismo che divenne una tribù, priva di leader, desiderosa di servire e riverire il più cattivo della terra. La tribù lo cercò, il più cattivo, per decenni, per secoli: ma con Dracula e con gli unni, persino con Napoleone, ha avuto qualche intoppo. Negli anni '60 qualcuno si eleva sulla folla, e parla alla tribù, e dice – ehm, e dice: che partiranno in tre per andare a trovare quel cattivo cattivissimo da servire e riverire, da rispettare e inseguire, e con quel cattivo torneranno indietro – e partono: Kevin, Stuart e Bob – l'adulto, il teenager e l'infante, in qualche modo riescono ad arrivare nella New York hippie del '68 prima e nella Swingin' London poi, illuminati dal Villain-Con, il festival della cattiveria presso cui giungono scortati da una famiglia di ladruncoli. Ospite d'onore, attesissima, della serata, è Scarlet Overkill, voce originale di Sandra Bullock inspiegabilmente piazzata su tutte le locandine, causa Oscar – la cui gonna è capace di diventare punta d'astronave, razzo, canna di cannone. Questa, dal palco, indice un contest: premio in palio è il diventare suo assistente per un colpaccio alla regina – e indovinate chi vince. Peccato, giustappunto, per questa trama un po' insipida, un po' sempliciotta, per questi personaggi umani un po' invadenti senza averne le qualità, un po' surreali. Era il 2010 quando la Illumination ci provò: un film su un cattivo, e non su un buono, che rubava la piramide di Cheope e la torre di Pisa – un cattivo però che scopriva il suo lato tenero e umano, che si circondava di marmocchie e di cosi gialli – un film che a differenza di Frozen metteva d'accordo tutti, maschi e femmine piccoli e grandi: risultato: 534 milioni di dollari d'incasso; ne derivò un previsto sequel, in cui i cosi gialli già prendevano il sopravvento, finendo (da soli) sulla locandina: risultato: 970 milioni di dollari d'incasso. I cosi gialli, poi, furono inseriti da Empire nei cento personaggi cinematografici più rilevanti di tutti i tempi, e come i pinguini di Madagascar (ma attenzione: in TV adesso arrivano anche le scimmie) hanno cominciato col fagocitare l'attenzione; ne derivò prima un corto, poi un previsto spin-off: mischiando italiano, spagnolo, inglese, francese, cinese, indi, giapponese, coreano e indonesiano, seguiamo i cosi dal loro formarsi fino ad oggi, dal loro scoprire la prima salopette dopo il giaccone per i ghiacci, la loro inesistente gerarchia tribale. Basandosi sulla slapstick comedy (di Charlie Chaplin, di Stanlio e Ollio, ma anche di Tom & Jerry) ma soprattutto sulla voce digitalizzata del loro creatore e regista Pierre Coffin (qui in coppia con Kyle Balda) che conia tormentoni dal semplice «banana» o «mega ukulele», i minions ne combinano, involontariamente, una dopo l'altra – e come tutti gli eroi dell'involontario la scampano sempre: sbucano dai tombini della capitale inglese mentre i Beatles ci passano sopra, passando per Abbey Road, e infastidiscono le riprese dell'allunaggio in realtà ricostruito e girato negli studi USA: i due momenti di comicità più brillante della pellicola. Nonostante si sia rinunciato ai soliti meccanismi di traino in favore della trama, a partire dall'inesistente canzone originale: Jimi Hendrix, i Doors, i Kinks, gli Who e i già citati scarafaggi fanno da sfondo alla detronazione di una finta Elisabetta e alla conservazione degli ori inglesi già visti (e quasi rubati) in Muppets Most Wanted: tutto fa sfondo per lasciare spazio e campo ai cosi gialli adesso negli Happy Meal di McDonald's, nelle edicole, sulle confezioni della UHU, su certi taxi: mettendo tutti d'accordo, e molti scontenti. Risultato, in due mesi, solo in America: 325 milioni di dollari. (E non avendo, purtroppo?, visto il film in italiano non posso dilungarmi sulla performance di Selvaggia Lucarelli, voce adesso, oltre che firma, del più noto giornalismo nostrano).

domenica 23 agosto 2015

bianca come il.



L'A.S.S.O.
Nella Manica
The DUFF, 2015, USA, 101 minuti
Regia: Ari Sandel
Sceneggiatura non originale: Josh A. Cagan
Basata sul romanzo The DUFF di Kody Keplinger
Cast: Mae Whitman, Robbie Amel, Bella Thorne,
Bianca A. Santos, Skyler Samuels, Romany Malco,
Nick Eversman, Chris Wylde, Ken Jeong, Allison Janney,
Rebecca Weil, Seth Meriwether, Benjamin Davis
Voto: 6.3/ 10
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Sempre con la mano alzata a scuola, bravissima in tutte le materie, inspiegabile amica di due ragazze mediamente inserite nella società, Bianca è totalmente disinteressata a far apparire le sue tette staccate, più lunghe le sue gambe: in salopette e scarponi e camicia di flanella va a scuola mentre Madison – nella perfetta esistenza di Bella Thorne – ondeggia nei corridoi verso Wesley, che prende e lascia, che ama e disprezza, che si allena per sfoderare i marmorei addominali, che si aggira in casa in canottiera, col trapezio visibile, mentre la sua vicina e amica d'infanzia, compagna di giochi e di bagnetto, Bella appunto, gli vive di fronte. A una festa lui si lascia scappare ciò che tutti pensano: che è un'A.S.S.O., un'Amica Sfigata Strategicamente Oscena: utile alle sue inseparabili compagne in modo che quelli carini le si avvicinino per sapere: «sono single?», «ti parla mai di me?». Allibita dalla rivelazione, scende al patto (eccolo, lo stavamo aspettando): lei gli dà ripetizioni in modo da farlo diventare uno sportivo anche intelligente, lui l'accompagna per i soliti centri estetici, negozi d'abbigliamento, a svelarle i misteri della bellezza (perché, poi, un uomo?). Nei vari step della metamorfosi succedono due cose: la prima è nascosta dietro ogni angolo, «in un film, si diceva, le colline hanno gli occhi; qui le colline hanno una stronza che riprende tutto col telefonino»: i video di Bianca che sculetta, limona con i manichini, fa il nome del compagno di scuola che le piace, si cambia mostrando cosce flaccide e monociglio, vengono caricati online e resi virali – perché un film che oggi parla del liceo americano non può non contenere il termine virale, qualche smartphone e un riferimento a YouTube. La seconda cosa che succede è che Bianca e Wesley parlano, ridono, si baciano per scherzo allenatorio e così il resto lo sappiamo già – come il restante precedente d'altronde. Se The DUFF sta in piedi (e mi rifiuto di chiamarlo con l'italico nome) è semplicemente per la sua protagonista Mae Whitman, voce originale di Trilli per la Disney, caratterista comica, classe 1988, che attraverso sproloqui, vocalizzi, smorfie tiene la pellicola sempre per le bretelle mentre affonda nel previsto ovvio. Tiene addirittura testa ad Allison Janney, la signora number six degli Emmy Awards, madre abbandonata dal marito che mette in piedi un corso di autostima, autodifesa sentimentale e rinascita spirituale con cui diventa celebre – e che cerca di rivendere online – ricordando l'infoiato Tom Cruise di MagnoliaRobbie Amell, 27 anni appena, star della serie The Tomorrow People, cugino di Stephen Amell, star della serie Arrow, è utile solo ad essere senza maglietta nello spogliatoio, scena d'obbligo nel filone cinematografico, con la stessa incursione di The Hole anche se lì l'audacia era ben più spogliata: qualche coraggio nei termini usati, pochissima volgarità, demenzialità assente nonostante la presenza del Ken Jeong di Community, eppure se il film risulta sufficiente non decolla mai sopra ai suoi cugini più rodati, sforzandosi solo nei titoli di coda di vomitare social networking e tecnologia, ritagliando agli sms e alla dipendenza dal virtuale solo gli spiragli a cui siamo già abituati: anche la madre, rimasta sola e che si vuole rimettere in gioco, che apre un profilo su un sito d'incontri («abbiamo scritto che siamo giovanili e in forma, e abbiamo mentito entrambi») è già un cliché. E chissà se scopriremo mai che l'appellativo «duff» venga sul serio utilizzato, adesso, nei college e nei licei, luoghi-impero di così tante storie infinitamente lontane dalle nostre, eppure così padroneggiate.

sabato 15 agosto 2015

piccino picciò.



Ant-Man
id., 2015, USA, 117 minuti
Regia: Peyton Reed
Sceneggiatura non originale: Edgar Wright, Joe Cornish,
Adam McKay e Paul Rudd
Basata sulla graphic novel di Stan Lee, Larry Lieber e Kack Kirby
Cast: Paul Rudd, Michael Douglas, Corey Stoll, Evangeline Lilly,
Bobby Cannavale, Anthony Mackie, Judy Greer, Michael Peña,
Abby Ryder Forston, David Dastmalchian, T.I., Hayley Atwell,
John Slattery, Wood Harris, Martin Donovan
Voto: 5.5/ 10
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C'è uno scassinatore, Scott Lang, ladro ricercato e finito in prigione che ha visto la compagna passare a miglior marito (poliziotto!) e la figlia venirgli sottratta sotto agli occhi, senza poterci fare niente: ne esce, e decide di cambiare, migliorarsi: ma è difficile trovare lavoro dopo essere stato ripetutamente sul giornale. Gli amici poco furbi di sempre gli propongono un affare, un furto con scasso facile facile – una cassaforte pluri-blindata in una camera da letto. La camera è di Michael Douglas, Hank Pym, colui che inventò il sistema (liquido) per rimpicciolire gli atomi e rimpicciolirsi, senza apparenti danni al corpo né al cervello – e poi tornare ad essere grandi normalmente, sistema che fu utile in guerra, per disinnescare bombe, trasportare carri armati. Pym assiste all'intrusione di Lang – da lui architettata e permessa – perché necessita di un allievo a cui affidare la sua prossima missione: e Lang, nella camera con cassaforte blindata, trova solo una tuta, una maschera e una fiala. Scoprirà il meccanismo e la famiglia che lo governa (Evangeline Lilly ripropone i capelli della Howard in Jurassic World, che però non le si scompigliano): famiglia spezzata dalla perdita di una madre, da un rapporto conflittuale tra il genitore e la figlia, segreti taciuti, competenze non riconosciute, calderone perfetto per affiancarsi ai problemi familiari di Lang, perseguitato dal nuovo compagno della moglie Bobby Cannavale (e sono tre film contemporaneamente in sala), desideroso di riscatto, di realizzazione, esiliato dal sistema sociale. La missione sarebbe quella di: salvare il mondo. Perché un ex allievo di Pym, Corey Stoll, da sempre desideroso di ricreare il sistema di rimpicciolimento, forse ci è riuscito, senza però prevedere la catastrofe (continuare a rimpicciolire entrando nella dimensione quantica), sperimentando su capre e colleghi di laboratorio – accecato dal denaro e dal finanziamento di altre aziende. Se venisse messo in circolazione, sarebbe il caos: così Michael Douglas ritorna sulla piazza. In un flashback scopriamo che è stato Ant-Man, in un passato che non ci viene mostrato, ricordando la prima comparsa del «nuovo supereroe Marvel» già nel 1962, quando Pym era supereroe lui stesso. Tanto parlare delle dimensioni ristrette del protagonista contro il gigantismo degli effetti digitali solitamente usati, degli scenari a cui siamo abituati – omettendo che diventano giganti un trenino (Disney) e una formica. Tanto parlare del doppio finale (Pixar) e degli addominali del 46enne Paul Rudd («ho seguito per un anno intero un regime molto rigido, allenandomi tutti i giorni, riducendo all'essenziale i carboidrati ed eliminando completamente l'alcol – per un'unica scena in cui posso mostrarli») dato che della trita trama del supereroe con superproblemi (e un supercattivo che cambia identità sfruttando la tecnologia rubata) si può dire ben poco: diamo la colpa all'abbandono del set da parte del geniaccio Edgar Wright (Scott Pilgrim), autore comunque della sceneggiatura ritoccata poi da Rudd stesso, divoratore di fumetti a sua detta, a discapito del meno avvezzo Peyton Reed (Abbasso L'amore, Yes Man), dietro al quale le case di produzione spingevano la seconda fase del cinema Marvel, prevedendo per Ant-Man già la presenza nel prossimo Captain America (2016) e nei prossimi Avengers (2018). Ne deriva un film privo di elementi notevoli, dall'intreccio banalissimo, dai personaggi scontati, a cui manca soprattutto ciò che ormai pareva ben promesso (con il primo Iron Man, ma soprattutto con Guardiani Della Galassia): l'(auto)ironia, lo humor che Scott si lascia scappare in pochissime scene – che contraddicono l'idea di lui che ci siamo fatti – che Michael Peña da solo si deve caricare fino all'ultima – attesissima – scena. Un film dovuto perché indispensabile per rinnovarsi, infilare un nuovo personaggio, ormai presentato, nelle saghe collettive e soprattutto farci un sequel – «Pym è ossessionato dall'idea di ritrovare sua moglie, mentre Hope potrebbe seguire le orme della madre e indossare la tuta  di Wasp…» – perché a incassi stellari con un sequel si risponde: e che ringrazi la contemporanea uscita dei disastrosi Fantastici 4.

cinema d'agosto.



Prima che il Natale diventasse il fenomeno cinematografico d'aggregazione e, quindi, il momento dell'anno prediletto di alcune commedie a sfondo invernale – il cinema post-neorealista guardava con occhio interessato anche all'estate, alla città svuotata del primo episodio di Caro Diario di Nanni Moretti, ai turisti spaesati che non sanno a chi domandare aiuto di Un Sacco Bello, opera prima di Carlo Verdone regista e attore per il grande schermo. Così, questo 15 agosto, mentre – guardacaso – il MIC - Museo Interattivo del Cinema di Milano, propone quattro pellicole tra il 15 e il 16, la mia trasmissione radiofonica Start Rec ripercorre trame e backstage dei più importanti (noti e meno noti) film ambientati nel giorno più spensierato dell'estate, a partire dall'ovvio Il Sorpasso di Dino Risi (titolo originale: Il Giretto, interprete originale: Alberto Sordi, finale originale: meno funesto, co-protagonista originale: non si sa), o nel giorno precedente, come L'ascensore di Luigi Comencini, cortometraggio conclusivo di Quelle Strane Occasioni, occasioni tutte incentrate sul sesso dei borghesi, in cui la Sandrelli e monsignor Sordi si ritrovano bloccati in un palazzo senza nessuno che li possa tirare fuori. Ma nell'ora di trasmissione si spazia andando indietro e in avanti nel tempo: da La Famiglia Passaguai di Aldo Fabrizi – incredibile campione di incassi nel '53, quando arrivò sullo schermo anche la conclusione della trilogia (La Famiglia Passaguai Fa Fortuna e Papà Diventa Mamma), al più recente e celebrato Pranzo Di Ferragosto (anche in TV, ore 2:30, Rai 1) di Gianni Di Gregorio, riportando in auge una pellicola dimenticata e attualissima come Casotto, regia e sceneggiatura di Sergio Citti, con la collaborazione di Vincenzo Cerami, nel cast Ugo Tognazzi, Gigi Proietti, Michele Placido, Mariangela Melato, Paolo Stoppa e addirittura una sedicenne Jodie Foster. Per ascoltare anche le precedenti puntate di Start Rec, all'indirizzo ufficiale di Mixcloud sono disponibili tutti i podcast; in previsione della nuova stagione, da ottobre, e della puntata speciale sugli Emmy del 4 settembre, tutte le informazioni sono disponibili sulla pagina di Facebook.


venerdì 14 agosto 2015

spaccatutto.



Pixels

id., 2015, USA/ Cina/ Canada, 106 minuti
Regia: Chris Columbus
Sceneggiatura non originale: Tim Herlihy & Timothy Dowling
Basata sul cortometraggio di Patrick Jean
Cast: Adam Sandler, Kevin James, Michelle Monaghan,
Peter Dinklage, Josh Gad, Matt Lintz, Brian Cox, Sean Bean,
Jane Krakowski, Ashley Benson, Jakie Sandler,
Anthony Ippolito, Jared Riley, Andrew Bambridge,
Jacob Shinder, Matt Frewer, Dan Aykroyd, Affion Crockett
Voto: 4.8/ 10
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Nei favolosi anni '80 che tutti (quelli che c'erano) adesso rimpiangono in diversi approcci creativi, a seconda dei propri mestieri, la NASA, capitanata dalla volontà sociale, inviò nello spazio senza meta precisa una di quelle boxes effettivamente inviate nello spazio – contenente immagini, video e simboli della cultura e dell'evoluzione umana: quindi registrazioni di Happy Days e Madonna, videogiochi arcade e anche i risultati di un campionato, di questi ultimi, in cui Brenner si piazzò secondo dietro il Peter Dinklage de Il Trono Di Spade («la migliore serie dopo Twin Peaks», riporto); adesso Dinklage è dietro le sbarre e Brenner alla guida di un furgoncino per andare a riparare pezzi elettro-meccanici dalla gente che lo chiama dalle Pagine Gialle, miglior amico del Presidente (che c'era, quando lui si piazzò secondo) con cui è passato ad apprezzare Scarlett Johansson dopo Farrah Fawcett – ma ancora non coglie il divertimento nelle consolle fatte per giochi spara-tutto, ammazza-tutti, carichi di violenza e senza «uno schema». Trentatré anni dopo quell'evento, decaduto Obama che però viene ricordato, Kevin James prepara torte alla Casa Bianca con la compagna Jane Krakowski, che dirà sì e no due frasi, e sarebbe stata molto divertente se ne avesse dette di più – invece a parlare è lui, e il divertimento è inesistente – e la NASA avvisa di avvistamenti nell'etere perché quelle intercettazioni aliene che hanno ricevuto, aperto e studiato la box, hanno creduto che quei videogiochi arcade fossero minacce di guerra (loro i fantasmini e la Terra Pac-Man) per cui hanno costruito versioni gigantesche di Donkey Kong o degli Space Invaders utilizzando, come da titolo, pixels, materiale cioè capace di ricomporsi una volta disintegrato (a meno che non sia disintegrato secondo le regole del gioco) e che riporta a se stesso tutto il materiale che colpisce. Per fronteggiare l'attacco allora il governo chiama a rapporto gli unici in grado di analizzare e rispondere allo «schema» digitale: e quindi, oltre al creatore di Pac Man, Adam Sandler, Dinklage e Josh Gad che negli anni '80 era un bambino. Moderni Ghostbusters – impossibile evitare il confronto – riportano in auge la moderna figura del nerd sfigato alle feste di compleanno e osannato nelle sale-giochi, chiuso in casa tutto il tempo davanti al proprio schermo e poco propenso alla cura di sé. Sandler infatti, che già non brilla di appetibilità estetica, è qui un trasandato operaio sovrappeso, con la battuta pronta per clienti ricche che si mettono a piangere nella cabina armadio (vedi alla voce: Michelle Monaghan) e dal quale quindi non ci aspettiamo un sì facile flirt amoroso. Ma Sandler si è fatto il film su misura, scansando addirittura il regista Chris Columbus, classe 1958, il regista addirittura di Mamma Ho Perso L'aereo, di alcuni Harry Potter, il primo Percy Jackson e Una Notte Al Museo, il quale è arrivato per ultimo nello sviluppo del progetto: basato sul cortometraggio dallo stesso nome diretto dal francese Patrick Jean e vincitore dell'Annecy Crystal 2011, lo script di Tim Herlihy è stato commissionato da Adam Sandler mentre Columbus proponeva il remake di Hello Ghost, film della Corea del Sud di Kim Young-tak. Ne risulta un prodotto inclassificabile (al quale è stato tolto il danno alla Grande Muraglia per non incappare nella censura cinese): oscillando nei fenomeni disneyani di queste decadi, la Marvel e la Pixar, la commistione della catastrofe planetaria a certe trovate di Ralph Spaccatutto dovrebbe concludersi come film perfetto per gli amanti del genere – eppure si riempie di battute demenziali, trovate surreali, risvolti da commedia romantica: un pasticcio, e incassa 135 milioni di dollari.

Emmys 2015 – nominations.



Si svolgerà il 20 settembre al Microsoft Theater di Los Angeles, in diretta americana sui canali Fox in prima serata, la cerimonia dei 67esimi Emmy Awards, i premi della televisione d'oltreoceano che conta così tante categorie, così tante maestranze e canali e prodotti per il piccolo schermo che necessita una cerimonia preventiva, il 12 dello stesso mese, per consegnare, tra gli altri, premi al trucco, alle musiche, alle coreografie, ai titoli di testa o ai programmi per bambini – tra serie drammatiche e commedie, mini-serie (che da quest'anno si chiamano limited series), speciali, reality, varietà e programmi d'intrattenimento e informazione. Una schiera di riconoscimenti così ampia e minuziosamente segmentata da richiedere altri interventi (oltre alla dicitura “limited serie”) nella catalogazione e nel regolamento della giuria dell'Academy of Television Art & Sciences: prima di tutto, la differenza drama/ comedy si baserà adesso solo sulla durata dei singoli episodi della serie: sotto i trenta minuti comedy, intorno all'ora drama: per cui Orange Is The New Black, il fenomeno Netflix dell'anno scorso, scivola nel recipiente opposto a quello in cui era candidato nel 2014, quando prodotti come True Detective e Fargo non erano ben collocati tra le mini-serie e le serie. L'Academy però si è permessa di non toccare prodotti dichiaratamente comedy come Glee, Jane The Virgin e Shameless. Sempre per le serie, saranno da adesso sette i titoli nominati come programmi e non più sei. Le limited series saranno composte da due o più episodi che non superano le 150 ore complessive e non hanno personaggi, situazioni o riferimenti a stagioni successive o precedenti. Allo stesso modo, il guest actor per essere tale deve comparire in meno del 50% degli episodi (ed ecco perché Uzo Aduba, annunciatrice delle candidature, del grassetto precedente, da guest diventa adesso supporting). I varietà infine si dividono: tra quelli parlati e quelli composti da sketch – i primi saranno premiati il 12, i secondi il 20. Passando ora alle nominations, al solito, la HBO fa da padrona con 126 candidature, 27 in più dello scorso anno, e, al solito, Il Trono Di Spade è capofila – 24 nominations, due volte per la regia, tre attori – seguito da American Horror Story: Freak Show (19 candidature, sei per gli interpreti di cui tre attrici non protagoniste), la limited serie Olive Kitteridge dal romanzo premio Pulitzer di Elizabeth Strout con Frances McDormand, Richard Jenkis e Bill Murray, poi ancora la miniserie antologica American Crime di John Ridley (10), la serie broadcast più nominata. Sul versante on-demand invece Netflix si scontra ora con Amazon: 46 candidature in due, da spartire tra i fenome(nal)i House Of Cards e Transparent, insieme a Bloodline, Orange di cui prima e la novità di Tina Fey, decisamente sottovalutata, Unbreakable Kimmy Schmidt. La stagione conclusiva di Mad Men guadagna 11 nominations: finiscono anche Parks And Recreation (che porterà il trofeo, finalmente, ad Amy Poehler) e Glee, mentre Better Call Saul prende il posto di Breaking Bad, trionfatore l'anno scorso, 7 nomine. Homeland si ripropone, con la quarta stagione, tra le migliori serie drammatiche, e dopo ben nove anni, per lo stesso ruolo in The Comeback, viene candidata Lisa Kudrow. Spunta di poco The Last Man On Earth, ideata e interpretata da Will Forte, con 4 nominations, poi ancora Le Regole Del Delitto Perfetto ed Empire. Ma incredibilmente le attrici vincitrici del Golden Globe, così come le loro serie (The Affair, Jane The Virgin), non vengono prese in considerazione. Alla regia c'è anche Steven Soderbergh per il suo The Knick; resta un mistero la presenza dei documentari candidati all'Oscar (e il vincitore) Virunga, CITIZENFOUR. Di seguito, dopo l'interruzione, le categorie maggiori (tutti i programmi, le interpretazioni, sceneggiature e regie); per l'elenco completo dei candidati rimando al sito ufficiale.

programmi
serie comedy
Louie (FX)
Modern Family (ABC)
Parks And Recreation (NBC)
Silicon Valley (HBO)
Transparent (Amazon)
Unbreakable Kimmy Schmidt (Netflix)
Veep (HBO)

serie drammatica
Better Call Saul (AMC)
Downton Abbey (PBS)
Il Trono Di Spade (HBO)
Homeland (Showtime)
House Of Cards (Netflix)
Mad Men (AMC)
Orange Is the New Black (Netflix)

lunedì 10 agosto 2015

la pelle che abito.



Ex Machina
id., 2015, UK, 108 minuti
Regia: Alex Garland
Sceneggiatura originale: Alex Garland
Cast: Domhnall Gleeson, Oscar Isaac, Alicia Vikander,
Sonoya Mizuno, Corey Johnson, Symara A. Templeman
Voto: 7.9/ 10
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Il ginger irlandese Domhnall Gleeson (figlio di Brendan, con cui ha condiviso il set religioso di Calvario, il maggiore dei fratelli Weasley in Harry Potter E I Doni Della Morte ma soprattutto il protagonista, non talentuoso, John di Frank) viene scelto (selezionato?, sorteggiato?) per accedere nella blindatissima casa di Nathan, il CEO della Bluebook, il programmatore che ha ideato l'algoritmo su cui si basa adesso uno dei più importanti motori di ricerca del mondo: una casa dispersa tra prati e cascate e colline al punto che l'elicottero, impossibilitato ad arrivarci, lo lascia metri prima, e lo fa andare a piedi. Caleb, Gleeson, conosce così Oscar Isaac, che si conferma il più sottovalutato attore dei nostri tempi: rasato ma con barba e due vizi: l'allenamento fisico e la vodka liscia. Motivo del “viaggio premio” è testare un prodotto segreto e riservatissimo del suo capo e mentore, al punto da dover firmare contratti di riservatezza, avere ristrettezze sulle stanze della casa, telecamere dovunque che registrano ogni mossa, ogni movimento, addirittura fotocellule nel muro che impediscono l'abbandono in certi casi. Un'esagerazione a cui presto è data risposta: Ava, donna-macchina con componenti elettroniche ma dal mirabile volto umano, dai modi umani; dai sentimenti umani? Ecco il compito di Caleb, testare la macchina per scoprire fin dove è macchina e fin dove persona – senza rivelare niente a nessuno, ché pure la domestica di casa, giapponese silenziosa, non capisce l'inglese e quindi non può lasciarsi scappare una nota ad anima viva – rinchiusa com'è in quel posto, poi… Ma Ava, durante un blackout, ammonisce Caleb: di non fidarsi di tutto ciò che gli verrà detto. L'avviso ingigantisce il thrilling della situazione, claustrofobica già di suo, tipico risultato degli ingredienti: sconosciuto, sconosciuto, casa isolata. Con uno sconosciuto che ha il coltello dalla parte del manico e l'altro che siamo noi. Il gioco delle parti si ribalta, alla fine, senza spoiler, quando il dubbio colpisce anche la macchina: che magari ha troppe pretese umane e nessun vero sentimento. Da che parte stare? Ricalcando temi e utopie più universali ed eterne del sogno creazionista, Alex Garland (lo sceneggiatore di The Beach, di 28 Giorni Dopo, di Non Lasciarmi che è il diretto anticipatario di questa pellicola) abbandona i libri da cui di solito attinge per il suo materiale ma se ne ricorda, soprattutto di quei romanzi ottocenteschi dall'impianto gotico e dagli archetipi tragicamente greci, Prometeo, Frankenstein, il dottor Jekyll – tutta roba che è pure servita a Pedro Almodóvar per il suo penultimo La Pelle Che Abito, dove la partenza non è la codificazione digitale ma una vendetta corporale. Garland però si supera: asciuga trama, personaggi, unità di tempo e di luogo al punto da ridurre al minimo indispensabile e non sbava neanche in una scena; mentre riempito di barocchismi Almodóvar era incappato in qualche scivolone. La prima idea per Ex Machina gli venne in mente quando a 11, 12 anni circa, i genitori gli comprarono un computer e lui ebbe le prime nozioni di programmazione. Crescendo, si batté coi suoi compagni che sostenevano che le macchine non avrebbero mai raggiunto la sensibilità: lesse libri sulla coscienza e realizzazione dei robot e lavorò ai suoi progetti con scrittori esperti di neuroscienze, lasciandosi ispirare da 2001: Odissea Nello Spazio e Stati Di Allucinazione di Ken Russell. Per realizzare un film genuino, privo di scene d'azioni banali richieste dalle major, ha cercato di restare al minor budget possibile (15 milioni di dollari): durante le riprese non è stato infatti usato il green screen, né tracking marker né effetti digitali: tutto è stato aggiunto in post-produzione. La parte più corposa degli effetti sta in Ava, interpretata dalla futura onnipresente Alicia Vikander; questa si compone del suo effettivo volto, ripreso in rotoscopio, e una parte del busto completamente trasparente, che permette di farci vedere cosa c'è alle sue spalle. Non a caso, si legge: Ex Machina si appoggia con più forza alle sulle idee e non sugli effetti – ed è un film di fantascienza insolitamente coinvolgente.

martedì 4 agosto 2015

Omero, Iliade.



Il Ragazzo Della Porta Accanto
The Boy Next Door, 2015, USA, 92 minuti
Regia: Rob Cohen
Sceneggiatura originale: Barbara Curry
Cast: Jennifer Lopez, Ryan Guzman, Ian Nelson, John Corbett,
Brian Mahoney, Kristin Chenoweth, Lexi Atkins,
Hill Harper, Jack Wallace, Adam Hicks, François Chau,
Bailey Chase, Kent Avenido, Travis Schuldt, Raquel Gardner
Voto: 3.6/ 10
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La sveltina più famosa del mondo: quella con la segretaria, che porta Jennifer Lopez a separarsi dal marito – quasi a divorziare, perché la migliore amica le impone di riprendere in mano le redini della vita, di rifarsene una nuova, di uscire con uomini più dignitosi, a prescindere dalla loro opinione sull'attuale studio dei classici greci e latini (forse non sanno che J.K. Rawling…) – ma Jenny from the block è insegnante di Lettere (…) divorata dal cattolicesimo, diciamo, che passa giorno e notte a ripensare alla vita famigliare, con un figlio adolescente con problemi di inserimento sociale a cui farebbe bene una figura paterna fissa – preso in giro a scuola, bullizzato davanti alla ragazzina che gli piace a cui non riesce a chiedere nemmeno l'ora, come tutti gli high school movies ci hanno insegnato. Per cui, restata sola a gestire gli sgoccioli di una bollente estate, la Lopez fatica a uscire dal garage causa saracinesca difettosa: un bicipite si impone sovrano: è quello di Ryan Guzman, faccia banale come il titolo della pellicola, quasi ventenne (ah ah ah!) che si propone di passare dal ferramenta e comprare le due viti necessarie a rimettere in sesto l'impianto. Si è appena trasferito, orfano di entrambi i genitori causa incidente stradale e abitante ora della casa dello zio lontano, anziano e disabile. La sua finestra-di-fronte è di fronte a quella di Jenny, che per caso e per fortuna una sera lo guarda rimirarsi in appannato specchio (cit.), completamente nudo. E lui se ne accorge. E la invita a cucinare, una sera, e poi a restare a cena, e poi a restare in camera da letto – e lei cucina mangia e si stende ma nessuna delle tre mosse renderà celebre il film ai posteri, nemmeno la sfrontatezza con cui il naso le si insinua tra le cosce, e poi le mani che la invitano a tastare i multipli solchi addominali. Lei gli spiega, dopo: si è trattato della debolezza di una sera. Lui le risponde senza parole: si infiltra nella casella di posta, le tappezza l'aula di foto sconce, finisce ad essere studente nella sua classe, la ricatta col video di quella notte, la sveglia con la musica a tutto volume mentre a finestre aperte se la spassa con altre pollastre. Lo stalking – tema brividoso del film che si vorrebbe staccare dagli esempi cinematografici precedenti per attualizzarsi con dispositivi mobili e web practices – s'infittisce a differenza della trama, che galoppa verso una conclusione sempre più separata: di qua i buoni di là i cattivi – e i buoni, vedrai, finiranno tutti con lo stare insieme, e i cattivi, ovviamente, sono pazzi. Dita infilate negli occhi, torture, un rogo umano per un epilogo che ci ricorda chi è che produce il tutto: «potrà finire come uno dei peggiori film del 2015» scrive il Boston Globe, «ma è anche uno dei più coinvolgenti». Tre voti sufficienti ogni dieci, ma nonostante le recensioni negative – che comunque sottolineano la distanza tra questo film e lo scult – la Lopez ha ottenuto buoni risultati, dice Vanity Fair: «crede veramente in quello che dice e fa, ma è consapevole di non stare facendo Shakespeare». Andato molto bene al box office, incassando venti volte il suo budget e classificandosi come “thriller erotico” grazie alla facilità con cui i pantaloni di Guzman cadano quando è di spalle, segna la Storia per la scena all'inizio del flirt fra l'insegnante e l'addominale, quando lui si presenta a casa di lei regalandole, attenzione, la prima edizione di Omero, che, come fa notare lei, gli sarà costata un putiferio visto che, facendo due conti, la prima edizione dovrebbe essere stata stampata circa duemilatrecento anni fa, profetizzando l'invenzione di Gutenberg del 1455.

sabato 18 luglio 2015

totally.



Spy
id., 2015, USA, 120 minuti
Regia: Paul Feig
Sceneggiatura originale: Paul Feig
Cast: Melissa McCarthy, Jude Law, Rose Byrne, Jason Statham,
Allison Janney, Julian Miller, Sam Richardson, Bobby Cannavale,
Michael McDonald, Raad Rawi, Jessica Chaffin, Miranda Hart,
Katie Dippold, Richard Brake, Morena Baccarin, 50 Cent
Voto: 7/ 10
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C'è una bomba: e Jude Law, spia della C.I.A. inviata sotto copertura, la sta cercando con l'aiuto di un'agente specializzata ma mai uscita dall'ufficio, Susan Cooper, in collegamento nel suo orecchio e sulla sua lente a contatto. Attraverso questa, Susan vede quello che vede Jude, satelliti sparsi sulla litosfera le mostrano gli interni degli edifici, le mosse degli “scarafaggi”: in questo modo il duo prevede ogni attacco e conclude ogni missione senza un graffio. Fino a quando Rose Byrne si mette in mezzo e per vendicare la morte del padre – morto prima di recuperare la bomba – fa fuori Jude, e avvisa i servizi segreti di conoscere tutte le identità di tutti gli agenti. Allison Janney («number six!» ha gridato alla scorsa cerimonia degli Emmy Awards, e rischia di portarsene a casa altri due quest'anno per un totale di otto) è a capo della cricca super-segregata in uno scantinato infestato dai pipistrelli nel controsoffitto e dai topi; non potendo mandare in Francia, Italia, Ungheria, Jason Statham – la rivelazione del film – perché tra quelli che la Byrne «conosce», opta per Susan: una donna di mezza età con l'orologio di Beaches e creme per le emorroidi o pomate per le unghie incarnite che nascondono in realtà armi di contrattacco. Una nuova identità poco felice e Susan parte: un'anti-James Bond, goffa e con la parlantina nervosa, che al momento giusto saprà sfoderare tutti gli insegnamenti appresi durante l'addestramento, dal pilotare gli aerei allo sfrecciare su una Vespa. Ma essendo una non-James Bond, è anche capace di cadere dalla moto oppure di difendersi con una padella se viene attaccata con un coltello. Amica del suo nemico, si costruirà una seconda identità per non essere ammazzata e non ammazzare – e tutto scorre nella più classica delle trame fino a un insperato ma doveroso colpo di scena. Alla terza collaborazione con Paul Feig (il regista de Le Amiche Della Sposa), ma già al lavoro sulla quarta, il remake tutto al femminile di Ghostbusters approvato da Bill Murray, Melissa McCarthy abbandona le usuali seppur cangianti vesti e resta sì nella commedia, ma del paradosso: e diventa un'action woman: limita le parti della sua stunt e ogni giorno di riprese torna a casa con graffi e lividi – ma, a detta sua, si diverte un sacco. Capeggia un cast tutto azzeccato, che vede tornare insieme la Byrne e Bobby Cannavale, come al solito nel ruolo dell'italo-americano, dopo lo sfacelo di Annie, che macina una battuta dopo l'altra a velocità stellare senza particolari vette di genialità ma azzeccando il mood con cui affrontare il gioco cinematografico. «Ho sempre sognato di fare uno 007 movie ma non me l'hanno mai proposto; così ho girato Spy» dichiara il regista e sceneggiatore, che ribalta le macchiette a cui siamo abituati dentro agli inseguimenti in macchina e alle sparatorie e ne fa di nuove, tutte caratterizzate allo sfinimento: dai capelli di Rose al suo accento estenuante, passando per l'«amoruccio» di Law, incredibilmente a suo agio come “vero” Bond. La commistione di tutte queste cose, cui si aggiungono certi siparietti sui cliché degli italiani e qualche steadycam soprattutto in macchina per rendere credibile lo sfrecciare a destra e a manca – tutte queste cose funzionano, stranamente, e meglio de Le Amiche: dove forse si cadeva troppo e troppo spesso nel demenziale. Una canzone originale per i titoli di testa che fa il verso a Shirley Bassey e una colonna sonora, di Theodor Shapiro, che fa il verso a tutte le spy stories, e un incasso poderoso mettono già a giugno il film in gara per la prossima stagione di premi, per il ruolo di quella sola, unica commedia accettata dalla critica.

martedì 14 luglio 2015

Josh Ho.



Giovani Si Diventa
While We're Young, 2014, USA, 97 minuti
Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura originale: Noah Baumbach
Cast: Ben Stiller, Naomi Watts, Adam Driver, Amanda Seyfried,
Charles Grodin, Adam Horovitz, Maria Dizzia, Matthew Maher,
Peter Yarrow, Dree Hemingway, Matthew Shear, James Saito
Voto: 7.2/ 10
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Josh gira documentari, Cornelia li produce; il padre di lui è stato un famoso regista del genere, gli amici di entrambi hanno appena avuto un figlio. Domandano alla coppia: e voi, quando lo fate? – poi si imbarazzano. Josh e Cornelia ci hanno provato due volte, ma lei ha perso il feto in entrambi i casi. Così, escono con gli amici, girano e producono documentari ed evitano il padre di lei perché Josh è convinto che non ci sia particolare compatibilità tra i due maschi. Gli amici, però, iniziano a frequentare solo genitori di figli, classi di canzoncine per bambini, barbecue con la metà degli ospiti under 3. Il caso vuole che Josh, nella scuola dove insegna, si imbatta in uno studente imbucato, Adam Driver, che poi lo inviti a cena insieme alla sua giovane moglie Amanda Seyfried per parlargli di quanto abbia apprezzato la sua carriera, e quella del suocero, dei suoi progetti futuri – ma anche della sua casa di videocassette e vinili, recupero di sigle anni '80, cappelli e occhiali dalla montatura tonda, scrivanie fatte a mano con le assi di legno per spendere meno e vincere l'effetto home-made, il gelato artigianale proto-vegano, il rifiuto di Facebook a meno che non lo si usi per esperimenti sociali e lo sforzo di ricordare qualcosa invece di cercarla su Google dal cellulare. Josh e Cornelia leggono dall'iPad, ascoltano musica dall'iPod, si annotano la lista della spesa sull'iPhone; Jamie e Darby giocano a basket con la gente del quartiere, vanno in bici, ballano hip-hop. Sono ciò che i due protagonisti sono stati: e questo, aggiunto all'entusiasmo e le aspettative dell'essere giovani, li fa scatenare: gli amici (vecchi) non li chiamano più, e travolti da un insolito coinvolgimento si sforzano di essere generosi: Josh si propone per aiutare Jamie nel suo progetto amatoriale documentaristico alla ricerca di un sopravvissuto di guerra. Ma nella costruzione della cosa molto appare poco spontaneo, il protagonismo del ragazzo diventa eccessivo fino a far dubitare della natura del rapporto e della sua nascita. Dopo aver raccontato una ragazza che non accetta di stare diventando donna in Frances HaNoah Baumbach prosegue linearmente la narrazione dipingendo due adulti che, impossibilitati all'essere etichettati come tutte le altre coppie (“di genitori”) si domandano se stiano invecchiando o se abbiano ancora l'età per fare i giovani. Non rifuggono le loro responsabilità come Frances: rifuggono il loro passato e poi se ne lasciano stregare come se fosse sconosciuto. Dove però quel film (scritto dalla compagna del regista Greta Gerwig e da lei interpretato, nomination al Golden Globe come attrice comedy, arrivato in Italia con un abbondante anno di ritardo e mai visto in DVD) vinceva – asciugando l'intreccio narrativo alla semplice dichiarazione della vita della protagonista – questo pecca: perché lo sconosciuto astutamente inserito nella vita di un altro e poi scoperto bugiardo approfittatore è roba vecchia. Ben Stiller, già nel precedente debole Stravagante Mondo Di Greenberg, si cala appieno nel ruolo ma non affronta particolari ostacoli; Naomi Watts invece aveva tra le mani un personaggio profondissimo – donna che vive il dramma di non poter procreare, che si vede circondata solo da mogli e mamme e bambini, che lavora all'ombra del padre e del marito – ma non hanno le preoccupazioni e i problemi che aveva Frances: non mancano di soldi, di talenti, di decenza estetica. Purtroppo le premesse della prima parte (taglienti fino alla cattiveria satirica, lucidamente contemporanee, antropologicamente analizzate) si perdono alla ricerca spasmodica di una trama interessante da seguire fino alla fine: e come tutte le trame che il pubblico vuole, per la prima volta, fa approdare in sala, quasi per tempo, un film di questo indie-regista.

venerdì 10 luglio 2015

notti intere ad aspettarti.



Babadook
The Babadook, 2014, Australia/ Canada, 93 minuti
Regia: Jennifer Kent
Sceneggiatura originale: Jennifer Kent
Cast: Essie Davis, Noah Wiseman, Barbara West,
Hayley McElhinney, Daniel Henshall, Benjamin Winspear,
Chloe Hurn, Jacquy Phillips, Bridget Walters
Voto: 7/ 10
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Amelia ha un figlio, nato il giorno in cui il marito morì, incidente d'auto portandola in ospedale per partorire. Samuel adesso ha sei anni e non ha mai festeggiato, comprensibilmente, un compleanno. Vivono insieme, da soli, in una grande casa dai toni freddi di tutti i film horror con la fotografia fredda. Sono cianotici, lei parla poco, fa l'infermiera in un centro per anziani, specializzata nel far giocare al bingo, dieci parole al giorno ai colleghi. Lui non è socialmente accettabile né accettato: parla continuamente, troppo, è agitato, perfino violento quando si parla del genitore. A casa si esercita a metà con i giochi di prestigio e l'autodifesa: costruisce piccole armi, lancia petardi per fare fumo. La madre lo rimprovera, lui le risponde angosciato che deve proteggerla, e che lei deve proteggere lui. Poi arriva il momento di andare a letto e bisogna fare il giro delle stanze: aprire tutti gli armadi, guardare sotto a tutti i letti, per assicurarsi che non ci siano eventuali mostri pronti ad attaccare nella notte. Poi si legge una fiaba che dovrebbe condurre al sonno, e invece i due restano svegli. Una sera compare un libro, The Babadook appunto, un pop-up in bianco e nero che racconta la storia di un mostro desideroso di ammazzare gli abitanti della casa. Amelia è incredula, il bambino terrorizzato: quelle immagini, ma anche i suoni che ne derivano, lo perseguitano e non lo fanno dormire, non gli fanno parlare di altro in classe, coi compagni, alle feste di compleanno, con la zia unica parente presente. Presto viene cacciato dalla scuola e poi messo nell'angolo dalle altre mamme. Il demone del Babadook si sposta da lui a sua madre, che con bagagli di sonno arretrato e la perdita del lavoro ha sempre più scatti d'ira, sempre più momenti di poca lucidità, che vanno dal bagno completamente vestita alla violenza sul cane di famiglia. Passano le notti davanti al televisore: e qui la regista, che è una donna, e che si chiama Jennifer Kent, si lascia trasportare dalla sua cinefilia riempiendo lo schermo delle più disparate immagini, dalle televendite a Jakie Chan passando per il cartone animato di un lupo che si traveste da pecora. Se per tutto il tempo crediamo che il mostro che vive nell'ombra, che sentiamo rantolare ogni tanto, sia un parto della mente dato dallo stato delle cose, alla fine il film scivola nell'inaspettato surrealismo, senza però mostrarci quasi mai una goccia di sangue né un essere mostruoso. Presentato in concorso al Festival di Torino Scorso, Babadook è un film horror senza violenza che si basa esclusivamente sul concetto di paura. Non a caso molte sequenze, a partire dalla prima, mostrano Amelia a metà fra il sonno e la veglia, sottolineando che la notte, e il dormire, sono i momenti in cui siamo maggiormente deboli, e quindi spaventati. Si aggiunge la claustrofobia della messa in scena, che quasi per tutto il film è girato in casa, a basso costo, con un montaggio frenetico che mostra una serie di dettagli, di mani, scarpe, pioli della scala fotografati armonicamente col resto. Miglior film australiano agli AACTA Awards parimerito con The Water Diviner di Russel Crowe, miglior regia e sceneggiatura e altri 41 premi internazionali per il primo film da regista dell'attrice di Murder Call. La musica, che esplode nei titoli di coda, è di Jed Kurzel.

Selma.



Ted 2
id., 2015, USA, 115 minuti
Regia: Seth MacFarlane
Sceneggiatura originale: Seth MacFarlane, Alec Sulkin e Wellesley Wild
Cast: Mark Wahlberg, Seth MacFarlane, Amanda Seyfried,
Jessica Barth, Giovanni Ribisi, Morgan Freeman,
Sam J. Jones, Patrick Warburton, Michael Dorn,
Bill Smitrovich, John Slattery, Liam Neeson, Tom Brady,
Jay Leno, Jimmy Kimmel, Alec Sulkin
Voto: 6/ 10
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Tre anni, una nomination all'Oscar (miglior canzone originale Everybody Needs A Best Friend, interpretata da Norah Jones nel tipico stile jazzy de I Griffin), la presentazione di quegli Academy Awards, un altro film in sala scritto diretto e interpretato (Un Milione Di Modi Per Morire Nel West, un'atrocità del demenziale candidata a quattro Razzie), tre serie animate portate contemporaneamente avanti e Seth MacFarlane ritorna, nel 2015 a dare voce (e movenze) all'orsetto giocattolo che negli anni '80 prese vita diventando un fenomeno mediatico invitato a talk-show e trasmissioni televisive per poi finire nel dimenticatoio dei più – ma non di Mark Wahlberg, adulto mai cresciuto nonostante un matrimonio e un divorzio, che ne sarebbe il “proprietario”, o meglio il “custode”?, il fedele “rimbombamico”, ecco. Perché Ted, peluche con vita e vizi – l'erba, la birra, il sesso – non dovrebbe avere proprietari, in quanto human being – ma lo è poi sul serio? In questo secondo capitolo, ambientato dal giorno delle sue nozze in poi, è questo il fulcro della trama: affermare la propria esistenza, i propri diritti civili, matrimoniali, lavorativi: in quanto fatto di pezza e ripieno di cotone, Ted non viene accettato da alcuni stati americani come marito, come cassiere del supermercato. La querela diventa virale, i giornalisti e i conduttori di TG ne parlano in televisione, ognuno la pensa come vuole e nella condizione di emarginato sociale e politico Ted si ritrova ad affiancare neri e omosessuali nelle annose marce che li hanno contraddistinti: l'elogio del diverso, quindi, a sorpresa, in uno sviluppo narrativo originale ma che nel suo script poi rivela l'obbligatoria banalità di vicende. Meno volgarità barbariche, meno sporcizia e demenzialità per un fondo di serietà legale in cui spunta Morgan Freeman avvocato (ovviamente nero) che non ha mai perso una causa a differenza della novella Amanda Seyfried (ovviamente bionda), già diretta da MacFarlane nel film precedente. Qualche siparietto sui generis, certo: a cominciare dalla raccolta del campione di sperma iniziale per rendere Ted padre di famiglia – privato dello strumento necessario e quindi costretto all'inseminazione artificiale, altro territorio spinoso; insieme a John finisce nella stanza sbagliata e il carrello con tutti i liquidi seminali si ribalta e ricopre uno dei due, sfiorando il vomito suo e di chi guarda. Essendo Ted questa volta più protagonista del suo co-starring, il temuto antagonista a maggior ragione è Giovanni Ribisi, anch'egli nel film precedente – quasi stesso rôle a causa del suo physique  – ultimo nella scala gerarchica della Hasbro che vorrebbe riscattarsi coi consensi del proprietario. Satira agli onnipresenti supereroi: dai quali sono tutti mascherati durante il Comic-On e di cui si aspettano continue notizie («il prossimo Superman sarà interpretato da…»), passando per i fenomeni sportivi, i soliti cammei e la conclusiva scena di botte senza apparente spiegazione. L'originalità che ha contraddistinto il giovane regista, sceneggiatore e produttore si accartoccia (di nuovo) sul grande schermo, nonostante la chiave di lettura del film (dei film) sia la presa in giro del target hollywoodiano senza che il target hollywoodiano se ne accorga, anzi ci rida sopra. Ma dove le battute funzionano, il ritmo funziona, anche molto, è l'esito del plot che lascia delusi.

mercoledì 1 luglio 2015

hard knock life.



Annie
– La Felicità È Contagiosa
Annie, 2014, USA, 118 minuti
Regia: Will Gluck
Sceneggiatura non originale: Will Gluck & Aline Brosh McKenna
Basata sul libretto teatrale di Thomas Meehan
Ispirato alle strisce a fumetti di Harold Gray
Cast: Quvenzhané Wallis, Jamie Foxx, Rose Byrne, Bobby Cannavale,
Cameron Diaz, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Amanda Troya,
Zoe Margaret Colletti, Nicolette Pierini, Stephanie Kurtzuba,
Patricia Clarkson, Sia, Mila Kunis, Ashton Kutcher, Rihanna
Voto: 3.8/ 10
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Il primo quarto d'ora di film è la prova d'artista di tutti gli sceneggiatori: dialoghi didascalici che servono a riassumere quello che della storia non sappiamo, anche se siamo alla settima riduzione dell'originale Little Orphan Annie, striscia a fumetti che debuttò nel 1924 sulle pagine del New York Daily News, creata da Harold Gray, e diventata talmente celebre da finire tra le venti strip commemorative in un'edizione speciale di francobolli statunitensi. La pubblicazione italiana non ha mai riscosso grande successo, mentre già negli anni '30 in America se ne trasse un primo adattamento cinematografico: la storia originale è quella di Annie, bambina di dieci anni circa dai ricci capelli rossi e senza pupille che vive in un'America conservatrice fatta di ricchi capitalisti tutti buoni e malvagi di estrazione sociale inferiore. Alla fine degli anni '70 debutta a Broadway il musical Annie che resterà in cartellone per quasi 2.400 recite. Da questo plot prende il via il più celebre film dell'82 di John Huston: l'orfanella Annie vive con una manica di altre bambine in una grande casa che deve tenere a lucido sotto il controllo spastico della signorina Hannigan, zitella con la mania dell'arricchimento e non certo la vocazione per i minori. Il miliardario Warbucks (soldi di guerra, che viene adattato a produttore di armi) decide di ospitare nella propria villa, per una settimana, filantropicamente, una delle pischelle senza genitori dell'istituto – la scelta ovviamente ricade sulla Annie del titolo, altrimenti il film si chiamerebbe in un altro modo, la quale custodisce il mezzo ciondolo di una collana che spera di completare ritrovando i veri padre e madre. Ovviamente, giunta a palazzo, tra la comica ineducazione e la spontaneità infantile, conquista prima la servitù e poi l'algido padrone di casa. Nel gennaio 2011 la Sony annuncia l'avvio del progetto finanziato da Jay-Z e Will Smith, con protagonista la figlia di quest'ultimo, Willow. In fase di produzione era stato stabilito infatti che la nuova Annie dovesse essere afro-americana, ma due anni dopo, a inizio riprese, viene preferita Quvenzhané Wallis, la più giovane candidata all'Oscar come Miglior Attrice della storia, a 9 anni, nel 2013, per Re Della Terra Selvaggia. Cameron Diaz prende la parte che era stata data a Sandra Bullock, si aggiungono Jamie Foxx e Bobby Cannavale (il primo è candidato sindaco di New York, il secondo è il suo fedele agente senza scrupoli) più tutta una serie di cammei che culminano con la scena di un film fantasy, al cinema, intepretato da Mila Kunis, Ashton Kutcher e Rihanna. Fa capolino anche l'onnipresente Sia, autrice della straziante canzone originale Opportunity, candidata al Golden Globe: Annie versione 2014 ottenne due candidature al Globe: oltre a quella per il brano, l'attrice protagonista in un film comedy o musicale: inutile e immeritato tentativo di recuperare la mancata candidatura alla Wallis dopo la risonanza di tre anni fa («una ragazzina più leziosa di Shirley Temple», Marzia Gandolfi). Jay-Z interviene anche in tutta la colonna sonora, che mischia deboli pezzi originali a cover che furono del palco di Broadway: tripudio di auto-tune che strizza l'occhio alla Billboard e al pubblico a cui piace che quando si comincia a cantare gli attori chiedano: ma che fai?, canti? Il musical di Huston, e quello poi per la televisione di Bob Marhall, perdono il loro impianto clochard – Annie è un'orfanella povera che vive in un quartieraccio e a malapena si lava: l'approdo in casa di Foxx rivela più schermi e monitor che pareti, sintomo dell'angoscia con cui si vive la candidatura politica – durante la quale tutto è documentato, tutto filmato fotografato e virale. La satira sociale non basta: Warbucks salva Annie per strada, gli elettori se ne accorgono e lui se la porta in casa per far parlare bene di sé: ma la condizione afro-americana che si dovrebbe aggiungere a quella di povertà e solitudine, si perde per le vie di Manhattan insieme alla carriera di Cameron Diaz: la peggiore scelta che si potesse fare per una zitella che dimostra più dei cinquant'anni che ha. Candidata al Razzie come peggior attrice non protagonista e vincitrice dell'Alliance of Women Film Journalist come “attrice che necessita un nuovo agente”, non ha portato al film il secondo grape, oltre a quello di peggior remake 2014. Il pasticcio di intenti – fare un film afro-americano su un musical di Broadway senza attingere al musical di Broadway né alla striscia a fumetti di partenza – a cui aveva inizialmente partecipato Emma Thompson, esce in sala, non a caso, con un anno di ritardo dall'America.

martedì 30 giugno 2015

Nastri d'Argento - vincitori.



«Tre per tre» scrive il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici, sul sito ufficiale nei Nastri d'Argento 2015: tre premi a Garrone, tre a Munzi e tre a Sorrentino – calcolando doppio quello al montaggio di Cristiano Travaglioli che ha lavorato sia a Youth che ad Anime Nere. Gli altri due di Paolo: la migliore regia e la fotografia di Luca Bigazzi; di Francesco: la produzione e la sceneggiatura. Il Racconto Dei Racconti invece riceve, prevedibilmente, i premi alle maestranze per la migliore scenografia, i costumi di Massimo Cantini Parrini con la Sartoria Tirelli e il sonoro in presa diretta. Ennesimo Nastro al Premio Oscar Nicola Piovani per l'unico riconoscimento ad Hungry Hearts (le musiche, ovviamente) e primo a Francesco De Gregori, autore di testo e arrangiamento per la canzone originale Sei Mai Stata Sulla Luna?, film omonimo. Gli attori: Margherita Buy migliore interprete per Mia Madre mentre alla sua partner Giulia Lazzarini fuori gara va il Nastro Speciale (condiviso con Adriana Asti in Pasolini di Ferrara e quello alla carriera di Ninetto Davoli); non protagonista: Michaela Ramazzotti per Il Nome Del Figlio, doppietta con Alessandro Gassman (anche ne I Nostri Ragazzi) e miglior attore non protagonista Claudio Amendola per la commedia dell'anno Noi E La Giulia, subito davanti all'esordio Se Dio Vuole di Edoardo Falcone che incassa, dopo il David, pure questo premio. Sempre tra gli attori, il Premio Nino Manfredi va per la prima volta a una donna: Paola Cortellesi, premiata «per la sua ironia» al di fuori della candidatura di Scusate Se Esisto! Il film dell'anno, già annunciato, era Il Giovane Favoloso, quindi fuori dalla competizione: ritirano il premio regista, produttori, sceneggiatori e interprete, Elio Germano. Infine il soggetto crossmediale di Salvatores, Il Ragazzo Invisibile, viene finalmente premiato nel suo dipanare la storia a segmenti tra pellicola, fumetto e film, come fu per Matrix. Tutti i candidati, oltre ai vincitori, di seguito e dopo l'interruzione.

nastro dell'anno
Il Giovane Favoloso di Mario Martone

regista del miglior film
Saverio Costanzo per Hungry Hearts
Matteo Garrone per Il Racconto Dei Racconti
Nanni Moretti per Mia Madre
Francesco Munzi per Anime Nere
Paolo Sorrentino per Youth - La Giovinezza

giovedì 25 giugno 2015

i mandarini.




Violette

id., 2013, Francia/ Belgio, 132 minuti
Regia: Martin Provost
Sceneggiatura originale: Martin Provost,
Marc Abdelnour, René de Ceccatty
Cast: Emmanuelle Devos, Sandrine Kiberlain,
Olivier Gourmet, Catherine Hiegel, Jacques Bonaffée,
Olivier Py, Fabrizio Rongione
Voto: 7.7/ 10
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Nata ad Arras, figlia illegittima di una cameriera e mai riconosciuta dal padre, Violette Leduc crebbe con la convinzione di non essere stata voluta da nessuno in famiglia, di essere completamente sola; non bastarono le due relazioni lesbiche, con una compagna di classe e un'insegnante, a farle passare il tarlo. La Guerra non le permise di finire le scuole. Nel 1938 conobbe Maurice Sachs ed è da qui che il film parte, col capitolo uno: Maurice, appunto. Lui omosessuale, lei innamorata di quell'amore ingenuo e infantile che è l'amore dell'essere amati, portano avanti una finta relazione sociale fino a quando lui parte per la Germania nazista. Scioltamente inserita nel mercato nero, Violette riuscirà non solo a campare da sola ma anche a vivere dignitosamente, con tanto di cappotti e cappelli che non passerebbero inosservati; come non passava inosservato il suo comportamento senza filtri, senza restrizioni, la sua risposta pronta e sempre sincera, spesso fuori luogo, i suoi atteggiamenti teatrali, privati della compostezza etica. Violette era una donna cresciuta quasi senza figure educative ma con un profondo rancore che la legava, attaccava a qualsiasi persona si fermasse a salutarla. Succederà più di tutti con Simone de Beauvoir, intellettuale già affermatissima, con all'attivo un libro scabroso su un triangolo (due donne e un uomo). Rapita dall'idea che la sua mente ha costruito di questa figura, Violette sarà spinta a lasciarle fiori fuori dalla porta e poi a scrivere, di tutto, di sé; fu la prima grande inventrice dell'auto-fiction, e la pellicola di Martin Provost, già regista dell'apprezzato biopic su Séraphine de Senlis, fa quest'operazione strana per un film su uno scrittore: quasi mai la ritrae all'opera, con carta e penna in mano; spesso, invece, è alla mercé della sua vita, perché quella poi ha nutrito i suoi romanzi. Assistiamo alla pubblicazione «in tiratura limitata» de L'asfissia, gli elogi da parte di Sartre, Cocteau, Genet (mai inquadrati), il concepimento del secondo L'affamata e poi la gloria raggiunta con La Bastarda, candidato al Premio Goncourt che venne vinto, invece, da I Mandarini della Beauvoir. È, il suo, il secondo grande ritratto del film: algida, seria, sempre a schiena dritta, è l'opposto di Violette e, forse per questo, grandissima fonte di attrazione, amica, confidente – la loro profonda amicizia sfidò le convenzioni della prima metà del Novecento così come lo fecero i loro non-romanzi. Ha il volto di Sandrine Kiberlain, la madre non-incinta del Piccolo Nicolas, la moglie fredda e arricchita de Le Donne Del 6° Piano; è qui bruna e perfetta, a suo agio di fianco alla colonna di tutte le scene, Emmanuelle Devos, l'indimenticabile Carla di Sulle Mie Labbra da poco tornata sui nostri schermi con Il Figlio Dell'altra. Imbiondita, affronta una biografia calandosi nel personaggio con spigliata naturalezza: ci regala il periodo di depressione, quello di serenità, gli improvvisi sbalzi d'umore, le gioie, i dolori, la necessità di scrivere ancora e gli infantilismi gridati sulla riva della Senna. Sono due attrici in stato di grazia che completano un bel film, riuscito, che quando pecca in lunghezza viene aiutato dagli allestimenti impeccabili: scene, costumi e fotografia rendono l'ambiente culturale francese in tutta la sua vivacità ed estraneità dal mondo in cui, in realtà, era pienamente inserito. Dai manoscritti originali ai barattoli della colla, ogni accessorio è ricostruito con cura maniacale, le scene all'aperto sono attente, gli interni pieni di piccolezze. Una splendida biografia, che in fondo rivela il desiderio di riportare in auge una difficile e triste storia per dare gloria a una donna che, in vita, ne ha avuta troppo poca.

mercoledì 24 giugno 2015

un nuovo Apple Store.



Ruth & Alex:
L'amore Cerca Casa

5 Flights Up, 2014, USA, 92 minuti
Regia: Richard Loncraine
Sceneggiatura non originale: Charlie Peters
Basata sul romanzo Ruth & Alex di Jill Ciment (Newton Compton)
Cast: Diane Keaton, Morgan Freeman, Cynthia Nixon,
Alysia Reiner, Carrie Preston, Miriam Shor, Josh Pais,
Claire van der Boom, Maddie Corman, Sterling Jerins,
Joanna Adler, Hannah Dunne, Liza J. Bennett
Voto: 5.9/ 10
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Sposati da quarant'anni, da quarant'anni Ruth e Alex convivono in una luminosissima casa («servono gli occhiali da sole per fare colazione») in cui Alex si è ritagliano una stanza per fare il suo studio, atelier di tele e pittura, dalla vista mozzafiato fuori dalla finestra, una vista su una città che in quarant'anni è cambiata – sono stati inaugurati nuovi Apple Store e le giovinastre, uscendo dalle porte dei negozi, hanno perso l'abitudine di dare la precedenza ai più anziani entranti, nella prima e più profonda scena-dettaglio del film, rovinata dalla voce fuori campo. Voce di Alex: che si domanda il perché, dopo tutti questi anni, di dover vendere la dimora, sempre più vicini all'età anziana: il quinto piano senza ascensore del titolo originale è la causa principale, ma ormai i coniugi ci hanno così fatto l'abitudine che, a differenza del cane o della nipote, salgono senza un lamento – «sono una quarantenne circa e non ho già più il fiato». Aiutati da un'agente immobiliare, uno controvoglia e l'altra stoicamente, procedono all'open-house, all'accoglienza di eventuali acquirenti, futuri inquilini di quella casa in cui ogni parete sembra parlare. Si mettono in mezzo però: un malore al cane domestico, su cui bisogna intervenire con una TAC costosa, e un'intervento ancora più caro; poi una specie di kamikaze arabo, un probabile trasportatore di bombe che ha seminato il panico in città e su un ponte, che forse deruba negozi e tassisti, di cui tutti sono alla ricerca. L'evasore allenta l'interesse verso l'immobile, ma non poi neanche tanto; il cane distrae i proprietari terrieri, che sulla panchina di fronte al fiumiciattolo, come tutti gli americani, si interrogano sui massimi sistemi. Ne segue una vicenda immobiliare in cui con lieve piglio satirico vengono mostrati personaggi e figure tipici del caso, quelli sempre insoddisfatti dei muri che vanno a vedere, i menefreghisti, le mamme con figlie che testano il materasso visto che è «il posto dove passerò la maggior parte del tempo, in questa casa». Lo sguardo di Morgan Freeman si sposta su un ritratto fatto alla consorte in gioventù: flashback sul loro essersi conosciuti, lui pittore e lei modella presa dall'agenzia non perché bella ma perché vera (…); lo sguardo di Diane Keaton si sposta sulla porta di fronte: flashback sul vicino che, vedendosi nel palazzo un nero, chiude la porta senza salutare, e così la madre, «soddisfatta» del matrimonio della figlia, ma non «felice». La trama esile della pellicola vorrebbe contenere forse troppi temi, primo fra tutti quello della tolleranza razzista a cui ogni film made in U.S.A. con un interprete di colore deve accennare per forza: asciugato di qualsiasi romanticheria, al punto che i due a malapena si sfiorano – ma si colgono come ogni coppia anziana sa fare – il film si incastra in questo tour-de-force al rialzo sul valore dello stabile che quasi si fa thriller verso la prevista decisione finale: resteranno in quella casa o no? Si fa guardare – magari anche in televisione, magari al pomeriggio – soprattutto per i due interpreti: premi Oscar e mostri sacri della spontaneità. Li dirige uno che di mostri sacri ne ha visti, Richard Loncraine – regista del Riccardo III con Ian McKellen e Annette Bening e del televisivo La Mia Casa In Umbria con Maggie Smith. Niente di nuovo sul fronte, appunto, occidentale: ma un esercizio d'indovina-dove-l'hai-visto: dietro la ben celebre Cynthia Nixon di Sex & The City fanno capolino l'Arlene di True Blood e Elsbeth Tascioni di The Good Wife Carrie Preston fino all'Alysia Reiner di Orange Is The New Black.