venerdì 29 giugno 2012

26° Festival Mix - vincitori.





Ieri sera si è concluso con le ultime due proiezioni la 26esima edizione del Festival Mix a Milano, festival del cinema a tematica gay e lesbo che propone pellicole non acquistate e non distribuite dal mercato nostrano; la decisione del film da far vincere tra  i 18 in gara è stata presta stamattina e annunciata adesso: Cloudburst di Thom Fitzgerald (Canada) con i premi Oscar Olympia Dukakis e Brenda Fricker mette i piedi in testa al film per cui facevamo il tifo (Weekend) e si aggiudica il trofeo del miglior lungometraggio - gli altri premi assegnati durante il festival sono stati il Queen of Music (vinto da Ornella Vanoni) e il Queen of Comedy (Geppi Cucciari). La meritata vittoria è stata così giustificata dalla giuria formata da Jody Fouqué, Francesco Frongia, Luki Massa, Filippo Mazzarella, Gory Pianca e Dalila Sena:

Racconto avvincente di un sentimento ostinato che fa di due anziane lesbiche due memorabili eroine romantiche, in lotta contro la brutalità dei pregiudizi. Road-movie rocambolesco e movimentato, Cloudburst sceglie il registro della commedia per parlare di temi importanti come l'amore, la vecchiaia, i diritti civili. Un'opera popolare, toccante e divertente, che sa far ridere e pensare [...].

Stasera alle 21:00 saranno annunciati i cortometraggi e i documentari vincitori di questa edizione; a seguire, la proiezione di Cloudburst sempre nella Sala Grande del Piccolo Teatro Strehler di Milano.
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venerdì 22 giugno 2012

se mi lasci non vale.





Un Amore Di Gioventù
Un Amour De Jeunesse, 2011, Francia, 110 minuti
Regia: Mia Hansen-Løve
Sceneggiatura originale: Mia Hansen-Løve
Cast: Lola Créton, Sebastian Urzendowsky, Magne-Håvard Brekke
Valérie Bonneton, Serge Renko, Özay Fecht
Voto: 5.5/ 10
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I due protagonisti di questa storia, che si chiamano Camille e Sullivan, escono dal cinema poco prima della fine e lei dice: «bellissimo film, bella storia, bei personaggi», e lui risponde: «è stato retorico, gli attori erano imbarazzanti, troppo francese». Io dalla mia poltroncina ridevo, pensando che questi due stessero parlando di questa pellicola qua. Che alcuni hanno trovato bella, con bella storia e bei personaggi, e che io ho trovato retorica, con attori imbarazzanti e troppo francese.
Camille e Sullivan hanno quindici anni lei e qualcuno in più lui (immagino) ma già fanno l'amore, comprano i preservativi con disinvoltura, li usano, si amano, informano le rispettive famiglie di questa relazione, usano frasi come «piango per la malinconia quando non sei con me» e «se mi lasci ti ammazzo e poi mi suicido». Sono, insomma, una macchietta delle relazioni adolescenziali vere. È il febbraio del 1999, siamo a Parigi, lei va a scuola e lui racimola soldi per scappare in Sud America, nonostante la tenera età hanno il modo e il permesso di trascorrere qualche giorno in una casa dismessa in campagna (cosa che non sta in piedi numero 2) dove litigano, raccolgono ciliegie (vedi locandina) e fanno pace e amore. Poi lui parte come Kerouac per scarrozzare on the road e dopo qualche lettera spedita si mollano. Lei piange ma non lo ammazza né si suicida. Il tempo passa, e lo sappiamo attraverso date scritte sulle lavagne, calendari, quaderni d'appunti. Arriviamo al 2007 che lei è uguale identica a prima (cosa che non sta in piedi numero 3) e lui pure, stessi pettorali glabri, stesso addome piatto, stessa motoretta per andare in giro, ma non stanno più insieme perché lei, infuatuatasi del professore di Architettura, se l'è fatto moroso e quasi gli dava un figlio (cosa che non sta in piedi numero 4).
In due ore di questa storia di formazione ed esperienze, Lola Créton (che somiglia incredibilmente a Ivana Baquero ma che invece è la Marie-Catherine della trasposizione della fiaba di Barbablù) non cambia faccia neanche per dieci minuti; sorride poche volte, molte volte piange, in certi momenti proprio si dispera, e pare che le sia piovuto in faccia, carica di gocce di collirio ma con gli angoli della bocca immobili. Lui si sforza un po' di più, è costretto a sussurrarle frasi dolcissime e terribili mentre sono appartati (e cioè sempre), ma almeno il doppiaggio l'ha salvato.
Per Mia Hansen-Løve questo film arriva subito dopo il successo (meritato) de Il Padre Dei Miei Figli del 2009, con cui aveva vinto il Premio Speciale della Giuria a Cannes nell'Un Certain Regard. Ha ricevuto una menzione speciale a Locarno (dove il film si chiamava molto più dignitosamente Goodbye, First Love e aveva questa locandina) ma non ci ha convinti davvero tutti. A mio avviso, piuttosto che andare a vedere questo in una delle 18 sale italiane in cui è uscito, recuperate (≠ scaricate) Like Crazy, che racconta più o meno la stessa cosa ma con un realismo, un'arguzia e una raffinatezza decisamente migliori.

26° Festival Mix.





Dopo che vinse il Queer Lion al Festival del Cinema di Venezia, Un Altro Pianeta, film diretto dallo sceneggiatore e traduttore Stefano Tummolini, girò per pochissime e ristrettissime sale d'Italia; arrivò a Milano, e io lo vidi, in un posto che ormai non esiste più, che si chiamava Nuovo Cinema Orchidea. Eravamo non pochi in sala, e il film partì con un virilissimo uomo che in mezzo alle canne di bambù, vicino alla spiaggia, abbordava un altro uomo che gli donava un amplesso clandestino. A quattro minuti dall'inizio, un signore alle mie spalle, tre file dietro, si alzò indignato e urlando alla moglie, o alla figlia, disse «me lo dovevi dire che era un film di froci!, che schifo, che roba». E se ne andò.
Se non rientrate in questa categoria e vivete a Milano, potete partecipare al Festival Mix, giunto alla sua ventiseiesima edizione, festival del cinema gay, lesbo e, come si dice per alcuni locali, “gay friendly” che non si limita a portare in Italia alcune pellicole non distribuite nel nostro Paese (l'anno scorso ci fu Homme Au Bain di Christophe Honoré con François Sagat) ma cerca anche di dare la gioia a chi non è poi così cinefilo (l'anno scorso ci fu François Sagat presente in sala).
Adesso, io non posso essere ipocrita e non ammettere che gran parte delle pellicole queer, soprattutto quelle americane, sono imbarazzanti come poche cose. Però non bisogna generalizzare e scovare alcune perle: sabato 23, alle 20:40, sarà proiettato un film che abbiamo amato alla follia, impeccabilmente scritto, magistralmente interpretato, poco conosciuto, Weekend di Andrew Haigh con Tom Cullen e Chris New al loro quasi-esordio cinematografico (qui la recensione). Promettono bene invece il belga North Sea Texas di Bavo Defune, regista di una quantità industriale di corti (venerdì 22, ore 21:00, il film d'apertura) e soprattutto Cloudburst, del canadese Thom Fitzgerald, con Olimpia Dukakis (Oscar per Stregata Dalla Luna) e Kristin Booth nei panni di un'attempata coppia costretta a fronteggiare un incidente domestico (giovedì 28, ore 21:00).
Un sacco di cortometraggi, molti i documentari a tema, e qualche capolavoro in versione esplicita (L'esorcista di William Friedkin, di cui stiamo aspettando Killer Joe, nella versione di 132 minuti). Il programma completo è scaricabile e consultabile sul sito ufficiale dell'evento, dove c'è anche l'elenco dettagliato delle “altre cose”, serate e dj-set nei più famosi locali open-mind di Milano. Immancabile il salotto pop della letteratura italiana, condotto dal duo Diego & La Pina di Radio Deejay, che presenterà i libri più interessanti del 2012 con ospiti scrittori e giornalisti (Alessandro Fullin, Alessandro Cecchi Paone, Alcìde Pierantozzi, Selvaggia Lucarelli), nella Scatola Magica del Piccolo Teatro Strehler, sabato domenica e lunedì.
Il festival avrà alla fine un film vincitore. Non vi diciamo per chi tifiamo.

giovedì 21 giugno 2012

maschio o aborto.





Il Dittatore
The Dictator, 2012, USA, 83 minuti
Regia: Larry Charles
Sceneggiatura originale: Sacha Baron Cohen, Alec Berg,
David Mandel, Jeff Schaffer
Cast: Sacha Baron Cohen, Sayed Badreya, Ben Kingsley,
Anna Faris, John C. Reilly, Megan Fox
Voto: 6.5/ 10
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Nel trailer e nella locandina italiana trovate scritto, tra i pochi attori celebri, Megan Fox, ma aspettatevi di trovarla in appena quaranta secondi, in cui finge di godere, ritira un regalino, scatta una foto e scappa. Molto più presente di lei, nell'intera pellicola, è Anna Faris, mora per finta e bionda nella realtà, è stata bionda in un sacco di film di cui non andare fieri: La Coniglietta Di Casa, Hot Chick e, soprattutto, una serie di Scary Movie (a onor del vero, è anche in Brokeback Mountain e Lost In Traslation): e non si può non tirare in ballo la comicità e la struttura di Scary Movie: il tremendo Sacha Baron Cohen (Golden Globe come miglior attore comedy e nomination all'Oscar per la sceneggiatura, entrambi per Borat), che ci ha abituato a questo genere di proto-cinema un po' docu-fiction e un po' vera finzione, che ha portato sullo schermo personaggi così macchiette da sfiorare il grottesco (Brüno), finisce che arriva al quarto film da produttore/ sceneggiatore/ interprete e scade nella banalità, nell'americanezza, parte in quarta a livello di satira e di follia nel montaggio e poi s'appiattisce sul più bello ricordando la storia de Il Principe E Il Povero e i soldi che è disposto a spendere il pubblico in sala.
Dittatore dello stato di Wadiya, ci fa ridere a crepapelle per le sue abitudini sportive, l'inserimento del termine “Aladeen” nel linguaggio comune in sostituzione di 500 altre parole, la considerazione della donna e la soluzione facile nel giustiziare. Sbarca in America per un incontro coi vertici che vorrebbero istituire la democrazia lì dove lui ha il suo impero, in cui in realtà si sente molto solo, ma ecco che uno dei suoi sosia - costruiti apposta su persone comuni per ricevere pallottole in testa - prende il suo posto e lui, irriconoscibile senza barba, prende il posto di un commesso di green-peace in un negozio bio e s'infatua di una Zoey, la Anna Faris di cui prima, che pare un maschio con le tette.
Ciao, satira! Le belle battute si spengono a discapito di una storia d'amore banale e cretina, con dei ralenty tremendi e dei picchi di demenzialità da mani nei capelli (il parto nel supermercato, infinito e imbarazzante). Le incursioni televisive iniziali compaiono poi solo alla fine, con questi due presentatori di TG che non capiamo se ci sono o ci fanno. John C. Reilly, anche lui presente due secondi, fa una battuta e mezzo molto poco carina. Ben Kingsley, amico nemico, è reduce dal set di Hugo Cabret che ha condiviso con Cohen per la regia di Martin Scorsese, dove tutt'e due interpretavano personaggioni benissimamente vestiti.
Prova di sceneggiatore fallita, questa per il nostro Sacha Baron che ama parlar male della nazione che gli dà il pane, ma superata di nuovo come attore e umorista; il pubblico, ovviamente, invece lo premia, e si sganascia al cinema facendolo stare al primo posto dei film più visti della scorsa settimana (ha superato Men In Black). Non gli dò l'insufficienza perché qualche trovata (quella delle polaroid, quella delle figlie se nascono femmine) è davvero geniale, e la satira arabica (ma ancora di più americana), anche se latente, necessaria.

mercoledì 20 giugno 2012

Cannes65: Beyond The Hills.



Oltre Le Colline
Dupa Dealuri, 2012, Romania, 150 minuti
Regia: Cristian Mungiu
Sceneggiatura non originale: Cristian Mungiu
Liberamente ispirata al libro Deadly Confession di Tatiana Niculescu Bran
Cast: Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga,
Catalina Harabagiu, Gina Tandura, Vica Agache, Nora Covali, Ionut Ghinea
Voto: 8/ 10

Cannes65: Palma all'interpretazione femminile (Cosmina Stratan e Cristina Flutur); premio alla migliore sceneggiatura (Cristian Mungiu).
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Quello che tutte le recensioni dicono, al nome di Cristian Mungiu, è “già Palma d'Oro nel 2007 con 4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni” (il suo film d'esordio, lui ha 42 anni); ma quello che le recensioni non dicono, eccetto qualcuna e qualcosa, è che questo film è diretta conseguenza di quell'altro, i due sono parenti stretti: dall'analisi che fa della Romania moderna (che in realtà, poi, appare arretratissima e misera) alla forte presenza dell'etica e della morale. Quel film parlava dell'aborto clandestino, e non si capiva bene da che parte stesse (secondo me contro, data l'inquadratura del feto morto); questo film parla d'amore e religione. Sono parenti già dall'esordio: una donna, in stazione, aspetta cerca e trova un'altra donna, e sarà questa coppia femminile, dopo Otilla e Gabriela, a sobbarcarsi gran parte delle scene del film. Si chiamano questa volta Alina e Voichita e sono amiche d'infanzia cresciute insieme in orfanotrofio (anche se la madre di una è viva), luogo in cui si davano forza e amore, e il legame è continuato anche dopo la separazione, dopo lo scorrere degli anni: Alina è stata adottata da un'altra famiglia, per poi scappare a lavorare in Germania, mentre Voichita ha ricevuto la chiamata e s'è fatta monaca, e adesso divide tavola e cibo e giornate con altre monache in una sorta di convento fatiscente con chiesa annessa e tanto di prete-padre ortodosso. Alina raggiunge l'amica al di là delle colline per prenderla e partire verso un lavoro qualsiasi su una nave, sempre in Germania, ma entrando in contatto con la vita religiosa e con i dubbi di Voichita - che se dovesse partire non potrebbe più tornare - si rende conto del microcosmo che il mondo religioso fa a parte. Le chiede frizioni, notti nello stesso letto, e la trova cambiata, costretta a moltissimi divieti e obblighi, a riflessioni prima delle azioni. Entrambe devono sottostare ai 464 dogmi della religione ortodossa così diversa da quella occidentale (dove «gli uomini sposano uomini e le donne sposano donne e c'è la droga») ma a quanto pare per la straniera è molto più difficile che per l'abituata, e allora impazzisce: «c'è il demonio dentro di lei» dicono le altre, e pregano e pregano e pregano accecate dalle parole del loro padre, e la poveretta, alla fine, si ritroverà in croce come il Cristo.
In conferenza stampa a Cannes Mungiu ha raccontato molto di questo film: dalla codifica del peccato per la Chiesa Ortodossa agli scritti che danno ispirazione alla storia realmente accaduta (raccolti da Tatiana Niculescu Bran in Deadly Confession, non pubblicato in Italia), dalla critpica e criptata scena finale alla morale che aleggia su tutto il film. Ha ricevuto, poi, il premio per la miglior sceneggiatura, fatta di dialoghi serratissimi molto più presenti che in 4 Mesi, macchiati da elementi di vita quotidiana geniali, gesti originali (la dottoressa che mette a caricare il cellulare in ospedale), discorsi a tavola che occupano l'intero pasto e ci informano delle organizzazioni lavorative in chiesa. Per tutto questo, si usa lo stesso metodo del film precedente, ma meno fermo: la telecamera inquadra sempre qualcuno o qualcosa anche se a parlare sono in due, però non lascia mai troppo fuori e non è mai statica, è telecamera a spalla, e sono tutti pianisequenze, tutti privati di musica e di suoni che non sono dentro alla storia.
Molto rigore e un'incredibile fotografia che mette tutto a fuoco e tutto incastra in scena, bellissimi gli interni, curati e consumati dal tempo, impeccabile la direzione. Ma la storia? Due ore e mezzo in cui, dopo la spiegazione iniziale della situazione, la trama si accascia e rotola su se stessa mostrando continui attacchi di follia di Alina e continui spasmi delle suore che devono mettere tutto in ordine prima che inizi la messa. Alzo il voto per l'obiettivo un po' anticlericale della pellicola e perché sono influenzato dalle recensioni altrui, ma anche il premio alle due attrici, m'è sembrato un po' un regalino.

Cannes65: Paradise Love.





Paradise: Love
Paradies: Liebe, 2012, Austria, 130 minuti
Regia: Ulrich Seidl
Sceneggiatura originale: Ulrich Seidl & Veronika Franz
Cast: Margarete Tiesel, Peter Kazungu, Inge Maux, Dunja Sowinetz
Voto: 7.8/ 10
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Prima parte di una trilogia che al momento non esiste ma che promette di parlare di ciò che per l'occidentale medio è il “paradiso”, e cioè la vacanza esotica su spiagge africane (continuerà con un ritiro spirituale cattolico e con un campeggio per ragazzi sovrappeso), Paradise: Love segna il ritorno di Ulrich Seidl sul grande schermo e sulla croisette a Cannes dopo Import/Export del 2007. E ritorna, Seidl, come l'avevamo lasciato: con una sorta di disprezzo profondo per i suoi conterranei austriaci e con la crudezza quasi volgare che l'ha contraddistinto (leggi: Canicola) mentre sullo schermo passano immagini impeccabili, bellissime, simmetriche e colorate e ben riempite.
Questa è la storia di Teresa, addetta al funzionamento delle macchine da scontro, con una figlia a casa che mette le scarpe sporche sul letto, cinquantenne abbondante, grande di seno e di girovita, con più carne che capelli biondi. È, nel suo modo di camminare dondoloso e nella sua risata nervosa, la tipica donna sola e insoddisfatta, né sicura né insicura, che ascolta i racconti delle sue amiche coetanee sui viaggi in Kenya e sulla quantità di maschioni a disposizione e si lascia convincere e stregare, e così parte, lasciando a casa figlia e lavoro e godendosi il sole cocente dell'Africa sul mare e le chiacchiere in sedia a sdraio sull'uomo ideale. Appena fa due passi viene circondata e bloccata da giovani neri che cercano di venderle collane, sculture, gite, bracciali, e insistono, e insistono, e lei dice «no grazie» in tedesco, in inglese, fino a quando uno su tutti ha la meglio e la ammalia. Lei si lascia ammaliare, ci finisce a letto, lui le chiede soldi per la sorella, per la figlia della sorella, per il padre malato in ospedale. Capisce l'inghippo e lo molla. Ne trova un altro, pare migliore del precedente, inizia a chiederle soldi per il fratello che ha fatto un incidente. Capisce l'inghippo e se ne sta sola in camera d'albergo a passare il giorno del suo compleanno, ma le amiche hanno una sorpresa: la scena più latentemente volgare e fastidiosa mai vista al cinema, che completa magnificamente questo quadro sul turismo sessuale.
Da vittima, sempre di celeste vestita, Teresa finirà per essere carnefice mentre intorno avrà solo stoffa rosa. Il sogno d'amore si è consumato nel portafogli, insieme alle banconote, e tutto ciò che vuole, adesso, è l'appagamento sessuale.
Impossibile non paragonare questo film a Verso Il Sud di Laurent Cantet che pure aveva una protagonista splendida (Charlotte Rampling) che andava in gita di piacere verso il Sud, appunto, ma quello era ambientato negli anni '70 e non era tremendamente crudo come questo. Seidl lascia spesso la camera ferma al centro di una stanza e ci mostra cosa succede, in scene lunghissime ma mai statiche, in stanze piene di geometrie e prive di musica, e poi segue Teresa, mentre cammina di spalle come Gus Van Sant, mentre si cala dagli scogli: si chiama Margarete Tiesel e sfiora la perfezione; coraggiosissima nell'accettare questo ruolo, spontanea, reale, credibilissima quando si ubriaca, quando si impappina parlando due lingue, quando viene punta da un riccio. Prova di recitazione notevole ben sorretta da quelle attorno, soprattutto dei ragazzi neri che la accompagnano in stanza d'albergo e parlano un inglese masticato.
Cannes 2012 ci dona un altro film intriso di sesso esplicito e perenni nudità. E poi dicono che i festival sono per i vecchi noiosi.

lunedì 18 giugno 2012

Cannes65: Post Tenebras Lux.



Post Tenebras Lux
id., 2012, Messico, 120 minuti
Regia: Carlos Reygadas
Sceneggiatura originale: Carlos Reygadas
Cast: Adolfo Jiménez Castro, Nathalia Acevedo, Willebaldo Torres
Voto: 6.3/ 10

Cannes65: Premio alla miglior regia (Carlos Reygadas)
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Durante tutto il film, in sala, le persone alla mia destra e alla mia sinistra parevano colpite dalla tarantola. Si muovevano sulle poltroncine sofferenti come in sala d'attesa dal dottore. Cambiavano bracciolo per i gomiti, sbuffavano. Quelli che avevo davanti si guardavano sorridendo. Io controllavo spesso il telefono, e pensavo a cosa avrei potuto cucinare il giorno dopo. Alla fine della proiezione la gente in sala (non troppa) rideva. Alcuni facevano «buu» pure se non c'era il regista presente. Post Tenebras Lux, che ha diviso la critica (ma a questo punto ha tenuto ben saldo il pubblico), premiato a Cannes 2012 per la miglior regia, ha fatto cagare a molti. La signora di fianco a me, andandosene, ha detto: «ci casco sempre; non mi devo fidare più dei messicani».
In realtà, il film, ha degli aspetti superbi. Parte in modo che è pura tecnica, in quattro terzi, in aspect ratio 1:37.1 e cioè con una sorta di cerchio ottico al centro che sfuoca i bordi e ripete parte dell'immagine, aspetto che viene esasperato nelle scene all'aperto, nei boschi, che occupano quasi completamente il film. La scena iniziale, dicevo, è bellissima: fotografia magistrale, una bambina, che poi scopriremo chiamarsi Rut (e che sappiamo essere la figlia vera del regista, insieme all'altro infante protagonista), corre e scarrozza per un campo in cui ha visibilmente piovuto gridando «vacche» e «cani» perché queste sono le uniche presenze intorno a lei. I quadrupedi si spostano, la telecamera pure, lei saltella e ride, il cielo si fa grigio, arriva la tempesta. Dieci minuti abbondanti così, di niente, di pura tecnica. Lo schermo si fa nero insieme al cielo e, una parola ogni cinquanta secondi, compare il titolo. Seconda scena, e iniziano i dolori: il diavolo - una sagoma di satiro rosso fluo dall'interno, che emana luce - entra in una stanza con valigetta in mano e lentissimamente procede verso una camera da letto mentre un bambino lo guarda. Dalla terza scena potrebbe iniziare il film, la cui trama dovrebbe essere questa: Nathalia e Juan sono una coppia con due figli che, vediamo, può permettersi una domestica in casa e una sontuosa cena di Natale coi parenti; senza problemi dal punto di vista economico e con un sacco di cani, decidono di andare a vivere in campagna e stare più a contatto con la natura. E basta. La trama è questa. Che poi, non è certo che sia questa, perché la storia ci viene raccontata in ordine casuale: vediamo Rut e Eleazar piccolissimi, poi grandi, poi di nuovo piccoli, poi adulti al mare; vediamo che a Juan succede qualcosa e poi un manipolo di vecchi ne parla giocando a carte, altrove; vediamo una foresta con alberi che cadono, immagini maestose conservate per la fine, e ancora gente che va a cavallo, o su un asino. Compare, poi, pure, l'ossessione del regista: il sesso. Che si fa regolare volgarità nella voglia di Juan di voler scopare la moglie da dietro e poi disgustosa pornografia in una tremenda, lunghissima, scena nella sauna d'amore prolifero.
Una storia, quindi, esiste, ed è la storia di un tormento interno mai appagato. Una tecnica pure, ed è quella di affiancare le immagini per sensazione e non per senso. Un regista consapevole, anche: Carlos Reygadas - che suscita queste polemiche ogni volta, e l'aveva già fatto a Cannes con Battaglia Nel Cielo - in conferenza stampa ha ammesso «so di chiedere uno sforzo eccessivo allo spettatore». Eppure l'hanno premiato, perché in quest'aria post-The Tree Of Life si sente molto l'eredità della pellicola di Malick che pure lavorava nello stesso senso, ma a sfondo religioso (e con della musica, che qua non c'è).
Lo sforzo dello spettatore, caro Carlos, deriva soprattutto dalla lunghezza: taglia la metà delle scene infinite e vedrai che non ci divincoleremo in sala come api. Un suggerimento per cosa rimuovere: il tizio che si stacca la testa con le mani e poi s'accascia e, per esempio, il ritorno del diavolo in casa.
La scena finale ci convince che qualcosa si nasconde, dietro questa porta, qualcosa di bellissimo, diretta benissimo, ma noi non abbiamo la chiave.

Cannes65: Moonrise Kingdom.





Moonrise Kingdom
id., 2012, USA, 94 minuti
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura originale: Wes Anderson & Roman Coppola
Cast: Jared Gilman, Kara Hayward, Edward Norton, Bruce Willis,
Bill Murray, Frances McDormand, Jason Schwartzman, Tilda Swinton
Voto: 8.2/ 10
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La grande attesa che tanto ha mangiato da dentro i cinefili indie viene ricompensata già dalla prima, incredibile scena: orchestra che suona all'impazzata, telecamera che si muove per carrellate continue, che nel corridoio si sposta verso destra, verso sinistra, verso l'alto, gira in tondo; ci mostra una casa, dall'interno, e i suoi abitanti: una ragazzina perennemente al binocolo e i suoi tre fratelli perennemente senza far niente, i genitori che leggono il giornale e camminano scalzi per le stanze e l'arredo anni '70 di un'America confinata nel bosco. Fuori piove, piove da giorni da quello che capiamo, e i titoli di testa scorrono kitch e colorati dicendoci uno per uno gli attori e il personaggio che interpretano. Poi ci spostiamo in un campeggio scout: Edward Norton e la sua organizzatissima truppa danno il via ad un altra mattina come tante, collaudano la latrina, preparano la colazione, il giornale sul tavolo, la casa sull'albero (un pelo alta). Ma seduti per il primo pasto si accorgono che ne manca uno, un Sam sfigato e poco popolare (infatti impiegano un po' per capire che l'assente è lui). Questo Sam, scappato da un buco della tenda, è nei prati che raggiunge la beneamata Suzy conosciuta un anno prima durante una colossale recita scolastica con cui, attraverso lettere perpetue, ha organizzato la fuga d'amore e la vita in spiaggia. Hanno portato tutto il necessario: libri, mangianastri, e poi Sam è uno scout, non ha bisogno di niente per campare (infatti costruisce carrucole, accende fuochi...).
Il loro sogno coniugale però viene intralciato da tutto un manipolo di adulti: Frances McDormand e Bill Murray, i genitori di lei, preoccupati per la scomparsa della ragazza; lui genitori non ce ne ha ma ha alle calcagna il poliziotto Bruce Willis; il povero capo-scout Edward Norton s'è perso un componete (prima di perderli tutti) e rischia il ritiro della medaglia, Tilda Swinton, che genialmente si chiama Servizi Sociali, rincorre l'orfano per sbatterlo in orfanotrofio. I ragazzini, per forza di cose, verranno pescati, e poi scapperanno di nuovo.
Nella seconda parte il film cala ed esplode: dopo un rigore simmetrico e di forma, il più severo finora che Wes Anderson s'è dato, con le impeccabili scene e i colori e la fotografia e i costumi nel contorno, la storia si accascia e rotola verso una conclusione che ha il sapore della catastrofe: una tempesta, un fulmine, un'inondazione, un'esplosione. Personaggi e oggetti continuano a muoversi come in un grande villaggio Lego sempre dritti, sempre di fronte o di profilo, ma l'aspetto naïf entra in contrasto con tutta una serie di usi del digitale di cui si poteva fare a meno. La storia, poi, che ha fatto ridere gran parte del pubblico in sala, ci viene raccontata da una sorta di buffo elfo (Bob Balaban) che pure lui fa sorridere spesso ma pure lui non è proprio necessario.
Uno dei migliori film di Anderson dai Tenenbaum per trama e tecnica, che ne esce un pelo imperfetto ma lodevolissimo per lo sforzo e la resa impeccabile del periodo storico (gli ambienti, naturali e non, curatissimi fino al dettaglio, si fondono tra di loro e con la trama in modo superbo) e del romanzo fiabesco di formazione. Dolcissima la scena finale, bravissimi i due attori protagonisti, esordienti entrambi, Jared Gilman e Kara Hayward, assurda l'assenza di premio alla regia, e quando vedrete il film e il film sarà finito non uscite dalla sala: una sorta di Bolero aspetta di essere raccontato.

domenica 17 giugno 2012

Cannes65: Woody Allen, A Documentary.





Woody Allen: A Documentary
id., 2012, USA, 113 minuti
Regia: Robert B. Weide
Sceneggiatura: Robert B. Weide
Cast: Woody Allen, Letty Aronson, Marshall Brickman, Dick Cavet,
Larry David, Josh Brolin, Penélope Cruz, John Cusack, Naomi Watts,
Scarlett Johansson, Diane Keaton, Julie Kavner, Sean Penn
Voto: 6.2/ 10
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Il film parte e l'atmosfera è quella: la musica francesizzante, il carattere delle scritte solito (quello con cui, qui a lato, è scritto “Woody Allen”), le immagini di Manhattan. Siamo dentro a un film del più celebre comico d'America e forse del mondo, del più prolifero, del più longevo.
Il film parte e lui comincia a parlare, ci racconta degli esordi, della scuola (che andava male) e delle battute che spediva a qualche giornale, dei primi spettacoli a teatro e del loro insuccesso, poi del loro successo, della sceneggiatura per il primo film - che fu una catastrofe, del controllo totale che aveva sul secondo, anche da regista. Prosegue, lui insieme ai suoi storici compagni d'avventura, Larry David e Dick Cavett e poi sua sorella Letty Aronson, passando in rassegna tutti i primi film, le risate generali, le copertine a lui dedicate, le candidature agli Oscar, i premi vinti, il passaggio al dramma con Interiors e la maturità sentimentale di Manhattan e Annie Hall, e poi gli insuccessi, gli altri successi, la necessità di sfornare un film all'anno. Ecco, questo è forse il pregio più grande di questo documentario: fa dire ai cineasti e al regista stesso in questione ciò che noi tutti ci diciamo tra di noi: insieme a dei grandi bei film, Woody Allen ha fatto un sacco di scemenze, qualche scivolone, la gente gli dice «perché non ti prendi un anno e il prossimo film lo fai uscire tra due?» e lui risponde «se faccio tantissimi film, prima o poi ne verrà uno buono». Un documentario, questo, che passa in rassegna ciò che è successo, che la mia generazione non sa (tipo lo scandalo per la relazione con la figlia adottiva) e ci aggiunge poche altre cose: la macchina da scrivere che è la stessa da quarant'anni, la sala di montaggio.
Si ride, spesso, molto, ma non perché il documentario faccia ridere, solo perché fanno ridere le immagini di repertorio, le scene dei film, gli spezzoni in televisione. Il documentario si sforza davvero poco. Due sole immagini prese dal set, poche interviste agli attori che dicono ciò che ci si può aspettare da un attore che parla del regista che lo dirige (fa eccezione il perfezionista Josh Brolin), tanti complimenti e qualche ammissione di colpa per gli errori del passato. Ma gli errori più grandi, Woody Allen, li ha fatti adesso (viene mostrato e nominato Incontrerai L'uomo Dei Tuoi Sogni senza sottolinearne la schifezza), e invece si guarda al presente solo per il grande successo di Midnight In Paris e per il cambio di registro del bellissimo Match Point.
Presentato al primo giorno di Festival di Cannes 2012, che senza Allen non riesce proprio a stare, l'insipido documentario è diretto da Robert B. Weide, che con Larry David ci ha lavorato per Curb Your Enthusiasm ed è stato regista di quella serie e di Parks And Recreation.
Decisamente molto più interessante la travagliata vita di Roman Polanski, pure quella passata per Cannes e adesso al cinema.

Cannes65: The We And The I.





The We And The I
id., 2012, USA, 90 minuti circa
Regia: Michel Gondry
Sceneggiatura originale: Michel Gondry, Jeffrey Grimshaw, Paul Proch
Cast: Michael Brodie, Teresa Lynn, Raymond Delgado,
Jonathan Ortiz, Jonathan Scott Worrell, Alex Barrios,
Laidychen Carrasco, Meghan Murphy, Chenkon Carrasco
Voto: 9/ 10
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Ultimo giorno di scuola per un istituto del Bronx fatto di minoranze razziali ben integrate tra di loro; nelle classi hanno consegnato l'annuario, l'aria dell'estate si respira col naso, la campanella suona, l'autobus per i forestieri passa e i soliti pendolari ci corrono sopra. La grande autista donna li saluta perché li conosce tutti, e li conosce bene. Maschi e femmine prendono posto. Come quando andavamo in gita pure noi alle medie e al liceo, i “fighi” del gruppo si fiondano dietro, sugli ultimi quattro posti allineati sotto al vetro, pronti a catalizzare potere e attenzioni. Infastidiscono i pochi adulti presenti, i molti studentelli ingenui, mischiano una parlata volgare e dialettica a video ed SMS che circolano sul cellulare. Un filmato in particolare, che tutti si passano ridendo, lo vedremo fino alla nausea, un ragazzo che scivola sul burro e cade per lungo rompendosi l'osso sacro. Una Laidy stressata dai genitori si gratta le braccia stilando la lista degli invitati al suo “sweet 16”, un cantautore dietro di lei inforca la chitarra e le dedica una serenata, una coppia gay vedrà la gioia e la tristezza in poco più di un'ora, un reggiseno ad acqua salterà da un sedile e l'altro. E basta. Il film è tutto qua, tutto qua dentro, completamente privo di trama e tutto nell'autobus. E non si fa claustrofobico come Sleuth o il più recente Carnage, opere visibilmente reduci dal teatro, perché quest'autobus (ora inquadrato dall'esterno, ora non inquadrato) interagisce col mondo che c'è fuori, con le strade della periferia povera americana, con un incidente in un incrocio e un ingorgo, con i giorni passati e le storie che si raccontano e gli insegnanti che si nominano, tutti visti in flashback ripresi da un cellulare.
Dopo opere visivamente allucinanti e allucinate (già l'aveva fatto con Eternal Sunshine Of The Spotless Mind ma l'apice l'ha toccato ne L'arte Del Sogno) Michel Gondry ammazza il suo tipico cinema perché affascinato dal Point, una comunità nel Bronx in cui ha cominciato a bazzicare e da cui ha attinto grande ispirazione per la sceneggiatura - insieme a una lettera che una delle madri gli ha indirizzato in cui si scusava di non poter mettere a disposizione casa sua per le riprese, che ci verrà letta alla fine. Riesce, in maniera totalmente incomprensibile, a sfornare un The Breakfast Club del 2012, dei giorni nostri, con feste alcoliche, segreti lesbo, Blackberry e slang scritti. Noi siamo su quell'autobus con loro, al centro, e vediamo contemporaneamente le cose che ci succedono intorno, che si accavallano, il tutto diviso in tre parti, che cominciano col “Bullismo” e terminano con “L'io”, l'introspezione di quando si è pochi, ormai quasi al capolinea, e ci si apre con i compagni a cui non si ha rivolto la parola per l'anno intero.
In realtà, la mano di Gondry, anche se ben nascosta, si vede: a cominciare dai tremendi e pacchiani titoli di coda, e poi puntellata in tutti i flashback e i viaggi mentali che i ragazzini parlando fanno: insegnanti di disegno bruciati da fiamme di carta, finestrini dell'autobus che mostrano cosa succede in un altro isolato. Le interpretazioni degli sconosciuti giovani attori sono impeccabili (su tutte, quella di uno dei due gay), a starci a contatto ci si rende conto della crudeltà dell'adolescenza, della cattiveria delle loro bocche, cattiveria ingenua che si dimentica dopo qualche ora, perché è un microcosmo strano quello dei giovani, che ci fanno ridere e ci fanno piangere e non si accorgono che questo autobus, per portarli a casa, sta impiegando troppo: è quasi notte.

sabato 16 giugno 2012

comprammo uno zoo.





La Mia Vita È Uno Zoo
We Bought A Zoo, 2011, USA, 124 minuti
Regia: Cameron Crowe
Sceneggiatura originale: Aline Brosh McKenna & Cameron Crowe
Basata sul romanzo We Bought A Zoo di Benjamin Mee
Cast: Matt Damon, Scarlett Johansson, Thomas Haden Church,
Colin Ford, Maggie Elizabeth Jones, Angus Macfadyen, Elle Fanning
Voto: 5.7/ 10
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Perché spendere soldi per andare al cinema a vedere un film già destinato a passare su Canale 5 al sabato pomeriggio, quando Amici della De Filippi e Verissimo chiudono i battenti? Era successo con The Blind Side (che nei nostri cinema non arrivò mai), succede adesso con La Mia Vita È Uno Zoo, titolo meno azzeccato del più esplicativo We Bought A Zoo.
La blanda trama vede Matt Damon, che invecchia benissimo, padre di un adolescente nell'età della ribellione e una bambina nell'età della tenerezza e delle risposte geniali, padre e vedovo, ché dopo un'ardua malattia la moglie è morta lasciandogli un vuoto nel cuore e nella casa. Le madri vicine e a scuola gli donano teglie su teglie di lasagna e lui fatica a portare avanti la baracca, che mantiene col suo mestiere di scrittore d'avventure dopo che le ha vissute. Crede di aver visto tutto e di aver fatto ogni cosa, ma gli manca questa: trasferirsi (con una facilità mai vista prima) in una villa tanto gigante quanto lontana (14 km solo andata dal più vicino supermercato) in modo da non esser circondato dai negozi e dagli oggetti che gli ricordano la moglie (di cui si parla fino all'asfissia). Questa villa, pensa tu, è la casa di uno zoo mal-costruito che a vederlo da fuori sembra solo una campagna fatiscente. E invece si nascondono decine e decine di specie, alcune in via d'estinzione, e con un'altra facilità mai vista prima il nostro Matt si rimbocca le maniche e in modo imbarazzante (soprattutto per il figlio) sfama le creature esotiche e provvede a pagare tutte le spese. Una magrissima e poco credibile Scarlett Johansson, in tutto questo, lo accompagnerà per le vie del safari e delle confidenze, lamentandosi quasi mai di non uscire come le sue coetanee per dar le medicine alle scimmie. È tutto, insomma, molto poco credibile, e la stupidità infantile ma forse cromosomicamente problematica di Elle Fanning (che si urlava bravissima dopo Somewhere ma che invece nessuno sta vedendo più) ci lascia non poco perplessi.
Non a caso sulla locandina compare scritto “dal regista di Jerry Maguire”, film del '96 che diede quasi i natali  Renée Zellweger (e un Oscar a Cuba Gooding Jr.), perché dopo quello, originale e ben scritto, il nostro Cameron Crowe dal celebre cognome è scivolato in una porcata dopo l'altra, toccando l'apice con Elizabethtown e risollevandosi un poco con Quasi Famosi. Della banale, patetica, melensa pellicola che presto vedremo sulle nostre televisioni col bollino verde per tutte le famiglie, si salva giustamente una cosa: la musica di Jónsi che conoscevamo come leader dei Sigur Rós e che piano piano si sta inginocchiando al più vasto mercato, la cui canzone originale Wuthering Stories era stata infilata nell'elenco delle probabili candidate all'Oscar ma non si candidò - ricordiamo che il film è stato mandato al cinema in fretta perché i produttori speravano di ricevere più di una nomination.
Questo venerdì al cinema sono uscite un sacco di cose, perché andare a vedere questo?

Cannes65: De Rouille Et D'os



Un Sapore Di Ruggine E Ossa
De Rouille Et D'os, 2012, Francia, 120 minuti
Regia: Jacques Audiard
Sceneggiatura non originale: Jacques Audiard & Thomas Bidegain
Basata sul romanzo Ruggine E Ossa di Craig Davison (Einaudi)
Cast: Matthias Schoenaerts, Marion Cotillard, Yannick Choirat,
Jean-Michel Correia, Mourad Frarema, Bouli Lanners
Voto: 7.5/ 10
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Prima di questo film ci sono due capolavori di cui parlare: Il Profeta, dello stesso regista, Jacques Audiard, che nel 2009 venne candidato all'Oscar senza vincerlo (c'era, contro di lui, il pazzesco Nastro Bianco che neanche vinse), romanzo di formazione di un ragazzetto che arriva in carcere appena diciottenne e impara in quattro e quattr'otto a comandare tutti gli altri; e poi Bullhead, film belga di Michael R. Roskam che pure all'Oscar s'è candidato (quest'anno) e pure non ha vinto, con un'incredibile trama di vacche e ormoni e un'incredibile interpretazione di muscoli e silenzi di Matthias Schoenaerts - che di questo film è sommo interprete, molto più di Marion Cotillard che però compare prima di lui sulla locandina e nei titoli di coda.
Qui, lui si chiama Ali e il nome è una garanzia: campa con lavoretti sporadici tra i buttafuori e le security ma il vero guadagno gli arriverà, poi, dalle lotte clandestine a mani nude contro gli sconosciuti. Lei si chiama Stéphanie, si veste «come una puttana» quando va in discoteca (da sola) e ritorna a casa dal suo uomo col sangue che cola dal naso. Durante il giorno, muove le braccia e la testa in piscina per far saltare e volteggiare le orche, attrazione dell'acquaparco. Una sera lui spegne una rissa in cui lei è coinvolta, si fa prestare del ghiaccio, le lascia il numero. Non si sentiranno per molto tempo: lui, insieme a suo figlio, si trasferirà da sua sorella, dopo aver rubato il cibo dai cassonetti dei treni; lei si sveglierà in ospedale privata di metà gambe dopo un incidente con uno dei pesci. Inizierà questa storia non d'amore ma di complicità, di presenza, di messaggi. Dopo un inizio da drammone tremendo visto e rivisto, il film prende una bella piega comica a sfondo sessuale (è venuto giù il cinema dalle risate) perché quella della coppia diventerà scopamicizia inizialmente disinteressata, nel più alto dei realismi, fatta di messaggi che chiedono l'operatività dell'altro per un amplesso in cambio. Ma le donne, si sa come sono fatte, e lei inizia ad esserne coinvolta. Poi, quando crediamo che il film sia finito, semplicemente si sposta di set, e non finisce.
Buona prova di interpretazione per entrambi (sulla Cotillard non possiamo dire niente, eravamo convinti che ritirasse la Palma come miglior attrice) ma meno buona per la regia: sin dall'inizio vediamo queste brevi scene rallentate e incomprensibili, montate insieme per renderci qualcosa che non ci viene reso, qualche sensazione che non percepiamo, e la musica non aiuta per niente: qualche nota strappalacrime e poi Katy Perry, Lykke Li, presenze che ci sorprendono quando leggiamo, alla fine, Alexander Desplat. Dopo le trame incalzanti di Sulle Mie Labbra e Tutti I Battiti Del Mio Cuore, Audiard si concede l'introspezione di due personaggi a cui l'acqua ha tolto qualcosa, senza riuscirci - lei commenta la sua vita precedente ma non è credibile. Ad onor del vero, la scena dell'incidente è magistrale, pazzesca. Ma per il resto è tutto un inseguire le ombre e i dettagli degli attori, le lacrime, le mani.
Ma la pecca più grande è un'altra; non so se fosse già nel romanzo su cui si basa, Ruggine E Ossa, al secolo “un gusto di ruggine e di ossa” di Craig Davidson (qui il dettaglio), ma la metamorfosi di Marion in cattiva ragazza pappona delle mazzate illegali no, proprio no.

giovedì 14 giugno 2012

il film turco.





C'era Una Volta In Anatolia
Bir Zamanlar Anadolu'da, 2011, Turchia, 157 minuti
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Sceneggiatura originale: Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan, Ercan Kesal
Cast: Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel,
Safar Karali, Ahmet Mümtaz Taylan, Firat Tanis, Ercan Kesal
Voto: 8/ 10
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Per l'edizione degli Oscar 2012 la Turchia voleva andare sul sicuro e allora aveva scelto, come invitato nazionale, il nuovo (il sesto) film di Nuri Bilge Ceylan, già inviato tre volte oltre il mare e tra i nove candidati di gennaio nel 2008 con Le Tre Scimmie. Il film in questione, C'era Una Volta In Anatolia, aveva già vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes 64 ed era stato l'unico acerrimo concorrente di Una Separazione agli Asia Pacific Screen Awards (vincendo per la regia e la fotografia). Recensioni altissime, elogi da tutte le parti, una carriera invidiabilissima per l'autore (per cinque volte, a Cannes, ha sempre vinto qualcosa, e una su due a Berlino), niente, non ce la fa, non si candida.
E dopo un anno esatto dalla presentazione in Francia, questa settimana arriva da noi, distribuito da una piccolissima e nuova casa nostrana, la Parthenos, e i giornali e i siti di cinema si crogiolano nel parlarne. Paolo Mereghetti sul Corriere gli dà tre stelle e mezzo su quattro, Nicola Falcinella su MyMovies quattro e mezzo su cinque. Io un po' di meno, perché - cosa che hanno notato in molti - il film è di una lunghezza asfissiante che richiede uno sforzo sovrumano ad un certo punto (dopo due ore abbiamo ancora molte porte aperte e molte inquadrature apparentemente inutili), e poi - cosa che ammettono in pochi - le porte aperte non vengono chiuse, e si resta immobili a chiedersi se forse qualche dettaglio sia sfuggito all'occhio in queste due ore e tre quarti, mentre il regista onniscente continua a inquadrare in modo ambiguo soprattutto uno dei personaggi principali come se ci volesse fare un dispetto perché qualcosa noi ancora non sappiamo.
I personaggi che ci interessano sono tre: un procuratore, un commissario, un dottore. Questi, insieme a due poveracci con la pala, al poliziotto scrivano, ad un autista e soprattutto ad un assassino reo confesso, vagano per le strade deserte e desertiche dell'Anatolia alla ricerca di una fontana vicina ad un albero a forma di pallone perché da qualche parte, forse sottoterra, c'è qualcosa che a loro interessa. Questa cosa noi ancora non sappiamo cosa sia, e non la sapremo per un po': la notte avanza, la fame pure, decidono di fermarsi a mangiare nel paese vicino, paesino fatto di panni stesi e porte in lamiera e un sindaco che sa come intrattenere gli ospiti a bocca piena (cioè parlando). La mattina arriva, i discorsi si spengono, con la luce il paesaggio è meglio visibile e all'assassino torna la memoria e il luogo del delitto viene scovato. E mica il film è finito: ci sono carte da scrivere, cause da ricercare, cadaveri da analizzare, assassini da riportare in città.
L'esile e scorrevole trama, che seguiamo dalla sera alla mattina senza fermarci mai, sta in piedi su tutta una serie di dialoghi, di discorsi, di confessioni, di spiegazioni, di interruzioni e poi riprese che mai al cinema sono stati spontanei come questa volta, mai hanno così messo a nudo i personaggi, veritieri, reali. La sceneggiatura (originale, scritta dal regista con sua moglie e l'attore Ercan Kesal che interpreta il sindaco) è sicuramente il rubino del film: da una continua richiesta di medicine a battute sulle emorroidi, sulla somiglianza con Clark Gable, si sorride spesso e si ride molto per spezzare la staticità e la lunghezza di molte sequenze. Ma alla fine, nell'ultima scena, dopo che un segreto ci è stato rivelato e di un altro non ci importa più niente, ancora siamo là in attesa di sapere questa terza e ultima cosa, cosa che poi non ci viene detta, e uscendo dal cinema sbuffiamo.

mercoledì 13 giugno 2012

Cannes65: Amour.



Amour
id., Francia/ Austria, 2012, 125 minuti
Regia: Michael Haneke
Sceneggiatura originale: Michael Haneke
Cast: Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
Voto: 9.7/ 10

Cannes65: Palma d'Oro al miglior film
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Dopo una serie di titoli di testa parenti di quelli di Woody Allen, ma completamente muti, una squadra di non si capisce bene cosa (polizia?, pompieri?) irrompe in una casa sigillata da nastro adesivo marrone e tra una stanza vuota e l'altra, piena del solo tanfo di decomposizione, trova una vecchina morta, adagiata su un letto e circondata di fiori freschi. Un attimo dopo, quella vecchina, immersa in una platea elegante di gente benvestita che assiste ad un concerto per solo piano, farà notare al marito quanto la spaventerebbe se qualcuno entrasse in casa sua mentre lei dorme, mentre loro sono a letto. Loro, si chiamano Anne e Georges, hanno più o meno settant'anni, sono sposati da tutta una vita, hanno una figlia, interpretata da Isabelle Huppert, che è sposata con un inglese, il pianista di prima, Alexander Tharaud, che interpreta se stesso e musica mezzo film.
La vita dell'anziana coppia scorre così, in una grande casa di legno e libri, di cui vediamo poche stanze, per abitudini e qualche tenero complimento, fino alla mattina della colazione turbolenta: Anne serve l'uovo alla coque al marito seduto a tavola e poi si disperde guardando il vuoto, ferma, immobile, muta. Lui le chiede «cos'hai?, cosa non va?» e lei non risponde. Lui apre l'acqua, le bagna una pezza e gliela tampona sulla fronte, e lei non si scompone. Le parla, le urla contro, ma niente. Va a mettersi la giacca per scendere a chiamare aiuto e sente, dall'altra stanza, che il rubinetto è stato chiuso. Torna in cucina e la moglie è là, normalissima, che lo rimprovera: «perché hai lasciato l'acqua che scorreva?».
È l'inizio della fine: dopo un primo ictus, la povera Anne entrerà nel tunnel della malattia che la renderà impotente, immobile, dipendente, incosciente, bisognosa di continue cure e attenzioni. In questo difficilissimo periodo, il marito le sarà vicino sempre, continuamente, indistintamente, senza mai cedere allo sconforto né al pianto, senza mai rassegnarsi, combattendo con la figlia che la vorrebbe far chiudere in un centro specializzato perché «io in casa le posso dare le stesse cose che le darebbero lì». La fa esercitare nella camminata, quando ormai è bloccata sulla sedia a rotelle, e le fa cantare “Sur Le Pont D'Avignon” quando la paralisi le blocca mezza bocca. L'“amour” del titolo è la devozione totale di lui per lei.
Con perfida maestria, Michael Haneke ci fa vedere svariati momenti di vita di questa attempata ma solidissima coppia attraverso scene e inquadrature lunghissime, estenuanti, che come il film intero ci aumentano il fastidio; noi siamo là, spettatori costretti alla claustrofobia (ma non come per Funny Games), e ci chiediamo quanto debba durare ancora, quanto ancora dobbiamo soffrire, noi, con lei? La demenza prosegue, aumenta, ma la donna e il marito non perdono mai la propria dignità: lui non permette mai che lei perda la dignità, anche quando sputa l'acqua, anche mentre si sbrodola con l'omogeneizzato. Al rigore tecnico dei silenzi, della fotografia, della regia e delle scene, dei quadri e delle stanze inquadrate, della musica che compare solo quattro volte, si aggiungono due interpretazioni che non rivedremo mai più nella vita: quella di Emmanuelle Riva, già in Hiroshima Mon Amour, incredibile quando la malattia ormai è all'ultimo stadio, credibilissima, vera, immensa; e soprattutto quella di Jean-Louis Trintignant, che diciassette anni fa si è ritirato dalle scene ma che per questo film, già capolavoro su carta, ha fatto uno strappo alla regola, fidandosi di Haneke che gli affida praticamente tutte le scene.
Una meritata e applauditissima Palma d'Oro per un film che è bellissimo già così com'è, a quasi due ore dall'inizio e che poi, nella scena pre-finale, si fa capolavoro.

domenica 10 giugno 2012

W.Evita.





W.E.
id., 2011, UK, 119 minuti
Regia: Madonna
Sceneggiatura originale: Madonna & Alek Keshishian
Cast: Abbie Cornish, Andrea Riseborough, James D'Arcy,
Oscar Isaac, Richard Coyle, David Harbour
Voto: 5.9/ 10
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Avevamo lasciato Abbie Cornish in un campo di lavanda a covare l'amore poetico per John Keats in un sufficiente film (Bright Star) dalle eccelse scene, e ce la ritroviamo qui smagrita e vestita di nero che fissa silenziosamente gioielli non nel remake di Colazione Da Tiffany ma in quello di una fiabona anni '30 con contaminazioni del presente: suo marito, presumiamo medico, non torna quasi mai a casa la sera e non vuole fare sesso perché lei è ossessionata dal rimanere incinta. Privata anche del lavoro abbandonato per amor dell'uomo, Wally l'annoiata non ha proprio niente da fare, e allora cammina piano per il lungo corridoio di legno di casa sua, unica stanza che c'è dato vedere, mentre la radio e la televisione raccontano i primi anni d'amore tra Wallis Simpson ed Edoardo VIII. Una sua amica, guarda un po', lavora da Sotheby's non sappiamo in che ufficio e la invita all'esposizione di cimeli e suppellettili della regale travagliata coppia, e Wally ci va, tutti i giorni, tanto che fa amicizia con l'uomo della sicurezza sbarcato dalla Russia il cui nome, guarda un po', inizia con la E.
Ossessionata pure dalla storia della cianotica e magrissima signora Simpson, già due volte divorziata prima di imbattersi in sua altezza “David”, Wally tocca gli oggetti esposti e toglie i vestiti dalle grucce, cosa assolutamente fattibile ad una mostra in galleria, certo, e ogni tanto chiude gli occhi e immagina ciò che succedeva nel Forte Belvedere sessant'anni prima. Egregia nell'accento anglo-americano e nelle movenze, Andrea Riseborough (già nei panni di Margaret Tatcher in un film per la TV 2008) interpreta immensamente l'interessata e interessante Wallis del primo dopoguerra, l'unica donna che si pone con curiosità davanti al sovrano e lo tratta senza i guanti (che però sempre indossa). Sposata in realtà a un altro uomo, non capiamo bene, nella seconda parte, cosa le succeda, quando Edoardo annuncia al microfono (ciao, Il Discorso Del Re) che rinuncerà al trono per stare accanto alla donna che ama. E dopo questo momentone tutto musica e montaggio frettoloso, ecco che ne segue un altro, e poi un altro ancora, per un finale melenso con ennesimo incontro delle due donne che conclude una fiaba che per tutto il tempo si nomina ma non vorrebbe essere tale.
Squadra vincente non si cambia, Madonna chiede ad Alek Keshishian che la diresse nel '91 nel documentario A Letto Con Madonna (che a lei valse la sesta di sedici nominations ai Razzie) di collaborare alla sceneggiatura; furbone, lui si auto-cita in un brindisi durante il film nominando la sua unica pellicola da regista, Amore E Altri Disastri, con la compianta Brittany Murphy; furbona, lei si auto-cita in un rotolamento in spiaggia tra i due amanti clandestini ricordando il disastro combinato in Travolti Dal Destino. Il tutto è condito da scene ben fotografate che poi si sbriciolano in una quantità industriale di primi piani e soprattutto dettagli, soprattutto di gambe e mani, sgranatissimi e quasi amatoriali, che ricordano il precedente Sacro E Profano. Ma se là si faceva dell'originalità tra personaggi e attori, qua ci si siede su un trono di qualcun altro per confezionare un film che può piacere al pubblico e che a Madonna piace per prima, credendosi femminista ed emancipata, che in fondo però racconta la necessità femminile di avere a tutti i costi un uomo e l'incapacità di allontanarsi da lui, anche se tira calci nel ventre.
Nel calderone del già visto e dell'improbabile (su tutte, la scena della danza senile) brillano due cose, oltre alla Riseborough: la musica di Abel Korzeniowski (che esordì con Metropolis), giustamente candidata al Golden Globe, e i costumi di Arianne Phillips (che vestì Madonna in tre tour) giustamente candidati all'Oscar. Ma nessuno dei due ha vinto niente: solo Madonna, per una canzone stupida e inascoltabile, si porta a casa il secondo Golden Globe dopo quello per Evita che, capiamo adesso, l'ha tanto segnata.

mercoledì 6 giugno 2012

let's party.




Project X - Una Festa Che Spacca
Project X, 2012, USA, 88 minuti
Regia: Nima Nourizadeh
Sceneggiatura originale: Matt Drake & Michael Bacall
Soggetto: Michael Bacall
Cast: Thomas Mann, Oliver Cooper, Jonathan Daniel Brown,
Dax Flame, Kirby Bliss Blanton, Nick Nervies, Peter Mackenzie
Voto: 6.4/ 10
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Todd Phillips, l'autore dei due Una Notte Da Leoni orgogliosamente sbattuto sulla locandina di quest'altra pellicola, pare che non abbia nient'altro in testa che l'immagine dell'ubriachezza; produce questa volta un film (affidato alla regia di un esordiente, Nima Nourizadeh, e scritto dall'attore e sceneggiatore Michael Bacall che abbiamo visto in Bastardi Senza Gloria e Scott Pilgrim) che non racconta di un trio di adulti il giorno dopo la grande sbronza ma di un trio di ragazzetti il giorno sesso. La storia è tanto ritrita che si potrebbe non raccontarla: è il diciassettesimo compleanno di Thomas, sfigato liceale ignorato dai piani alti della scuola (le ragazze, i giocatori di football), e guarda un po' i genitori partono per il weekend e gli lasciano la casa vuota, e gli dicono «quattro, cinque persone massimo» da invitare alla sua festa, «e non si entra nello studio né si usa la piscina». Il suo amico Costa ovviamente lo spingerà sulla strada della disobbedienza, e lo convincerà ad invitare venti, trenta, facciamo cinquanta persone, sarà una festa da sballo, ci cambierà l'immagine a scuola, diventeremo cool. Comprano qualche bottiglia, mandano un paio di messaggi, danno il permesso alla gente figa di “portare qualche amico” e in questa casa con piscina e giardino sul retro arriveranno quasi cinquecento persone e per miracolo divino comparirà un'alzata con consolle e DJ, scorreranno ettolitri di alcool, luci ora blu ora viola illumineranno i danzanti. Tutte cose molto poco credibili per una festa programmata per dieci, e più si va avanti più si fa fatica ad accettare: due ragazzetti in maglia gialla fanno i buttafuori e aggrediscono chi vuole entrare in casa (tra cui i vicini insonni), gli invitati si lanceranno dal tetto, le ragazze finiranno tutte con i seni al vento.
A questa mera confezione che ci ricorda un programma a scelta di MTV (non a caso questo film era candidato a tre MTV Movie Awards, due dei quali per il co-protagonista Oliver Cooper, al suo esordio sul grande schermo) si aggiunge ciò che cercava già di fare Chronicle: ciò che noi vediamo è tutto ripreso da telecamerine interne alla storia, filmata tutto il tempo da un “goth-friend” di nome Dex che non beve alcool e non ha genitori. Quando non vediamo ciò che vede lui, ci pensano altri cellulari o le televisioni o le telecamere della polizia - perché la festa, che si trasforma in una specie di rave con lanciafiamme ed elicottero spegni-incendio e gente a cavallo, sarà il tema di numerosi programmi televisivi nei giorni successivi. Il finto documentario si apre con i ringraziamenti della produzione a chi ha partecipato al girato e si chiude con l'elenco di ciò che succederà poi ai protagonisti, a volerci far credere che tutto ciò che vediamo è vero, fino alla macchina di famiglia tirata su dalla piscina e mezza casa completamente bruciata.
Un film su questa generazione che ha un pregio: parlare esattamente come parlano i ragazzi di oggi, sessuomani, sessodipendenti, sessoaspiranti, fissati con gli insulti a sfondo sessuale, omosessuale, con impreviste erezioni negli spogliatoi e la saliva che cade davanti a un paio qualsiasi di tette. Le ragazze vengono trattate come beceri oggetti sessuali, sfoghi mascolini, e gli adulti sono i “cattivi” che minacciano di chiamare la polizia (e mantengono la loro serietà) e poi alzano il medio (perdendo la loro serietà). Un altro pregio è la musica, anch'essa figlia di questa generazione (de gustibus) ben montata e ben mixata.
Di certo, se avete in programma di fare una festa questo venerdì, avrete dei timori a riempirvi la casa.

martedì 5 giugno 2012

Nastri d'Argento 2012 - nominations.





I Nastri d'Argento 2012 arrivano puntuali come ogni giugno (nella prima settimana vengono date le candidature e nell'ultima c'è la cerimonia di premiazione; quest'anno si svolgeranno il 30 giugno nel Teatro Antico di Taormina e saranno trasmessi in differita il 14 luglio su Rai Uno, non chiedetemi perché) e fanno della giustizia: Sette Opere Di Misericordia dei fratelli De Serio è tra i cinque candidati al miglior esordio (potete leggere qui la recensione del film e l'intervista al regista Massimiliano) (ma il cult Scialla! e l'elegante Io Sono Li non ci danno molte speranze di vittoria) e compare in altre due categorie tra cui il miglior attore, un immenso Roberto Herlitzka; il cast di Cesare Deve Morire verrà insignito di un meritato premio speciale e presenzierà in Villa Medici insieme ai registi Paolo e Vittorio Taviani che vincono il Nastro dell'anno 2012, sommo premio che li eleva sugli altri film e non dà loro nessuna candidatura; Anna Proclamer, tra i protagonisti di Magnifica Presenza, riceve anche lei un riconoscimento speciale e una menzione va al cartone animato Tormenti - Film Disegnato di Filiberto Scarpelli, con le migliori voci del nostro cinema, che non ha mai visto la distribuzione. Premio alla carriera per Gianni Amelio, tornato in sala con l'impeccabile Il Primo Uomo il mese scorso, che riceverà il suo primo trofeo come cineasta durante la prossima Mostra del Cinema di Venezia.
Ma sono altri i film che si contenderanno i premi di quest'anno; annunciate ieri in una composta cerimonia in onore delle vittime e delle stragi del terremoto in Emilia, le candidature si dipanano tra Romanzo Di Una Strage e Magnifica Presenza (9 nominations), Diaz (7), This Must Be The Place e Terraferma (5). Insieme a qualche intruso: dall'italo-americano Un Giorno Questo Dolore Ti Sarà Utile, il più brutto film dell'anno, prodotto dalla costumista Milena Canonero e candidato anche alla canzone originale, all'italo-francese Ciliegine della Morante, candidato nella cinquina delle migliori commedie, categoria nuova di qualche anno. E poi la Di Eusanio del piccolissimo Good As You, Vinicio Marchioni, la Mastronardi e Scamarcio (più bravo di lei) per To Rome With Love, perché i Nastri premiano gli italiani anche se in film stranieri.
Tra gli stranieri, grazie a Dio, non troviamo Quasi Amici reduce dal David ma sempre le stesse cose, con l'aggiunta di Shame, che l'Italia puritana ha snobbato, e Midnight In Paris spostato tra gli extraeuropei. Il nostro tifo, si sa, va a Una Separazione.
Qui sotto i candidati nelle più importanti categorie; in questa pagina di MyMovies tutti i nominati.

Regista del Miglior Film:
Emanuele Crialese per Terraferma
Marco Tullio Giordana per Romanzo Di Una Strage
Ferzan Özpetek per Magnifica Presenza
Paolo Sorrentino per This Must Be The Place
Daniele Vicari per Diaz

Miglior Regista Esordiente:
Francesco Bruni per Scialla!
Gianluca e Massimiliano De Serio per Sette Opere Di Misericordia
Guido Lombardi per La-Bàs. Educazione Criminale
Andrea Segre per Io Sono Li
Stefano Sollima per A.C.A.B.

Miglior Produttore:
Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz e Rai Cinema per Romanzo Di Una Strage
Elda Ferri, Milena Canonero per Un Giorno Questo Dolore Ti Sarà Utile
Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti e Medusa per This Must Be The Place
Dario Formisano, Gaetano Di Vaio, Gianluca Curti per La-Bàs. Educazione Criminale
Domenico Procacci per Diaz

Miglior Commedia:
Ciliegine, regia di Laura Morante
Immaturi, Il Viaggio, regia di Paolo Genovese
I Più Grandi Di Tutti, regia di Carlo Virzì
La Kryptonite Nella Borsa, regia di Ivan Cotroneo
Posti In Piedi In Paradiso, regia di Carlo Verdone

Autore del Miglior Soggetto:
Giuliano Montaldo, Vera Pescarolo per L'industriale
Ferzan Özpetek, Federica Pontremoli per Magnifica Presenza
Renzo Lulli per I Primi Della Lista
Andrea Segre per Io Sono Li
Raffaele Verzillo, Pierfrancesco Corona per 100 Metri Dal Paradiso

Miglior Sceneggiatura:
Carlo Verdone, Pasquale Plastino, Maruska Albertazzi per Posti In Piedi In Paradiso
Daniele Vicari, Laura Paolucci per Diaz
Marco Tullio Giordana, Stefano Rulli, Sandro Petraglia per Romanzo Di Una Strage
Paolo Sorrentino, Umberto Contarello per This Must Be The Place
Francesco Bruni per Scialla!

Miglior Attore Protagonista:
Fabrizio Bentivoglio in Scialla!
Pierfrancesco Favino in A.C.A.B. e Romanzo Di Una Strage
Elio Germano in Magnifica Presenza
Roberto Herlitzka in Sette Opere Di Misericordia
Vinicio Marchioni in Cavalli e Sulla Strada Di Casa

Miglior Attrice Protagonista:
Carolina Crescentini in L'industriale
Donatella Finocchiaro in Terraferma
Claudia Gerini in Il Mio Domani e Com'è Bello Far L'amore
Valeria Golino in La Kryptonite Nella Borsa
Micaela Ramazzotti in Posti In Piedi In Paradiso e Il Cuore Grande Delle Ragazze

Miglior Attore Non Protagonista:
Giuseppe Fiorello in Terraferma e Magnifica Presenza
Marco Giallini in Posti In Piedi In Paradiso e A.C.A.B.
Fabrizio Gifuni in Romanzo Di Una Strage
Michele Riondino in Gli Sfiorati
Riccardo Scamarcio in To Rome With Love

Miglior Attrice Non Protagonista:
Barbara Bobulova in Scialla!
Michela Cescon in Romanzo Di Una Strage
Alessandra Mastronardi in To Rome With Love
Paola Minaccioni in Magnifica Presenza
Elisa Di Eusanio in Good As You

Miglior Film Europeo:
The Artist, regia di Michel Hazanavicius (Francia/ Belgio)
Carnage, regia di Roman Polanski (Francia/ Germania/ Polonia/ Spagna)
Faust, regia di Aleksandr Sokurov (Russia)
Melancholia, regia di Lars Von Trier (Danimarca/ Svezia/ Francia/ Germania)
Shame, regia di Steve McQueen (UK)

Miglior Film Extraeuropeo:
Drive, regia di Nicholas Winding Refn (USA)
Hugo Cabret, regia di Martin Scorsese (USA)
Midnight In Paris, regia di Woody Allen (USA/ Spagna)
The Tree Of Life, regia di Terrence Malick (USA)
Una Separazione, regia di Asghar Farhadi (Iran)

primavera e autunno.





Margaret
id., 2011, USA, 150 minuti
Regia: Kenneth Lonergan
Sceneggiatura originale: Kenneth Lonergan
Cast: Anna Paquin, J. Smith-Cameron, Jeannie Berlin, Jean Reno,
Mark Ruffalo, Matt Damon, Matthew Broderick, Kieran Culkin
Voto: 7.6/ 10
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È uscito venerdì scorso in undici sale in tutta Italia (undici!) (in tutta Italia!) un film che l'America ha visto poco prima di Natale in distribuzione limitata e il Regno Unito in un solo cinema di Londra, spettacolo unico alle otto di sera. Arriva in Italia privo di locandina italiana e maldoppiato, ma povero Margaret, porta sulle spalle una storia tormentatissima: girato in realtà nel 2005, scritto e diretto da quel Kenneth Lonergan che aveva esordito col bel Conta Su Di Me e aveva collaborato, tra gli altri, con Martin Scorsese (e aveva ottenuto due nomination all'Oscar per la sceneggiatura originale), era previsto per il mercato americano due anni dopo, nel 2007. Ma la casa di distribuzione, la Fox Searchlight Pictures, si rifiutò di mandarlo al cinema perché troppo lungo (avevano più di tre ore di girato, e il regista non voleva drastici tagli). Si aggiunsero, a questo, due cause legali: la Fox cita il produttore Gary Gilbert accusandolo di non essere stato in grado di sostenere tutti i costi della pellicola e Gilbert, a sua volta, cita la Fox e Kenneth Lonergan accusandoli di non avergli permesso di terminare effettivamente il film. Pensando di essere davanti all'ennesimo prodotto fatto e mai venduto, i produttori Sidney Pollack ed Anthony Minghella tagliano i finanziamenti, il montaggio continua a subire delle modifiche mai decisive, gli anni passano e la pellicola continua a durare tre ore. È stato solo grazie al più recente aiuto dell'attore Matthew Broderick, che interpreta un professore nel film, che il montaggio si è concluso (per mano di Scorsese e approvato da Lonergan), grazie ad un assegno di più di un milione di dollari.
E il 30 settembre alcuni stati fortunati d'America l'hanno potuto vedere al cinema.
Anna Paquin (che all'epoca delle riprese aveva 23 anni e non era ancora la Sookie Stackhouse di True Blood) interpreta Lisa Cohen, una credibilissima diciassettenne figlia di genitori divorziati affidata, insieme al fratello, alla madre attrice teatrale. Intelligente quando vuole lei, inconsapevolmente sfacciata, frequenta una scuola privata in cui studia una matematica che non le piace (insegnata da Matt Damon) e una storia d'America di cui si sente partecipe, sempre accesa durante i dibattiti con i compagni: si parla, per tutto il film, di tante cose: dell'11 settembre, degli ebrei, degli israeliani, dei neri, del governo, dell'odio estero per gli americani, e poi dell'arte, della poesia, di Shakespeare, del teatro, del pubblico, del protagonismo del pubblico quando applaude troppo, dell'iniziazione sessuale, della parola “spinello”. Ci sono più di due ore e mezzo per parlare di tutte queste cose. Ma le recensioni che leggerete vi racconteranno soltanto l'episodio che scorre parallelo alla vita di Lisa Cohen: alla ricerca di un cappello da cowboy, un pomeriggio, insegue un autobus distraendo un conducente (Mark Ruffalo) che quel cappello ce l'ha in testa e provoca così, per un semaforo rosso non rispettato, un incidente: una signora attraversa la strada, viene investita, perde una gamba, dopo dieci minuti muore. E se all'inizio Lisa mente coi poliziotti e continua a vivere la sua vita di diciassettenne confusa, poi la storia della morte diventa un'ossessione che silenziosamente le si infila nella vita, recupera il numero dei parenti della vittima, cambia la deposizione, prende un avvocato, lotta perché l'autista venga licenziato.
Sua madre, a cui non si sente molto legata e che intanto esce con Jean Reno, si chiama Joan. La donna che la accompagnerà nella causa legale si chiama Emily. Nessuno, nel film, si chiama Margaret. Solo la ragazza a cui Gerald Manley Hopkins dedicò, nel 1880, la poesia “Primavera e Autunno” che viene letta in classe. Trovata intelligentissima per un film che apparentemente non trova il suo senso, che ci mostra episodi della vita di Lisa (la Paquin ha vinto per il ruolo il London Critics Circle Award) tanto inutili quanto imbarazzanti - la madre che si masturba, lei che rivela agli insegnanti di aver abortito; tutto sta in piedi su lunghissimi discorsi a due, tre, quattro persone inquadrate velocemente da dovunque, per dialoghi a volte impeccabili (lei e sua madre che litigano) a volte non riusciti (lei e il padre che parlano al telefono).
Forse affronta troppi temi, forse il doppiaggio toglie la bravura a molti attori. Forse c'è della poesia (soprattutto nella scena finale ma anche in molti esterni, accompagnata dalla musica di Nico Muhly non bravo quanto in The Reader) che non colgo. Faccio una fatica immane a dare un voto.

lunedì 4 giugno 2012

MTV Movie Awards - vincitori





Quarto “miglior bacio” di fila per Robert Pattinson e Kristen Stewart che però questa volta non ci regalano nessun momento memorabile di show dato che lui proprio non c'è e lei è altamente impedita, sforzandosi di fare la simpatica senza riuscirci, sia in questo discorso di ringraziamento che in quello finale, per il miglior film dell'anno, andato a Breaking Dawn (parliamone) diretto da Bill Condon che, per chi non lo sapesse, ha un Oscar per la sceneggiatura di Demoni E Dei, ha scritto Chicago e diretto Dreamgirls e ora si è ridotto a questo. Grazie a Dio c'è stata della giustizia con l'interpretazione femminile, quella di Jennifer Lawrence, che non era presente ma ha ringraziato tramite video, seguita dall'interpretazione maschile vinta dal suo collega Josh Hutcherson contento come se fosse Pasqua, sempre per The Hunger Games, illuso di essere migliore di Ryan Gosling in Drive.
Tre momenti simpatici: quello di Elizabeth Banks migliore trasformista (sempre per The Hunger Games) che ringrazia MTV per essere sul palco con mezzo cast di Magic Mike (film attesissimo in America, su un gruppo di spogliarellisti), nella foto qui sopra tra le braccia del licantropo Joe Manganiello, protagonista anche di True Blood (dal 10 giugno la quinta serie); il video-tributo ad Emma Stone in cui Octavia Spencer, Steve Carrell e altri suoi colleghi iniziano a parlarne bene e poi ne elencano i difetti («io amo Sharon Stone»); i calci che Charlize Theron dà a Michael Fassbender prima di premiare per la quarta e ultima volta The Hunger Games per il miglior combattimento.
Un po' imbarazzante quanto inatteso Johnny Depp alla chitarra insieme ai Black Keys che suona dopo aver ricevuto il premio alla carriera; inatteso anche il premio al miglior cast, che va a Harry Potter, ritirato da una solitaria ed elegantissima Emma Watson che ringrazia i più di duecento attori che l'hanno accompagnata negli anni. Due premi anche per Le Amiche Della Sposa, ma scontati: quello a Melissa McCarthy come miglior attrice comica e quello all'intero cast “da-torcere-le-budella”. Scontata pure la vittoria degli LMFAO per la hit “Party Rock Anthem” a discapito del mio Like Crazy.
Restano a bocca asciutta i bei film candidati per gentilezza: Drive, The Help, Uomini Che Odiano Le Donne.
Alcuni sporadici video della cerimonia sono visibili in questa pagina del sito ufficiale.

Film Dell'anno: The Twilight Saga: Breaking Dawn, Pt. 1
Le Amiche Della Sposa Harry Potter E I Doni Della Morte, Pt. 2 The Help The Hunger Games

Miglior Eroe: Harry Potter da Harry Potter E I Doni Della Morte, Pt. 2
Capitan America, Il Primo Vendicatore 21 Jump Street The Hunger Games Thor

Miglior Bacio: Kristen Stewart & Robert Pattinson in The Twilight Saga: Breaking Dawn, Pt. 1
Emma Stone & Ryan Gosling | Emma Watson & Rupert Grint | Jennifer Lawrence & Josh Hutcherson | 
Rachel McAdams & Channing Tatum

Miglior Performance Femminile: Jennifer Lawrence in The Hunger Games
Emma Stone | Emma Watson | Kristen Wiig | Rooney Mara

Miglior Performance Maschile: Josh Hutcherson in The Hunger Games
Channing Tatum | Daniel Radcliffe | Joseph Gordon-Levitt | Ryan Gosling

Miglior Performance Comedy: Melissa McCarthy in Le Amiche Della Sposa
Jonah Hill | Kristen Wiig | Oliver Cooper | Zach Galiflanakis

Miglior Musica: LMFAO per “Party Rock Anthem” - 21 Jump Street
Drive | Like Crazy | Project X Hanna

Miglior Metamorfosi Sullo Schermo: Elizabeth Banks in The Hunger Games
Colin Farrell | Johnny Depp | Michelle Williams | Rooney Mara

Miglior Performance Da-Torcere-Le-Budella: Kristen Wiig, Maya Rudolph, Rose Byrne, Melissa McCarthy, Wendi McLendon-Covey & Ellie Kemper in Le Amiche Della Sposa
Bryce Dalls Howard | Jonah Hill & Rob Riggle | Ryan Gosling | Tom Cruise

Miglior Combattimento: Jennifer Lawrence & Josh Hutcherson vs. Alexander Ludwig in The Hunger Games
21 Jump Street Harry Potter E I Doni Della Morte, Pt. 2 Mission Impossible: Protocollo Fantasma Warrior

Miglior Cast: Harry Potter E I Doni Della Morte, Pt. 2
21 Jump Street Le Amiche Della Sposa The Help The Hunger Games

Miglior Stronzo Sullo Schermo: Jennifer Aniston in Come Ammazzare Il Capo E... Vivere Felici
Bryce Dallas Howard | Colin Farrel | Jon Hamm | Oliver Cooper

Miglior Performance Emergente: Shailene Woodlei in Paradiso Amaro
Elle Fanning | Liam Hemsworth | Melissa McCarthy | Rooney Mara

MTV Trailblazer Award:
Emma Stone

MTV Generation Award:
Johnny Depp