venerdì 21 marzo 2014
l'arca coreana.
Snowpiercer
id., 2013, Corea del Sud/ USA, 127 minuti
Regia: Bong Joon Ho
Sceneggiatura non originale: Bong Joon Ho & Kelly Masterson
Basata sulla graphic novel di Jaques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette
Cast: Chris Evans, Jamie Bell, Tilda Swinton, Ed Harris,
John Hurt, Octavia Spencer, Luke Pasqualino, Song Kang-ho
Voto: 7.5/ 10
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Il riscaldamento globale porterà tutto al congelamento: terre e mari saranno ricoperte da ghiacci, le navi ribaltate non avranno modo di navigare, la vita all'aria aperta non sarà possibile perché ibernante; c'è solo un luogo dove i pochi esseri umani sopravvissuti possono continuare a condurre un'esistenza nella desolazione generale: un treno. Riscaldato e perennemente in corsa, il treno che non va da nessuna parte assicura razioni di cibo (e qui potrei aprire una parentesi), letti per dormire, modi per riprodursi in modo da non raggiungere l'estinzione. Ma come George Orwell ci ha insegnato, pure nell'emergenza e nella precarietà l'uomo animale non riesce ad evitare di gerarchizzare se stesso e il gruppo di cui fa parte, per cui, come Suzanne Collins c'ha insegnato, dal distretto dei minatori a quello dei ricchi presentatori TV i vagoni si susseguono per scale sociali a crescere, dal fondo dei poveracci alla testa del proprietario, l'elogiato, venerato, adulato dittatore/ divinità morale che si deve ringraziare se si è in vita. Sempre come Suzanne Collins c'insegna, e la storia prima di lei, i bassifondi non stanno mai fermi: prendono spranghe e piedi di porco e – architettato l'unico modo di superare le porte automatiche aperte per pochi secondi contemporaneamente – sfiancano e stendono le “guardie” e dichiarano guerra a tutto ciò che si troveranno davanti. E il film comincia: solo che spranghe e piedi di porco sono in realtà martelli e coltelli e mitra con laser e i vagoni sono tantissimi, e delle due ore piene di durata totale quasi tre quarti sono la cronaca dettagliata degli scontri e delle botte e dei morti ammazzati di questo clan, composto da: Chris Evans protagonista assoluto abituato a questo genere di catfights dismessi i panni del Capitan America con cui ora torna in sala, prima di tagliarsi la barba; Jamie Bell ai tempi Billy Elliot e presto K. in Nymphomaniac di Lars von Trier, qui giovinetto tutto impeto e mani all'aria; il vecchio saggio amico (con beneficio) John Hurt, che riserverà sorpresa finale; il premio Oscar Octavia Spencer, una di quelle persone che non ti aspetti di trovare nel film di produzione coreana più costoso della storia, eppure a suo agio come madre devota e angosciata di questo bambino che sparisce perché richiamato dal proprietario alla prima carrozza. Superano, oltre a tutta una serie di figuri incappucciati e addetti ai lavori locomotori, l'asilo dove i bambini imparano le musiche per il grande e potente Wilford (Ed Harris), gli acquari dove viene servito sushi una volta l'anno, la serra dove in pace e amore si coltivano le foglie e poi il salone di bellezza per signore. Vanno in orizzontale, con i loro vestiti lerci e sudici e macchiati di sangue e tu, spettatore in sala, ti chiedi quando arriveranno a destinazione: o meglio, sai quando, ma non sai che colpo di scena aspettarti. E poi il colpo arriva. Soddisfatto? Non si capisce. Fatto sta che un orso bianco adocchiato in lontananza ti fa credere che forse sia stata tutta una grande allegoria del diluvio universale: un'arca che trasporta animali che si fanno la guerra, e allora il Creatore li punisce – fa sopravvivere solo i pochi puri. La colomba non sarebbe campata in tutto questo freddo, ma la metafora religiosa non può proseguire, e il film finisce lì dove deve. Già è lungo: troppo, per quello che racconta. Diretto bene, per carità, ma il solito film in cui le botte sono più protagoniste dell'intento. Il prezzo del biglietto, però, è tutto meritato da Tilda Swinton: una metamorfosi incredibile, un tuffo nel ruolo pazzesco, un vertice mai arrivato fino a questo punto. Incredibile, magistrale, spontanea. E non sappiamo quanto merito dare al regista Bong Joon Ho, autore di Madre che commosse il mondo cinque anni fa e l'ha catapultato a dirigere attori hollywoodiani – anche se una di questi non aveva bisogno del direttore.
lunedì 10 marzo 2014
i ragazzi e Guillaume.
Tutto Sua Madre
Les Garçons Et Guillaume, À Table!, 2013, Francia/ Belgio, 85 minuti
Regia: Guillame Gallienne
Sceneggiatura non originale: Guillame Gallienne
Basata sullo spettacolo teatrale di Guillame Gallienne
Cast: Guillame Gallienne, André Marcon, François Fabian,
Nanou Garcia, Diane Kruger, Reda Kateb, Götz Otto
Voto: 6.9/ 10
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Guillaume è uno dei tre figli maschi di una famiglia abbastanza benestante da poter telefonare alla donna di servizio al piano di sotto per chiederle di cucinare la sogliola invece della carne; la matriarca della dimora a più piani è un tripudio di spagnoleggianti gesticolature, ripetizioni di intercalari, e non a caso il film si apre con un viaggio in terra iberica fatto di ventagli e flamenco – ma il ballo tipico, Guillaume, lo interpreta prendendo la mela mordendo la mela buttando la mela come fanno le ragazze, alzando poi il ginocchio per scostare una gonna che non ha. Cresce, ed è cresciuto, nella totale emulazione della genitrice, che si aggiusta i capelli, accende una sigaretta, invita gli ospiti a prendere una veloce decisione sul da bersi. Nei momenti liberi gioca ad essere Sissi e qualche sua parente stretta, col piumino legato in vita e la federa in testa; se il padre lo scopre, si giustifica in modi improbabili, perché il padre non capisce che lui è in realtà una ragazza, al punto da riuscire a confondersi son sua madre nel rispondere alle domande. Il totale surrealismo di questa condizione è spalmato nella successiva mezz'ora di film, quella in cui un ragazzino molto giovane ma non apparentemente tale cambia collegio, si arruola, pratica sport e incontra le tipiche difficoltà-chliché della condizione gaia senza testa infilata nel cesso, scherzi nella notte, insulti anche abbastanza pesanti. Un «frocetto» mezza volta e il bullismo si risolve; vero è che siamo in Francia, ma tutto il mondo è paese, e lo è soprattutto se si guarda indietro, al tempo in cui il film suggerisce di essere ambientato. Tra la nonna demente e la zia sboccata si sente dire «un giorno ti innamorerai, e se sarà una ragazza, sarai etero; se sarà un maschio, sarai gay», ma frequentando più psicologi che locali non s'innamora né dell'un genere né dell'altro; proverà l'esperienza del sesso, o almeno proverà a provarci, sempre col fantasma della madre seduta al divano che lo osserva rispondendo.
One-man show dichiarato già nell'intento, narcisissimo, egocentrissimo, talmente “one” che i personaggi minori non sono minori ma infimi e Guillaume Gallienne protagonista sceneggiatore soggettista regista produttore interpreta sia il ruolo di se stesso che quello della madre, madre di altri due ragazzi che vediamo di sfuggita in una scena e moglie di un uomo che vediamo, bene, in mezza. Capatina di Diane Kruger che, in quanto attrice celeberrima, si ritaglia la più lunga delle comparsate nella più volontariamente divertente delle scene, quella di una pulizia anale. Tutto in realtà sta là per far ridere: e quello che non deve far ridere fa commuovere o riflettere, e sono queste le parti lasciate al palcoscenico. Perché Guillame ci racconta fuori campo questa storia e lo fa a noi e a una platea recuperando lo spettacolo originale da cui tutto è partito. Per compiersi in una sorta di colpo di scena a cui pure stentiamo a credere, ma è quel tipico gioco del non si sa mai quanto sia vero: che tutto nasca autobiograficamente, che lui abbia passato quelle cose, che adesso viva quell'altra situazione. Montato male, ma nonostante ciò vincitore del César nella categoria. Apparentemente sboccatissimo dal trailer, finito poi in pochissime sale nonostante la calda accoglienza a Cannes 2013, è il tipico film francese che fa ridere ma lancia la scintilla, lodevole per trattare un argomento in maniera più che tranquilla, e poi ribaltandolo, costruendo un personaggio un po' eccessivo e, paradossalmente, una madre e un rapporto molto più compiuti. E lungometraggio per un pelo.
premi César - vincitori.
Dopo l'Oscar, il Golden Globe e il BAFTA La Grande Bellezza non si porta a casa anche il Premio César 2014, riconoscimento del cinema francese, come miglior film straniero perché ci pensa The Broken Circle Breakdown a ritirare la bruttissima statuetta – favoritissimo all'inizio della stagione dei premi e poi messo nel dimenticatoio insieme a La Vita Di Adèle, che qui ritira solo il premio all'attrice emergente, giustamente, l'immensa ed esordiente Adèle Exarchopoulos. Fa incetta, come previsto date le infinite nominations, Tutto Sua Madre di Guillaume Gallienne, opera prima personalissima tratta dal suo stesso memoir e da lui scritta, diretta, interpretata in tutti i ruoli e prodotta: miglior film, sceneggiatura adattata, attore, opera prima, montaggio. Lascia la statua alla regia a Roman Polanski per il claustrofobico lavoro teatrale di Venere In Pelliccia, così visivamente semplice così pieno di significati. L'attrice e la sceneggiatura originale solo di 9 Mois Ferme – niente Bérénice Bejo de Il Passato, niente Léa Seydoux; il miglior attore emergente è Pierre Deladonchamps per la rivelazione francese dell'anno Lo Sconosciuto Del Lago, che pure aveva ottenuto molte candidature per un'annata super-queer nel cinema francofono. Renoir, il film che il Paese ha mandato agli Oscar non potendo contare su Kechiche uscito in patria troppo tardi, si accontenta dei migliori costumi per l'unica nomina che aveva ricevuto; le scenografie vanno invece a Stéphane Rozenbaum per il visionario quanto deludente La Schiuma Dei Giorni, opera ultima e in lingua non inglese di Michel Gondry. Capatina di Scarlett Johansson durante la cerimonia di premiazione della scorsa settimana. Qui il sito ufficiale, con le foto e i video della serata; di seguito invece, dopo l'interruzione, tutti i candidati e i vincitori.
miglior film
9 Mois Ferme
Jimmy P
Il Passato
Lo Sconosciuto Del Lago
Tutto Sua Madre
Venere In Pelliccia
La Vita Di Adèle
Jimmy P
Il Passato
Lo Sconosciuto Del Lago
Tutto Sua Madre
Venere In Pelliccia
La Vita Di Adèle
lunedì 3 marzo 2014
Oscar 2014 - vincitori.
Quella che vedete accanto, con quasi tre milioni di retweet, è l'immagine più condivisa di Twitter, record battuto ieri sera da Ellen DeGeneres in onore del record battuto da Meryl Streep giunta alla diciottesima nominations come attrice; Ellen, presentatrice di nuovo dei 68esimi Academy Awards come nel 2007, ha di nuovo preferito passare la maggior parte del tempo in platea e non sul palco – un palco decisamente meno pomposo di altre cerimonie, più asciutto, minimamente riempito. Dalla platea ha ordinato pizza, conversato con persone, mentre sullo stage si susseguivano P!nk nel tributo a Il Mago Di Oz, Glenn Close nella celebrazione dei defunti dell'anno (James Gandolfini il primo a comparire, Philip Seymour Hoffman l'ultimo), le quattro canzoni candidate di cui la vincitrice, Let It Go, velocizzata perché già fuori scaletta. E poi le star, senza il George Clooney di Gravity ma con una Sandra Bullock che ad ogni premio le si riempiva il cuore: sette statuette per il capolavoro visivo e di tensione di Alfonso Cuarón: regia, montaggio, fotografia, montaggio sonoro, mixaggio sonoro, colonna sonora ed effetti visivi. Tutto abbastanza prevedibile, dagli attori Matthew McConaughey che ha fatto lo show ritirando il premio a Jared Leto che ha elogiato la madre single, da Cate Blanchett elegantissima a Lupita Nyong'o fino all'ultimo incerta contro Jennifer Lawrence, per una cerimonia senza particolari picchi ma con qualche battuta simpatica. A meno che non si tratti dell'Italia, esultante per questo tredicesimo miglior film straniero dopo sedici anni da La Vita È Bella. «A Fellini, Maradona, Scorsese e i Talkin Heads» è stato dedicato un premio felicemente ritirato insieme a Toni Servillo, dato da Viola Davis: un quadretto splendido. Meno meraviglioso il documentario: 20 Feet From Stardom batte i sanguinocentrici The Act Of Killing e The Square. Non ha avuto rivali Frozen con le sue due nominations né 12 Anni Schiavo già miglior film su carta. Restano a bocca asciutta Captain Phillips, Nebraska e Philomena e soprattutto American Hustle, mentre Spike Jonze ritira il trofeo per la minore delle sue quattro sceneggiature e Il Grande Gatsby alla fine la scampa con due premi artistici.
Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i candidati e i vincitori.
film
American Hustle - L'apparenza Inganna prodotto da Charles Roven, Richard Suckle, Megan Ellison, e Jonathan Gordon
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto prodotto da Scott Rudin, Dana Brunetti e Michael De Luca
Dallas Buyers Club prodotto da Robbie Brenner & Rachel Winter
Gravity prodotto da Alfonso Cuarón & David Heyman
Her prodotto da Megan Ellison, Spike Jonze e Vincent Landay
Nebraska prodotto da Albert Berger & Ron Yerxa
Philomena prodotto da Gabrielle Tana, Steve Coogan e Tracey Seaward
12 Years a Slave prodotto da Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Steve McQueen e Anthony Katagas
The Wolf of Wall Street – produttori da determinare
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Gravity,
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Oscar 2014,
Spike Jonze
domenica 2 marzo 2014
the Lego movie/ the Oscars.
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The Wolf Of Wall Street
Film Independent Spirit Awards - vincitori.
Senza la concorrenza di Gravity è 12 Anni Schiavo il film arraffa-tutto nella serata più importante della stagione prima degli Oscar. Annunciate il 4 dicembre, le candidature ai 29esimi Independent Spirit Awards hanno visto i vincitori solo ieri sera, in una cerimonia sempre più di gala e sempre meno “independent”; film come quello di Steve McQueen e dei fratelli Coen – il più sottovalutato dell'anno senza dubbio – vengono celebrati al fianco del minuscolo Frances Ha, il romantico The Spectacular Now, Short Term 12 e quello che si presentò come il film indipendente dell'anno, Fruitvale Station, scanzato poi da Dallas Buyers Club che con sei candidature agli Academy Awards ha vinto qui i premi ai due attori, prevedibili, Matthew McConaughey e Jared Leto. Miglior attrice: Cate Blanchett (nella foto, durante il tributo in memoriam per Philip Seymour Hoffman, il candidato James Gandolfini – per Non Dico Altro – e Roger Erbert); miglior sceneggiatura d'esordio: Nebraska, scritto dal geniale Bob Nelson, e poi cinque premi per l'arte visiva della schiavitù nera: film, regia, sceneggiatura, l'attrice non protagonista Lupita Nyong'O e fotografia. Il documentario, a sorpresa, non è The Act Of Killing ma 20 Feet From Stardom, a dimostrazione del fatto che l'industria guerrocentrica non è sempre presa più in considerazione de, per esempio, le coriste nere. Il film straniero, La Vita Di Adèle – per una volta non la nostra Grande Bellezza in una stagione nata senza prospettive e finita con grandissime soddisfazioni italiche.
Qui e qui informazioni sulla cerimonia di premiazione presentata da Patton Oswalt, mentre di seguito, dopo l'interruzione, l'elenco di tutti i candidati e, evidenziati in blu, i vincitori.
miglior film
12 Years A Slave di Steve McQueen
All Is Lost di J.C. Chandor
Frances Ha di Noah Baumbach
Inside Llewyn Davis di Joel & Ethan Coen
Nebraska di Alexander Payne
miglior regista
Shane Carruth per Upstream Color
J.C. Chandor per All Is Lost
Steve McQueen per 12 Years A Slave
Jeff Nichols per Mud
Alexander Payne per Nebraska
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Matthew McConaughey,
Mud,
Nebraska,
The Spectacular Now
CDG & CAS Awards - vincitori.
Altro Sindacato altre eccellenze, i fonici di presa diretta della Cinema Audio Society hanno consegnato pure i loro premi per i film 2013 a una pellicola di finzione e una d'animazione: Gravity è la prima, capolavoro visivo di Alfonso Cuarón che celebra così una carriera di meraviglie, ingiustamente poco considerato dalle cerimonie per Y Tu Mamá Támbien e I Figli Degli Uomini; Frozen è il secondo vincitore, contro il pixariano Monsters University, campione d'incassi tanto in sala quanto nei negozi di dischi per una colonna sonora da record e una canzone originale in odore di Academy Award. Qui tutti i premi di quest'altra serata di gala, e di seguito, dopo il salto, i candidati e i vincitori di entrambe le iniziative.
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