Youth
– La Giovinezza
Youth, 2015, Italia/ Svizzera/ UK/ Francia, 118 minuti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura originale: Paolo Sorrentino
Cast: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano,
Jane Fonda, Poppy Corby-Tuech, Veronika Dash, Paloma Faith,
Ed Stoppard, Neve Gachev, Madalina Diana Ghenea
Voto: 8.8/ 10
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Critiche e contestazioni – ma intanto dopo essere stato ignorato a Cannes aveva vinto l'Oscar: la colpa dovrebbe andare, stando a sentire, a quest'uso isterico del dolly e dei carrelli, agli incipit manieristi, manierati, alle sequenze senza sosta (de
La Grande Bellezza ma soprattutto de
L'amico Di Famiglia) – ignorato a Cannes eternamente, perché passato di là con tutti i film – solamente
Il Divo ebbe un Premio della Giuria. Ma nonostante il pubblico spaccato in due l'attesa era molta, quasi eccessiva: e il trailer aveva giocato in furbizia a chi voleva trovare
La Grande Bellezza 2.0, in versione
international perché il cast già annunciato era tutto straniero. E invece. Nonostante si apra con un'inquadratura fissa, ma che gira su se stessa, su una cantante (
You Got The Love) durante un party serale,
La Grande Bellezza è lontana anni luce: ai finti giovani di quel film si sostituiscono dei finti vecchi, rinchiusi quasi claustrofobicamente a vedere sempre le stesse facce, gli stessi intrattenimenti ogni giorno, un albergo di lusso fra le Alpi Svizzere. Sono Fred e Mick, amici da un'eternità, ex direttore d'orchestra il primo, compositore, col vizio di accartocciare a tempo un involucro di caramella e con la decisione ferrea di non dirigere più, neanche di fronte alla regina d'Inghilterra, una moglie persa, una figlia (
Rachel Weisz) forse mai avuta veramente (perché «nessuno si sente pronto a fare il padre») e una carriera schiacciata dalle
Canzoni Semplici, motivetti dalla complessità inesistente di fronte alle opere precedentemente firmate; Mick invece è un regista cinematografico, sceneggiatore, legato al suo mestiere quanto ai suoi ricordi, che svaniscono galoppando: si circonda di ragazzi con cui scrivere la prossima pellicola, probabilmente l'ultima, il testamento spirituale dopo tante attrici fatte sbocciare, una cinquantina, ma una preferita tra tutte: Brenda – piedi piantati per terra e i soldi immediati della televisione preferiti a quelli evanescenti del grande schermo. Tra i due si inserirà con naturalezza
Paul Dano, attore diviso tra la profondità del proprio mestiere e la leggerezza che il pubblico chiede – e che poi ricorda; giovane fuori ma vecchio dentro, schiacciato, lui, dai pregiudizi, per esempio davanti alla Miss Universo
Madalina Ghenea bella-quindi-stupida. E poi c'è una coppia che in pubblico non parla ma nei boschi fa sesso urlato, un non-Maradona lievitato fisicamente che fa peripezie con una pallina da tennis, un santone che tutti vorrebbero veder levitare, uno scalatore di montagne dal dubbio spirito di iniziativa e
Paloma Faith, che ci si poteva risparmiare. Costretti alla convivenza, Fred e Mick amano raccontare di dirsi solo le cose belle quando le cose, tutte, in realtà, stanno sfuggendo loro di mano: e per non ferirsi, spesso, proprio sulle cose belle tacciono, o si mentono. Il primo, accusato di apatia, e quindi nullafacente tutto il giorno, ha perso le speranze nelle emozioni; il secondo, invece, ne ha bisogno per andare avanti.
Michael Caine e
Harvey Keitel reggono il palleggio di una serrata sceneggiatura di dialoghi (e qualche monologo) brillanti dal punto di vista intellettuale che si sostituiscono alle peripezie della macchina da presa;
Paolo Sorrentino si riscopre sceneggiatore e sorprende tutti con un film che non ci si aspettava e non ci si aspettava fatto così. A chi gli domanda come mai una riflessione sull'anzianità, risponde che è il tempo, «l'unica cosa che ci interessa davvero: quanto ne rimane, quanto ne è passato; il futuro è una grande occasione di libertà e la libertà è un sentimento naturale dell'esser giovane – è un film molto ottimista e forse è stato fatto per esorcizzare certe paure». Sarebbe facile infatti trovare parallelismi e somiglianze con la proto-casa di riposo in cui Marcello Mastroianni (regista pure lui) giocava a non fare il proprio mestiere, nel pieno della sua carriera poi!, in
8½,
già scimmiottato quasi nello stesso senso da Pappi Corsicato; o con l'albergo in cui Toni Servillo viveva e scopriva
le conseguenze dell'amore per una semplice cameriera, dove pure una coppia di vecchietti giocava alla crisi di coppia piegata dalla povertà; ma questo è un film più elevato perché non solo racconta l'eternità dell'arte e della sua eterna giovinezza ma anche, dannatamente, del tempo in generale, della sua non accettazione e del dover scendere a compromessi se non si vuole perire: e infatti uno lo fa, e l'altro no. Girato nell'albergo dove Thomas Mann ha scritto
La Montagna Incantata (ma il regista non lo sapeva), il film si divide tra gli interni artificiali dalle trame incomprensibili agli universali paesaggi dei quadri di Segantini; a intermittenza le immagini si sovrappongono, sempre isteriche, e Caine passeggia con accompagnatori diversi, capofila di un gruppo di attori in stato di grazia – finanche
Jane Fonda, a cui basta un cameo per essere ricordata in eterno. Lui, mancava a Cannes da quarantanove anni, «cinquant'anni fa venni con un film che si chiamava
Alfie;
Alfie vinse un premio e io no: per questo non sono mai più tornato» ha detto in conferenza stampa, sottolineando che se qui un premio dovesse arrivare, sarebbe all'intero cast; «le dà fastidio interpretare il ruolo di un vecchio?» gli chiedono, «no» dice ancora, «perché altrimenti dovrei fare quello di un morto». Ma tutti applaudono al lavoro del regista: considerato
un Fellini senza troppa leggerezza (Francesco Gallo, ANSA), che inspiegabilmente riesce a incuriosire pubblico e critica senza mettere nessuno d'accordo, se non musicalmente (questa volta è di
David Lang), Sorrentino genera ancora qualche dissenso fra i «bravo» alla proiezione francese (ma la pellicola è stata acquistata in più di 70 Paesi). Motivo dei fischi, parrebbe essere, il finale a puntate – a singhiozzi: segnale che la maniera, al pubblico, proprio non piace; poi compare scritto a
Francesco Rosi: e tutti tacciono.