martedì 30 giugno 2015

Nastri d'Argento - vincitori.



«Tre per tre» scrive il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici, sul sito ufficiale nei Nastri d'Argento 2015: tre premi a Garrone, tre a Munzi e tre a Sorrentino – calcolando doppio quello al montaggio di Cristiano Travaglioli che ha lavorato sia a Youth che ad Anime Nere. Gli altri due di Paolo: la migliore regia e la fotografia di Luca Bigazzi; di Francesco: la produzione e la sceneggiatura. Il Racconto Dei Racconti invece riceve, prevedibilmente, i premi alle maestranze per la migliore scenografia, i costumi di Massimo Cantini Parrini con la Sartoria Tirelli e il sonoro in presa diretta. Ennesimo Nastro al Premio Oscar Nicola Piovani per l'unico riconoscimento ad Hungry Hearts (le musiche, ovviamente) e primo a Francesco De Gregori, autore di testo e arrangiamento per la canzone originale Sei Mai Stata Sulla Luna?, film omonimo. Gli attori: Margherita Buy migliore interprete per Mia Madre mentre alla sua partner Giulia Lazzarini fuori gara va il Nastro Speciale (condiviso con Adriana Asti in Pasolini di Ferrara e quello alla carriera di Ninetto Davoli); non protagonista: Michaela Ramazzotti per Il Nome Del Figlio, doppietta con Alessandro Gassman (anche ne I Nostri Ragazzi) e miglior attore non protagonista Claudio Amendola per la commedia dell'anno Noi E La Giulia, subito davanti all'esordio Se Dio Vuole di Edoardo Falcone che incassa, dopo il David, pure questo premio. Sempre tra gli attori, il Premio Nino Manfredi va per la prima volta a una donna: Paola Cortellesi, premiata «per la sua ironia» al di fuori della candidatura di Scusate Se Esisto! Il film dell'anno, già annunciato, era Il Giovane Favoloso, quindi fuori dalla competizione: ritirano il premio regista, produttori, sceneggiatori e interprete, Elio Germano. Infine il soggetto crossmediale di Salvatores, Il Ragazzo Invisibile, viene finalmente premiato nel suo dipanare la storia a segmenti tra pellicola, fumetto e film, come fu per Matrix. Tutti i candidati, oltre ai vincitori, di seguito e dopo l'interruzione.

nastro dell'anno
Il Giovane Favoloso di Mario Martone

regista del miglior film
Saverio Costanzo per Hungry Hearts
Matteo Garrone per Il Racconto Dei Racconti
Nanni Moretti per Mia Madre
Francesco Munzi per Anime Nere
Paolo Sorrentino per Youth - La Giovinezza

giovedì 25 giugno 2015

i mandarini.




Violette

id., 2013, Francia/ Belgio, 132 minuti
Regia: Martin Provost
Sceneggiatura originale: Martin Provost,
Marc Abdelnour, René de Ceccatty
Cast: Emmanuelle Devos, Sandrine Kiberlain,
Olivier Gourmet, Catherine Hiegel, Jacques Bonaffée,
Olivier Py, Fabrizio Rongione
Voto: 7.7/ 10
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Nata ad Arras, figlia illegittima di una cameriera e mai riconosciuta dal padre, Violette Leduc crebbe con la convinzione di non essere stata voluta da nessuno in famiglia, di essere completamente sola; non bastarono le due relazioni lesbiche, con una compagna di classe e un'insegnante, a farle passare il tarlo. La Guerra non le permise di finire le scuole. Nel 1938 conobbe Maurice Sachs ed è da qui che il film parte, col capitolo uno: Maurice, appunto. Lui omosessuale, lei innamorata di quell'amore ingenuo e infantile che è l'amore dell'essere amati, portano avanti una finta relazione sociale fino a quando lui parte per la Germania nazista. Scioltamente inserita nel mercato nero, Violette riuscirà non solo a campare da sola ma anche a vivere dignitosamente, con tanto di cappotti e cappelli che non passerebbero inosservati; come non passava inosservato il suo comportamento senza filtri, senza restrizioni, la sua risposta pronta e sempre sincera, spesso fuori luogo, i suoi atteggiamenti teatrali, privati della compostezza etica. Violette era una donna cresciuta quasi senza figure educative ma con un profondo rancore che la legava, attaccava a qualsiasi persona si fermasse a salutarla. Succederà più di tutti con Simone de Beauvoir, intellettuale già affermatissima, con all'attivo un libro scabroso su un triangolo (due donne e un uomo). Rapita dall'idea che la sua mente ha costruito di questa figura, Violette sarà spinta a lasciarle fiori fuori dalla porta e poi a scrivere, di tutto, di sé; fu la prima grande inventrice dell'auto-fiction, e la pellicola di Martin Provost, già regista dell'apprezzato biopic su Séraphine de Senlis, fa quest'operazione strana per un film su uno scrittore: quasi mai la ritrae all'opera, con carta e penna in mano; spesso, invece, è alla mercé della sua vita, perché quella poi ha nutrito i suoi romanzi. Assistiamo alla pubblicazione «in tiratura limitata» de L'asfissia, gli elogi da parte di Sartre, Cocteau, Genet (mai inquadrati), il concepimento del secondo L'affamata e poi la gloria raggiunta con La Bastarda, candidato al Premio Goncourt che venne vinto, invece, da I Mandarini della Beauvoir. È, il suo, il secondo grande ritratto del film: algida, seria, sempre a schiena dritta, è l'opposto di Violette e, forse per questo, grandissima fonte di attrazione, amica, confidente – la loro profonda amicizia sfidò le convenzioni della prima metà del Novecento così come lo fecero i loro non-romanzi. Ha il volto di Sandrine Kiberlain, la madre non-incinta del Piccolo Nicolas, la moglie fredda e arricchita de Le Donne Del 6° Piano; è qui bruna e perfetta, a suo agio di fianco alla colonna di tutte le scene, Emmanuelle Devos, l'indimenticabile Carla di Sulle Mie Labbra da poco tornata sui nostri schermi con Il Figlio Dell'altra. Imbiondita, affronta una biografia calandosi nel personaggio con spigliata naturalezza: ci regala il periodo di depressione, quello di serenità, gli improvvisi sbalzi d'umore, le gioie, i dolori, la necessità di scrivere ancora e gli infantilismi gridati sulla riva della Senna. Sono due attrici in stato di grazia che completano un bel film, riuscito, che quando pecca in lunghezza viene aiutato dagli allestimenti impeccabili: scene, costumi e fotografia rendono l'ambiente culturale francese in tutta la sua vivacità ed estraneità dal mondo in cui, in realtà, era pienamente inserito. Dai manoscritti originali ai barattoli della colla, ogni accessorio è ricostruito con cura maniacale, le scene all'aperto sono attente, gli interni pieni di piccolezze. Una splendida biografia, che in fondo rivela il desiderio di riportare in auge una difficile e triste storia per dare gloria a una donna che, in vita, ne ha avuta troppo poca.

mercoledì 24 giugno 2015

un nuovo Apple Store.



Ruth & Alex:
L'amore Cerca Casa

5 Flights Up, 2014, USA, 92 minuti
Regia: Richard Loncraine
Sceneggiatura non originale: Charlie Peters
Basata sul romanzo Ruth & Alex di Jill Ciment (Newton Compton)
Cast: Diane Keaton, Morgan Freeman, Cynthia Nixon,
Alysia Reiner, Carrie Preston, Miriam Shor, Josh Pais,
Claire van der Boom, Maddie Corman, Sterling Jerins,
Joanna Adler, Hannah Dunne, Liza J. Bennett
Voto: 5.9/ 10
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Sposati da quarant'anni, da quarant'anni Ruth e Alex convivono in una luminosissima casa («servono gli occhiali da sole per fare colazione») in cui Alex si è ritagliano una stanza per fare il suo studio, atelier di tele e pittura, dalla vista mozzafiato fuori dalla finestra, una vista su una città che in quarant'anni è cambiata – sono stati inaugurati nuovi Apple Store e le giovinastre, uscendo dalle porte dei negozi, hanno perso l'abitudine di dare la precedenza ai più anziani entranti, nella prima e più profonda scena-dettaglio del film, rovinata dalla voce fuori campo. Voce di Alex: che si domanda il perché, dopo tutti questi anni, di dover vendere la dimora, sempre più vicini all'età anziana: il quinto piano senza ascensore del titolo originale è la causa principale, ma ormai i coniugi ci hanno così fatto l'abitudine che, a differenza del cane o della nipote, salgono senza un lamento – «sono una quarantenne circa e non ho già più il fiato». Aiutati da un'agente immobiliare, uno controvoglia e l'altra stoicamente, procedono all'open-house, all'accoglienza di eventuali acquirenti, futuri inquilini di quella casa in cui ogni parete sembra parlare. Si mettono in mezzo però: un malore al cane domestico, su cui bisogna intervenire con una TAC costosa, e un'intervento ancora più caro; poi una specie di kamikaze arabo, un probabile trasportatore di bombe che ha seminato il panico in città e su un ponte, che forse deruba negozi e tassisti, di cui tutti sono alla ricerca. L'evasore allenta l'interesse verso l'immobile, ma non poi neanche tanto; il cane distrae i proprietari terrieri, che sulla panchina di fronte al fiumiciattolo, come tutti gli americani, si interrogano sui massimi sistemi. Ne segue una vicenda immobiliare in cui con lieve piglio satirico vengono mostrati personaggi e figure tipici del caso, quelli sempre insoddisfatti dei muri che vanno a vedere, i menefreghisti, le mamme con figlie che testano il materasso visto che è «il posto dove passerò la maggior parte del tempo, in questa casa». Lo sguardo di Morgan Freeman si sposta su un ritratto fatto alla consorte in gioventù: flashback sul loro essersi conosciuti, lui pittore e lei modella presa dall'agenzia non perché bella ma perché vera (…); lo sguardo di Diane Keaton si sposta sulla porta di fronte: flashback sul vicino che, vedendosi nel palazzo un nero, chiude la porta senza salutare, e così la madre, «soddisfatta» del matrimonio della figlia, ma non «felice». La trama esile della pellicola vorrebbe contenere forse troppi temi, primo fra tutti quello della tolleranza razzista a cui ogni film made in U.S.A. con un interprete di colore deve accennare per forza: asciugato di qualsiasi romanticheria, al punto che i due a malapena si sfiorano – ma si colgono come ogni coppia anziana sa fare – il film si incastra in questo tour-de-force al rialzo sul valore dello stabile che quasi si fa thriller verso la prevista decisione finale: resteranno in quella casa o no? Si fa guardare – magari anche in televisione, magari al pomeriggio – soprattutto per i due interpreti: premi Oscar e mostri sacri della spontaneità. Li dirige uno che di mostri sacri ne ha visti, Richard Loncraine – regista del Riccardo III con Ian McKellen e Annette Bening e del televisivo La Mia Casa In Umbria con Maggie Smith. Niente di nuovo sul fronte, appunto, occidentale: ma un esercizio d'indovina-dove-l'hai-visto: dietro la ben celebre Cynthia Nixon di Sex & The City fanno capolino l'Arlene di True Blood e Elsbeth Tascioni di The Good Wife Carrie Preston fino all'Alysia Reiner di Orange Is The New Black.

martedì 16 giugno 2015

#CANNES68: l'albergo.



The Lobster
id., 2015, Irlanda/ UK/ Grecia/ Francia/ Paesi Bassi, 118 minuti
Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura originale: Yorgos Lanthimos & Efthymis Filippou
Cast: Colin Farrell, Rachel Weisz, Ben Whishaw, John C. Reilly,
Léa Seydoux, Olivia Colman, Roger Ashton-Griffiths,
Ashley Jensen, Michael Smiley, Jessica Barden, Ariane Labed
Voto: 7.7/ 10
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Premio della Giuria
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A Colin Farrell viene assegnata la camera 101, la camera e il nome, che ne indicherà lo stato di vedovo, anzi di single, perché non è importante se si è stati traditi o lasciati: quello che conta è trovarsi da soli, e stare da soli è proibito. Per cui l'apposito albergo, attraverso attività di gruppo (e mai singole!, mai masturbarsi!, neanche con l'erezione procurata dalla cameriera!), provvederà all'individuazione della dolce metà con cui trascorrere qualche settimana in stanza matrimoniale, poi sullo yacht, prima di affrontare nuovamente la civiltà – e nel caso di problemi un paio di figli stabilizzeranno la cosa. Chi non dovesse trovare qualcuno nel tempo prestabilito: verrà tramutato in animale, lasciato da solo nel bosco – un bosco popolato di cammelli pavoni conigli e maiali. Elementi di convincimento degli amorini: un tratto in comune, che può essere la miopia o la facilità a sanguinare dal naso. Colin camera 101, architetto dalla tonda pancia, divide le battute di caccia-al-single con lo zoppo Ben Wishaw e il mezzo-dislessico John C. Reilly; il primo, del tutto intenzionato ad andarsene in breve tempo, non trovando un'altra zoppa si finge debole di capillari. L'altro, a cui non serve il tostapane come punizione per la mano amica, pratica indisturbato l'autoerotismo. Colin scappa, perché gli manca meno di un mese alla trasformazione in aragosta; bizzarro: scappa da un posto dove era costretto alla coppia per vivere tranquillo in mezzo agli spaiati e proprio là trova qualcuno con cui vorrebbe stare in due, ma ne è impossibilitato. Il greco Yorgos Lanthimos si accaparra cast internazionale (da Léa Seydoux a Rachel Weisz) per una fanta-storia sull'emancipazione sentimentale, e i suoi estremi, che non si discosta poi troppo dall'assurdo impianto di Dogtooth (premio dell'Un Certain Regard e nomination all'Oscar); lì però la costrizione casalinga risultava assurda perché assurdi erano i tre fratelli e i loro comportamenti mai educati alla società; qui l'assurdità è stemperata da un forte realismo – in cui s'inserisce una musica finora assente – che trova i suoi picchi nelle molteplici battutine dei dialoghi, involontariamente (per i personaggi ma non per l'autore) sempre comici, che all'occhio pigro mascherano la fortissima satira sociale sulla manciata di elementi che portano la popolazione al matrimonio, alla procreazione, alla condivisione dei beni. Senza prendere posizione, Lanthimos dipinge gli accoppiati-per-forza e i single-per-convinzione come tribù intransigenti e vendicative, le cui leader sono esasperate dalla loro ferrea convinzione. Ciò che si evita, però, alla fine ci è inevitabilmente servita: la storia d'amore – ma anche questa è pretesto per dimostrare come l'incompatibilità venga risolta da qualche espediente: la ricerca spasmodica del partner porta all'accontentarsi e allo scendere a qualche compromesso – e un elemento fisico di diversità comporta lo squilibrio e, quindi, l'autolesione per porvi rimedio. Avendoci abituati a molto, Lanthimos delude; perché lo shock iniziale fanta-futuristico dell'albergo, della routine quasi militare, del neo-controllo delle nascite, lentamente perde la forza iniziale e si accartoccia, piegandosi sulla fuga sentimentale, sulla fuitina, mai romantica per carità – ma meno distopica.

non meno della gioia.



La Vita Oscena
id., Italia, 2014, 85 minuti
Regia: Renato De Maria
Sceneggiatura non originale: Renato De Maria
Basata sul romanzo La Vita Oscena di Aldo Nove (Einaudi)
Cast: Clément Métayer, Isabella Ferrari, Roberto De Francesco,
Andrea Renzi, Iaia Forte, Anita Kravos, Duccio Camerini,
Miriam Giovanelli, Eva Riccobono, Hamarz Vasfi
Voto: 5.2/ 10
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La storia vera di Aldo Nove, prima che si chiamasse Aldo Nove, è passata dal comodino di Renato De Maria a quello di sua moglie Isabella Ferrari sotto forma di libro autobiografico edito per Einaudi Stile Libero – lei fa a lui: se ci fai un film, io voglio fare la madre; spiega: perché mi piace questa figura hippy fuori tempo, che vive solo attraverso i ricordi. Vive attraverso i ricordi perché Aldo Nove, che prima di chiamarsi Aldo Nove si chiamava Antonio e nel film Andrea, nel momento in cui credeva di stare per perdere il genitore femmina – una depressione lunga mesi e poi la diagnosi di una «brutta malattia» – improvvisamente vede morire il padre di ictus; pochi mesi dopo, sotto chemioterapia, incerta sulla parrucca con cui convivere, morirà anche la madre. Ritrovatosi solo e in una casa grande e vuota, Andrea si perde: e si perde il film, che in realtà non ha idea di dove si trovi nemmeno all'inizio: rivediamo spesso la stessa scena che ci verrà spiegata come se tornassimo indietro nel tempo: la realtà è che non esiste tempo, uno schema narrativo, né uno registico: la grana della pellicola cambia fingendo di passare da filmini privati a scene di finzione, fino a una foto di famiglia in posa in cui le luci (immense dell'immenso Daniele Ciprì) cambiano in pochissimi secondi. Niente è stabile, né Andrea né la sua vita, che è oscena solo per narrazione, in realtà pudica su schermo. Alla fermata dell'autobus incontra Eva Riccobono che Dio solo sa com'è arrivata a fare cinema: la bacia chiedendole di Umberto Saba, poi la ritrova, infermiera sexy, in un non-sogno post-incendio auto-prodotto della propria casa («sono cresciuto con l'idea che l'esplosione della casa, che è fondamentale per me come per il romanzo, fosse un evento da nascondere, da lasciare nel non detto» dice Nove a Giuliano Sangiorgio). Lo sbando è moderato dal professore, che legge ad alta voce le poesie del suo alunno preferito, che gli trova un posto a Milano per studiare: a Milano, invece, Andrea cercherà la morte sniffando sedici grammi di coca, bevendo rum a colazione, passando dalle prostitute perfette fisicamente a quelle sovrappeso e sovra-età (Iaia Forte in un'unica scena, con la parlata che aveva dato alla Carmèn diretta da Mario Martone) a cui non dice niente, declamando fuori campo versi e righe in prosa. La voce del fuori-campo è di Fausto Paravidino: dizione imperfetta e qualche parola biascicata (per fortuna ripete dieci volte «albero» altrimenti sarebbe incomprensibile) perché la faccia di Andrea/ Antonio/ Aldo è di Clément Métayer, francese, virtuosista dello skateboard – e ne abbiamo la prova – già in Qualcosa Nell'aria dove pure era un proto-hippy allo sbando tra l'arte e l'acido. Alla fotografia di Ciprì si somma la musica dei DeProducers e il montaggio di Jacopo Quadri che lavorano in direzioni proprie prendendo a esempio quella fattura allucinata anni '70 da riproporre liberati dalla narrazione attraverso i dialoghi e dai confini del reale: qualcuno elogia il lavoro finito, qualcun altro nota che quasi niente esce dal già-visto, con la differenza che il viaggio nell'oscenità in questo caso è privo di empatia e immersione, ma anche descrizione, coinvolgimento: il cielo rosa e blu fuori dalla finestra e la poesia fuori campo durante una scena di sesso non aggiungono niente a una biografia che in tre righe, su carta, avremmo immaginato esattamente così. Aldo Nove si dice soddisfatto; De Maria – che ha già incontrato difficoltà con Amatemi e Paz! – dopo aver presentato il film a Venezia nella sezione Orizzonti ha vissuto l'odissea di farlo arrivare in sala quasi a un anno di distanza: in 24 sale. Tant'è che ha già finito il prossimo film.

sabato 13 giugno 2015

#CANNES68: il frullatore.



Much Loved
id., 2015, Francia/ Marocco, 108 minuti
Regia: Nabil Ayouch
Sceneggiatura originale: Nabil Ayouch
Cast: Loubna Abidar, Danny Boushebel, Abdellah Didane,
Sara Elhamdi Elalaoui, Halima Karaouane, Asmaa Lazrak
Voto: 8/ 10
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Non ha freni inibitori né peli sulla lingua, Noha: in casa con le due coinquiline e l'autista/ protettore impegnati a preparare tocchtti di fumo, bottigliette di cocktail, lavande alla Coca-Cola per evitare le mestruazioni. Si raccontano dei clienti che ce l'hanno tanto grosso da farle sanguinare, di quelli che martellano troppo forte, «speriamo che me ne capiti uno col pisello piccolo e che abbia sonno» – poi, se non ha sonno, gli daranno del sonnifero. Strette nei vestiti che evidenziano cosa c'è dentro, Noha e Soukaina e Randa si lasciano accompagnare nella villa con piscina di questi sauditi raccoltisi a festeggiare la vita: piovono banconote, i diamanti vengono lanciati nell'acqua, la musica è altissima e le ragazze sembrano non finire mai: mettono i bicchieri tra i seni e lasciano che i maschi bevano senza mani, una alla volta fanno sfoggio della propria mercanzia per accaparrarsi l'uomo con cui passare la notte. Tutto costa: un prezzo per ballare, un prezzo per baciare. Assatanata, Noha guarda le banconote invece delle persone, le accumula, se le nasconde nella vagina, e se le altre non fanno lo stesso o addirittura rifiutano certe avances, le rimprovera: ché c'è un affitto da pagare, una vita da mantenersi. Soukaina, dolce e accondiscendente, ama in realtà un ragazzo che deve piegarsi all'obbligo di questo mestiere; Randa è latentemente lesbica – latentemente neanche tanto – e nessuna di loro ha una storia alle spalle, un motivo che le ha portate a condurre tale vita; nemmeno Hlima, campagnola che arriva per ultima con le sue facezie poco altolocate, incinta e probabilmente ex contadina. Le tre si imbattono solo in altre prostitute, chiedendosi come mai le prostitute vadano tutte a Marrakech: sono dovunque e non sempre ai margini delle strade; e quando le incontrano incontrano anche omosessuali, travestiti, tutti col sogno di andare a vivere altrove, fare altro – finanche un bambino di nemmeno dieci anni che vende lecca-lecca da un cestello e accendini e poi confessa di concedersi agli europei per cento dei loro soldi. Noha, alla ricerca di un uomo ricco, uno soltanto – della classe e dell'eleganza – travestita al punto da non sapere quale sia il personaggio che interpreta, se la devota a testa china col capo coperto o la formosa donna nella limousine in abito succinto, va a trovare la madre e il figlio che le ha affidato; questa la maltratta, si vergogna, racconta del chiacchiericcio dei vicini: ma non rifiuta il denaro che poi le viene offerto, simbolo di un Paese che critica il mestiere di cui poi mangia i frutti. Much Loved scrive il giornale online Africa «ha tolto il velo su un fenomeno nascosto eppure molto diffuso: la prostituzione in Marocco». Sono 50mila le donne che si prostituiscono; il fenomeno si divide: le ragazze tra i 18 e i 20 anni si rivolgono a un pubblico straniero, arabi o europei, per cifre che vanno da 70 a 300 euro; le donne più grandi, di mezza età o addirittura anziane, arrivano a prostituirsi per due euro, nell'antico quartiere ebraico. Intervistate dal Ministero della Salute, 19mila ragazze hanno dichiarato di essere per la maggiore analfabete, divorziate o vedove; vivono sole ma quasi certamente mantengono qualcuno, figli o parenti prossimi. I rapporti si consumano dove il cliente vuole: mai in camere d'albergo perché la legge locale vieta ai marocchini di soggiornare con persone che non siano i legittimi consorti. Passato dalla Director's Fortnight del 68esimo Festival di Cannes, per il suo contenuto, per i valori morali contro il Paese e le donne marocchine, il film è stato proibito in Marocco: la pagina Wikipedia francese del regista Nabil Ayouch (solito agli scandali) è stata riempita di insulti e l'attrice protagonista, Loubna Abidar, minacciata di morte. Lei fa da capofila a un manipolo di interpreti di una naturalezza feroce, spesso costretti alla nudità o a degli amplessi costretti: persino le autorità, consapevoli della cosa, ne approfittano, mentre incorrono in rischi ben peggiori. E alle ragazze non resta che concedersi una vacanza in cui domandarsi: chissà come sarebbe…

serpenti.



Vulcano
Ixcanul, 2015, Guatemala/ Francia, 93 minuti
Regia: Jayro Bustamante
Sceneggiatura originale: Jayro Bustamante
Cast: María Mercedes Conoy, María Telón,
Manuel Manuel Antún, Justo Lorenzo, Marvin Coroy
Voto: 7/ 10
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Orso d'Argento 2015
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Maria, persona e personaggio, è una diciassettenne figlia di coltivatori di un microscopico apprezzamento di caffè e di fagioli, di allevatori di maiali: appresso alla madre, fa ubriacare le bestie perché avvampate dall'eros procreino, poi le sgozza e le cuoce. Nell'anatomia dei suoi giorni che ci viene propinata, la vita si trascina insieme alla terra, ai serpenti che la abitano e la minacciano, agli uomini che cercano di scacciarli, alla paura con cui si affrontano. Immobile a guardare tutto, a giudicare tutto, a intervenire su tutto, se necessario, se ne sta il vulcano: una divinità naturale cui si devono offrire voti, cui si deve portare rispetto – una divinità per pochi, mai bazzicata da nessuno: vediamo, infatti, solo cenere terrosa e un paesaggio deserto, come deserti sono i luoghi che Maria e i suoi genitori abitano: un unico ragazzo, con il progetto di scappare alle spalle della montagna, rifarsi una vita negli Stati Uniti, dove ci sono le macchine e non si respira «l'aria del vulcano», un progetto che offusca Maria anche se è promessa in sposa a un altro, un uomo più grande, coi genitori partecipi. Nell'unico rapporto sessuale che si concede, la ragazza si ritrova incinta: la madre interviene divinatoriamente, procura un aborto che fallisce e decreta che la creatura dovrà vivere; intanto, il progetto di fuga e gli uomini svaniscono. La madre, colta da ancestrali ricordi, continua: «sei incinta e i serpenti non si avvicineranno, le tue mani guariranno le capre malate» e mette la figlia nella posizione di cavia su cui ogni esperimento fallisce, urlandole poi di non credere a tutto quello che viene detto. Siamo in una comunità microscopica, un microcosmo che si autogestisce inventandosi le regole e le leggi, le spiegazioni e i rimedi, confutandoli, aggrappandosi a ogni credenza con il beneficio del dubbio, senza il senso di colpa: parlano dialetto, in questa comunità guatemaltese, comunità indigena Maya Kaqchiquel, sono poveri e non hanno idea di come sia fatto il mondo; quando lo incontrano, alla fine, si scoprono tagliati fuori: impossibilitati alla comunicazione perché privi dello spagnolo delle istituzioni, impossibilitati alla mediazione perché affidati a un interprete poco ortodosso. Maria è un personaggio di Verga: qualcuno che nasce e cresce in un luogo a cui non si sente appartenere, e che quindi progetta di scappare, facendo solo il peggio per sé, affondando con la barca di lupini, trascinandosi dietro gli altri – che invece ce la fanno. Al suo debutto al lungometraggio, Jayro Bustamante (guatemaltese ma dalla formazione francese e italiana) torna dov'è cresciuto e filma i suoi ricordi d'infanzia con distacco, guardandoli da dietro la macchina da presa, senza nessun tipo di trasporto – patetico o giudicante – facendo un film di finzione che, causa anche assenza quasi totale di musica, sfiora il documentario. Agli stirati momenti iniziali, tirati nel loro niente e nel loro nulla, si contrappone il galoppante epilogo dove tutto corre, a partire dai personaggi, mentre la camera sobbalza: un contrasto tenuto insieme dai primi piani dei suoi protagonisti, María Mercedes Coroy in primis, scelta dopo un lungo lavoro di confronto tra il regista e la comunità indigena. Premio Alfred Bauer a Berlino 2015 come opera che «apre a nuove prospettive».

venerdì 12 giugno 2015

David di Donatello - vincitori.



Settimo David di Donatello per Margherita Buy, protagonista indiscussa di Mia Madre di Nanni Moretti («dei 70 giorni di riprese, non è venuta sul set solo una volta, per una scena che poi ho tagliato» ha dichiarato il regista), che si accontenta di questo premio e di quello all'immensa Giulia Lazzarini, non protagonista, facendosi rubare la mormorata Migliore Regia da Francesco Munzi che, capofila con 16 candidature per il suo Anime Nere, non viene penalizzato dall'incasso (sei milioni e mezzo) di Martone e fa incetta: 9 statuette, film, regia, sceneggiatura, produzione (dov'era candidato Le Meraviglie, sigh), fotografia, montaggio, sonoro, colonna sonora, canzone originale addirittura (niente da fare per Sei Mai Stata Sulla Luna? di Francesco De Gregori, vincitore già col nome, e Wrong Skin di Marialuna Cipolla, under25 senza etichetta discografica vincitrice del concorso “Una Canzone per il Ragazzo Invisibile” – film che incassa i previsti Effetti Digitali della Visualogie). Tutto il resto va a Il Giovane Favoloso: Elio Germano ispirato miglior attore, terza vittoria, è il più importante premio davanti alla scenografia, ai costumi, al trucco e alle acconciature. I pochi premi rimanenti, sono per Edoardo Falcone regista esordiente di Se Dio Vuole, prevedibile dato il successo di pubblico e la candidatura per Giallini, che batte la Bispuri di Vergine Giurata e il Ciak d'Oro Bello&Invisibile N-Capace. Noi E La Giulia è il film scelto dai giovani e si porta a casa il David per l'attore non protagonista – che non è, come si poteva pensare, Claudio Amendola il comunistello che chiude i camorristi in cantina ma Carlo Buccirosso, il camorrista chiuso in cantina. Ovviamente il miglior film straniero è Birdman perché guai a non rispettare la decisione degli Oscar e il film europeo è La Teoria Del Tutto – ma il premio lo ritirano i distributori italiani. Miglior cortometraggio: Thriller, del pugliese Giuseppe Marco Albano, doppia storia di un padre con un figlio adolescente e della comunità di operai dell'ILVA di Taranto in difficoltà – sopra alle note di Michael Jackson. La cerimonia, in diretta su Rai Movie, è stata mandata in differita su Rai 1 alle undici circa perché «quello dei David non è uno show da prima serata», presentato ancora una volta da Tullio Solenghi, dopo il disastro delle scorse edizioni (Lillo & Greg fecero meno di due milioni di spettatori e Paolo Ruffini s'impelagò in una gaffe dopo l'altra arrivando a decretare Sophia Loren «bella topa»). Di seguito e dopo l'interruzione, tutti i candidati e i vincitori.

miglior film
Anime Nere di Francesco Munzi
Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Il Giovane Favoloso di Mario Martone
Mia Madre di Nanni Moretti
Torneranno I Prati di Ermanno Olmi

migliore regista
Francesco Munzi per Anime Nere
Saverio Costanzo per Hungry Hearts
Mario Martone per Il Giovane Favoloso
Nanni Moretti per Mia Madre
Ermanno Olmi per Torneranno I Prati

domenica 7 giugno 2015

horses.



Fury
id., 2015, USA/ Cina/ UK, 134 minuti
Regia: David Ayer
Sceneggiatura originale: David Ayer
Cast: Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña,
John Bernthal, Jim Parrack, Brad William Henke,
Kevin Vance, Xavier Samuel, Jason Isaacs, Scott Eastwood,
Anamaria Marinca, Alicia von Rittberg, Laurence Spellman
Voto: 7.7/ 10
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Sopravvissuto al deserto africano e alle spiagge della Normandia, Brad Pitt guida un pugnetto di soldati nella Germania del 1945 (ma il film è stato girato in Inghilterra): i carri armati americani sono i peggiori per avanguardia e Hitler si ostina imperterrito a ogni tipo di risposta armata. Gli americani invadono lo Stato europeo; ma in uno scontro a fuoco il battaglione perde il tiratore scelto. Viene mandato, in sostituzione, un certo Norman, dattilografo addestrato a scrivere sessanta parole al minuto. Logan Lerman che lo interpreta era già stato “quello sensibile” in Noi Siamo Infinito; qui, strappato alla sua normale banalità, viene messo di fronte ai tedeschi costretto a premere il grilletto – si rifiuta; già al primo giorno urla: «mi arrendo!», grida: «sparate a me piuttosto!». Don Pitt mischia il ruolo di Bastardi Senza Gloria a quello di The Tree Of Life togliendo al primo il mento in fuori e al secondo i figli e lo governa con paterna durezza, per il suo solito bene. Il ragazzo si domanda costantemente perché, perché proprio lui, perché la guerra – e quegli altri, nei loro sbalzi d'umore, gli rispondono quello che si rispondono per campare: ché se non ammazza, viene ammazzato. Niente patriottismo dunque, per una volta: ma pura autenticità. Anche perché David Ayer, regista pure di Training Days, è un ex marine; e da ex marine è interessato all'aspetto antropologico della guerra, all'analisi delle diverse reazioni dei soldati e delle diverse reazioni dello stesso, nello stesso giorno. Fedelissimo agli eventi storici non addolcisce nulla, a differenza del primo cinema americano: vediamo morti ammazzati, morti suicidi, gente che brucia, bambini impiccati. Tutto è reale: le 350 comparse sono attuali soldati inglesi o ex militari, il carro armato Fury è un M4A2E8 (76) W VHSS (…) proveniente dal museo inglese di Bobington, l'unico carro perfettamente funzionante del mondo e per la prima volta utilizzato in un film di finzione; i costumi si basano su quelli conservati negli archivi dei Paesi coinvolti nel conflitto e le armi sono le stesse utilizzate in Salvate Il Soldato Ryan, Band Of Brothers e The Pacific. Immersiva anche la performance degli attori: un periodo di addestramento iniziale culminante con il reale equipaggiamento del carro armato, e poi nei sessantatré giorni di riprese: docce vietate, nessuna razione completa di cibo e sonni sotto alle stelle – e alle eventuali piogge: per non uscire dal rigore dei personaggi. Brad, il più anziano della combriccola, si temeva non sopportasse i duri sforzi; poi arriva l'unica scena del film in cui si lava e vediamo che sotto alla divisa non nasconde massa grassa. Shia LaBeouf, al suo solito, era tutt'uno col personaggio: non solo si tagliava la faccia tutte le volte che il copione lo richiedeva e s'è davvero staccato un dente; interprete di un cattolico dalla ferrea memoria biblica, a contatto col cristiano Ayer e l'ex allievo religioso Pitt ha trovato sul set la fede, e s'è convertito al Cattolicesimo. La mistura religiosa incontra quesiti aulici a cui è la misera terra a rispondere: la guerra c'è e bisogna farla. Non è un caso che in un film bellico le scene di azione si contino sulle punte delle dita; la sequenza forse più tirata per le lunghe è quella di un'incursione in casa altrui, davanti a un piano e qualche uovo – e una ragazza, Emma, a cui è concessa la scena pietosa e la musica migliore della colonna sonora (di Steven Price, premio Oscar alla prima nomination per Gravity). Il regista non è interessato alle botte: ma quando ce le mostra costringe il povero montatore a diventare cieco epilettico, tagliando segmenti di un secondo e mettendoli uno dopo l'altro; anche questo esempio di fedeltà alla vicenda, ché ciò che siamo abituati a vedere, nitido e scandito, durare lunghi minuti in sala, nella realtà è questione di attimi e di sovrapposizioni di eventi. Infatti da cinque contro trecento diventano uno.

sabato 6 giugno 2015

ordine e progresso.



È Arrivata Mia Figlia!
Que Horas Ela Volta?, 2015, Brasile, 114 minuti
Regia: Anna Muylaert
Sceneggiatura originale: Anna Muylaert
Cast: Regina Casé, Antonio Abujamra, Helena Albergaria,
Karine Teles, Lourenço Mutarelli, Michel Joelsas,
Louis Miranda, Camila Márdila, Theo Werneck
Voto: 7.7/ 10
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Val lavora come domestica nella villa con piscina di un ereditiere e della sua compagna fashionista da quando il figlio di questi era un bambino che domandava: a che ora torna la mamma (titolo originale del film)? Adesso il ragazzo si sta preparando per gli esami d'ammissione all'università e a Val arriva notizia che pure sua figlia ha intenzione di prendere la laurea: in Architettura, e a San Paolo, dove lei vive e lavora. Si rincontreranno così dopo dieci anni, dieci anni di cui non abbiamo informazioni se non che Val ha sempre lavorato per provvedere al mantenimento della ragazza – nonostante ciò questa si sente figlia di qualcun altro, e paradossalmente il figlio dei padroni si fa abbracciare solo da Val, sempre per il concetto per cui genitore è chi ti cresce. Arrivata infine in città, Jessica, la figlia di Val, scopre di dover abitare dove quella spolvera rassetta e cucina: dichiarando che non si sente superiore agli altri, ma nemmeno inferiore, si comporta come un'ospite riverita e non come la figlia della serva. Alcuni prenderanno una boccata d'aria di cambiamento, altri scopriranno inesistenti ratti. Val, intanto, guarderà sua figlia come un'aliena: «certe cose non si insegnano: possibile che tu non sappia come comportarti in casa dei signori?». La regista Anna Muylaert, già a Berlino come sceneggiatrice de Il Giorno In Cui I Miei Genitori Andarono In Vacanza, ha dichiarato di vedere, nelle sue protagoniste, le parole della bandiera brasiliana: ordine e progresso. La madre, rispettosa e devota alla famiglia per cui lavora, e la figlia, incapace di distinguere le gerarchie o di farne parte. Ancora, la regista voleva sfatare il chliché dei bambini della servitù che sono destinati allo stesso futuro poco radioso: perciò mette nei piani di Jessica un mestiere nobile, l'Architettura, a cui lei guarda con sbigottimento dalle finestre dei grattacieli. Jessica rappresenta il cambiamento del Brasile stesso: un Paese che, dalla sua scoperta cinquecento anni fa, è sempre stato governato da persone ricche, fino all'ultimo presidente, un uomo umile che ha lavorato per le persone umili. Ci sono voluti vent'anni per portare a compimento la pellicola: l'idea era nata insieme a suo figlio, in un periodo in cui tutti avevano tate e domestiche; ma non si sentiva ancora pronta per affrontare il tema (che la ossessiona: «la madre è il nostro primo contatto con l'esterno, è il nostro primo contatto in tutto; ma il lavoro della madre non è valorizzato in Brasile né in altri Paesi del Sud America: una tata guadagna meno di cinquecento euro al mese». Ma finalmente si sposta dall'asse verticale della madre-potere a quello orizzontale dei fratelli in un film, già in fase di montaggio, dal titolo provvisorio Di Mamma Ce N'è Una Sola, sull'identità – anche di genere); c'è ritornata dopo tempo, con una prima versione ambientata a Rio e con un atto sessuale consumato non appena la ragazza arriva in casa del padrone: scena che le ha fatto pensare spesso a Teorema di Pasolini, a cui lei per prima paragona il suo film (effettivamente vicino: ma lontano anni luce). «Mi sembra di star facendo un film italiano» si diceva durante le riprese, poi alla prima romana gliel'hanno detto i giornalisti, e se n'è rallegrata. Invece il film è portoghese nell'osso: Regina Casé parla in un accento dell'est che non è quello dei suoi “padroni”, «quando il film finirà su internet, scaricatelo e guardatelo in lingua originale» ci dice, dato che la prima proiezione è stata doppiata. Nei vent'anni di preparazione, poi, la fede buddista le ha permesso di ponderare gli eccessi: non è un caso che per tutto il film ritorni sempre un servizio di tazzine (fatto costruire appositamente) in cui le nere si sposano con le bianche, fino a rappresentare un tema razziale sempre più eliminato dal copione. Premio Speciale della Giuria al Sundance per le interpretazioni femminili (straordinaria la Casé: riesce a far diventare commedia un film drammatico; più ordinaria Camila Márdila), Premio del Pubblico e Premio C.I.C.A.E. nella sezione Panorama di Berlino.

giovedì 4 giugno 2015

Ciak d'Oro - vincitori.



Sono stati consegnati i Ciak d'Oro 2015, i premi della rivista diretta da Piera Detassis giunta al trentesimo anno di vita e con festeggiamenti e ricnoscimenti aggiuntivi al solito. La cerimonia, che consacra i film usciti nelle sale tra l'1 maggio 2014 e il 30 aprile 2015, si è svolta per la prima volta a Roma, nei Cinecittà Studios. Un lettore fortunato, autore di una recensione selezionata dalla redazione, ha potuto partecipare al tappeto rosso e alla serata che ha visto trionfare prevedibilmente il campione d'incassi Giovane Favoloso con tre premi: film, attore protagonista (l'ispirato Elio Germano) e costumi (Ursula Patzak). Per le categorie maggiori, esclusi gli attori non protagonisti, era il pubblico a votare da casa: per le candidature tecniche, invece, un'apposita giuria. Film, regia e interpreti, quindi, non hanno nominations. Nanni Moretti porta a casa il trofeo personale per Mia Madre (vinse quasi tutto, anni fa, con Il Caimano) e quello alle sue interpreti; Margherita Buy, la protagonista, oltre al Premio Chopard per l'interpretazione femminile anche quello per il personaggio più influente degli ultimi trent'anni. Ciak ha infatti chiesto ai lettori di votare il personaggio cardine del cinema italiano degli ultimi tre decenni; oltre alla Buy ha vinto Paolo Sorrentino (non in gara perché Youth uscito troppo tardi), ai quali la redazione ha aggiunto il fortunato e longevo Fulvio Lucisano. Tre premi anche per Torneranno I Prati di Olmi, la migliore produzione, la colonna sonora di Paolo Fresu e la fotografia di Fabio Olmi; due per Noi E La Giulia: rivelazione dell'anno e Claudio Amendola miglior attore non protagonista. A Le Meraviglie, pluricandidato e in ultima chance per aggiudicarsi qualcosa dati i nomi dei David, va solo il premio per il miglior manifesto.  Ciak Alice Giovani (nato in collaborazione con la sezione indipendente Alice Nella Città del Festival di Roma) premia Il Ragazzo Invisibile di Salvatores, che avrebbe meritato anche la canzone originale nata da un contest online. Per la prima volta, e in occasione dei trent'anni, viene premiato un serial: l'osannato Gomorra. Superciak d'Oro alla prolifica stagione di Alessandro Gassmann mentre riconoscimento alla carriera per Paolo & Vittorio Taviani a mani vuote con Maraviglioso Boccaccio. Il film più celebrato dell'anno, Anime Nere di Munzi, si deve accontentare del sonoro in presa diretta e del miglior montaggio. I premi alle piccole cose: N-Capace della performer e autrice Eleonora Danco, Ciak Bello & Invisibile; miglior opera prima Short Skin di Duccio Chiarini – a discapito della Vergine Giurata di Laura Bispuri, per cui non viene neanche presa in considerazione la povera Alba Rohrwacher. Di seguito e dopo l'interruzione tutti i vincitori e i rispettivi candidati, ove vi fossero.

film
Il Giovane Favoloso di Mario Martone

regia
Nanni Moretti per Mia Madre

attore protagonista
Elio Germano ne Il Giovane Favoloso

attrice protagonista
Margherita Buy in Mia Madre

mercoledì 3 giugno 2015

legalize freedom.



Louisiana
(The Other Side)
The Other Side, 2015, Francia/ Italia, 92 minuti
Regia: Roberto Minervini
Sceneggiatura: Roberto Minervini & Denise Ping Lee
Cast: Mark Kelley, Lisa Allen, James Lee Miller
Voto: 7.8/ 10
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Roberto Minervini nasce a Fermo nel 1970. Laurea in Economia e Commercio ad Ancona, dottorato in Storia del Cinema a Madrid, master in Media Studies a New York. Ha insegnato regia, sceneggiatura e realizzazione di documentari nelle Filippine. Dopo la trilogia sul Texas di cui in molti conoscono Stop The Pounding Heart, fuori concorso nella selezione ufficiale di Cannes 2013, torna in Francia nel più visibile Un Certain Regard con Louisiana (The Other Side), reduce dal David di Donatello al miglior documentario e il Premio Speciale della Giuria al Festival di Torino. La Louisiana, dice Minervini, è il secondo stato più povero degli USA dopo il Mississipi, la disoccupazione raggiunge il 60% della popolazione locale, e lui lo racconta attraverso tossici, paramilitari antigovernativi, uomini braccati dalla polizia, disperati, guerrafondai, soldati che vivono con la speranza di difendere le famiglie dalla legge marziale imposta dell'ONU. L'ora e mezzo parte con la fine: uomini che giocano a fare la guerra dove non c'è, nei boschi che circondano le loro case prefabbricate, armati fino al collo, patriottici ma non verso Obama; poi c'è Mark, nudo, che si sveglia sul ciglio della strada e torna a casa dalla compagna Lisa: le loro giornate nella roulotte passano tra una dose e l'altra di qualsiasi droga, una capatina al bar, dalla madre malata, dalla nonna dipendente dallo Xanax, in uno strip-club dove la spogliarellista incinta si è appena bucata. «Finché mia madre non morirà, mi farò una dose tutti i giorni» dice Mark: «sto soffrendo troppo, e tengo tutto dentro». In effetti non c'è spazio per chissà quale dialogo, per quale scambio di informazioni: la droga è un riempitivo in una vita piatta e monotona priva di musica come il documentario intero – priva di amici, parrebbe, di pomeriggi insieme. Qualche smanceria detta ripetutamente ma ad un certo punto non sappiamo più a cosa credere, cosa sia genuino e cosa sia effetto dello stupefacente. Dopo un'ora, ritorniamo sugli animali umani selvatici che strisciano nell'erba. Festeggiano in spiaggia, si ubriacano, fingono sesso orale col mascherone del presidente e incendiano macchine dopo averle usate come bersaglio per l'addestramento militare. La loro è una vita ribaltata: esaltata senza l'aiuto di sostanze, per giustificare semplicemente lo scorrere dei giorni. Minervini è arrivato a scoprire questo other side dello Stato attraverso i racconti del fratello di Lisa del film precedente e si è ritrovato a girare rinchiuso in roulotte con gente drogata di metanfetamina per via endovenosa – quindi particolarmente aggressiva – e con la troupe munita di pistole cariche. Eppure il folgorante realismo del documentario viene mascherato da una messa in scena quasi patinata, comunque attenta e meticolosa. «Solo perché fai un documentario non vuol dire che tu debba essere sciatto» dichiara a Cannes, dove due dei suoi interpreti non sono potuti andare perché pregiudicati, dopo aver chiesto se alla proiezione ci siano stati dei fischi. «Io lavoro con macchinari pesanti, faccio scelte estetiche, manipolo la profondità di campo. Il documentarista che più amo, Allan King, passava mesi e mesi con i suoi protagonisti». Nei film sembra che ci sia sempre qualcosa di precostituito «invece è tutto frutto di osservazione documentaristica». In Louisiana vediamo atti sessuali, iniezioni di droga per mammelle, scene che ad altri sarebbe stato impossibile filmare. «A volte sono le stesse persone a chiedermi di farlo» continua Minervini; «magari c'è dell'esibizionismo, l'effetto della droga, ma di certo vogliono apparire come esseri sessuali attivi e vivi. Sono persone magari con una condanna pendente, un marito latitante; la possibilità di essere ritratti, avere il beneficio del dubbio, li umanizza. Queste persone si sentono abbandonate dalla politica e qualcuno li deve riprendere per quello che sono. Io ho voluto trovare nel cinema il lavoro del fotoreporter di guerra».

il branco.



The Tribe
Plemya, 2014, Ucraina/ Paesi Bassi, 132 minuti
Regia: Miroslav Slaboshpitsky
Sceneggiatura originale: Miroslav Slaboshpitsky
Cast: Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy,
Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko,
Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov, Alexander Panivan
Voto: 8.8/ 10
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Dimenticate i genitori di Paula ne La Famiglia Bélier: prima che il film cominci veniamo avvisati: non ci saranno sottotiotli, né voice-over. Ma alla prima sequenza non ci accorgiamo dello scarto: i personaggi sono fermi a una pensilina e il traffico della strada copre ogni parola pronunciata. In quella successiva, ancora: un vetro ci separa da una cerimonia di inaugurazione, probabilmente, mentre un ragazzo e la sua valigia iniziano la permanenza in quel centro scolastico dove anche noi, adesso, ci rinchiuderemo. Dopodiché tutti, insegnanti, bidelli, alunni, tutti senza nome, parleranno il linguaggio dei segni, sordomuti per una volta non alienati nel contesto sociale, fatto di suoni e rumori, ma alienanti noi spettatori – abituati al cinema con una traccia sonora, un cinema fatto per essere sentito, oltre che visto, e invece veniamo catapultati nel silenzio (non totale) e soprattutto nell'impossibilità di decodificare i discorsi – a meno che non siamo padroni dei gesti – ma anche in quel caso l'interpretazione non sarebbe semplice: perché i segni cambiano da Paese a Paese e poi perché in certe inquadrature notturne, in certi campi troppo stretti o troppo ampi, neanche un sordomuto riuscirebbe a intravedere i movimenti. L'intento del regista Miroslav Slaboshpitsky (folgorante esordiente dietro la macchina da presa che sa tenere ferma con mano esperta, e mobile in pianisequenza interminabili e ben costruiti) non è quello di raccontare la condizione patetica dell'handicappato, quanto quello di scavare ancora più a fondo nella categoria, mostrando una tribù elitaria, una gang che ha bisogno di un leader, un branco. I ragazzi del centro educativo sono composti e impettiti davanti alle autorità la mattina, chi più chi meno come tutti gli studenti latentemente ribelli, e la sera si trasformano in papponi, magnacci, prostitute, teppistelli, ladruncoli senza neanche troppi vezzeggiativi: sono disposti a massacrare di botte il primo passante di portafogli munito per racimolare il tanto bramato denaro, e poi a massacrarsi fra loro, per vendicarsi di uno sgarro e dimostrare chi è il più forte che merita il comando. La poca credibilità delle prime scene di sesso o di mazzate viene annientata dalla crudezza estrema e lentamente perpetrata a cui siamo costretti mentre una ragazza abortisce clandestinamente da una mammana o un altro compie un piccolo genocidio. Abbandonato per sempre l'alone di pietà che circondava il disabile al cinema, la compassione per Forrest Gump, la sofferenza dell'esclusione di The Elephant ManThe Tribe si avvicina più a un altro Elephant, quello di Van Sant. Dice il regista: «è un mio vecchio sogno quello di rendere omaggio al cinema muto, fare un film che possa essere compreso senza che venga detta una parola. Non pensavo però a un certo tipo di cinema europeo “esistenzialista” in cui gli eroi stanno zitti per metà della durata del film. Anche perché gli attori non erano muti nei film muti. Comunicavano molto attivamente attraverso un'ampia gamma di azioni e di linguaggio corporeo». Infatti noi capiamo tutto: sentiamo anche tutto, tipo il camion che, avanzando, sta per investire uno dei nostri – ma poco importa. Tornati allo stato brado, allo stadio primitivo di Figlio Di Nessuno, il linguaggio anche gestuale non è importante: non è importante parlare o spiegarsi: è l'atto, animalesco, che si spiega da solo – in una tribù che di questo è fatto: legge ancestrale. E che in quanto tale si compie.

canzoni sui culi.



Pitch Perfect 2
id., USA, 2015, 115 minuti
Regia: Elizabeth Banks
Sceneggiatura originale: Kay Cannon
Basata sui personaggi di Mickey Rapkin
Cast: Anna Kendrick, Rebel Wilson, Brittany Snow,
Skylar Astin, Adam DeVine, Katey Sagal, Anna Camp,
Hailee Steinfeld, Elizabeth Banks, John Michael Higgins,
Ben Platt, Alexis Knapp, Hana Mae Lee, Ester Dean,
Chrissie Fit, Brigitte Hjort Sørensen, Flula Borg
Voto: 6.8/ 10
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Vinti tre campionati di fila, perduta Anna Camp (che ha ripetutamente sfiorato la morte in True Blood) e quindi giunte all'anno della laurea, le Barden Bellas cantano nientemeno che al Lincoln Center di New York in occasione del compleanno di Obama, presente con la moglie, in un numero tutto paillettes e patriottismo: scende, retta da approssimative lenzuola, la pietra miliare Rebel Wilson, “Ciccia Amy”, causa (anche) della fortuna del primo film, diventato uno sleeper hit subito sotto a School Of Rock negli incassi delle commedie musicali della storia. Succede però che il vestito, in una spaccata aerea, le si strappa dove non dovrebbe, e ruotando lentamente su se stessa mostra al pubblico – e alle telecamere – che non ha le mutande addosso; commentano la cosa, come sempre, in web-radio e podcast, Elizabeth Banks e John Michael Higgins, onnipresenti detentori delle più riuscite frecciatine della sceneggiatura (misogine, razziste, promiscue). L'incidente, rimbalzato da (reali) giornali e telegiornali, porta le Bellas ad essere convocate per l'annuncio che il gruppo canoro a cappella non potrà più partecipare a nessuna competizione, né all'apertura di eventi, né potrà reclutare nuove provinanti. Nonostante ciò, s'inserisce Hailee Steinfeld, figlia di una ex leader del club, con poca prontezza di spirito ma una canzone originale nel cassetto a cui deve apportare qualche modifica – e che propinerà in ogni occasione possibile. La scommessa-compromesso è: se le Bellas riuscissero a portare all'università di Barden l'insperato trofeo dei Campionati Mondiali, potranno riprendere a cantare agonisticamente? Tutti ridono: perché i cantanti americani sono odiati da tutto il mondo e perché i front-runner alla competition danese sono i Das Sound Machine tedeschi. Praticamente siamo di fronte all'Eurovision, se non che la parola “canzone-originale” è severamente proibita: la lotta è nel conoscere e riarrangiare qualsiasi brano musicale del passato e del presente in qualunque evenienza. Anna Kendrick questa volta – meno protagonista rispetto al film precedente – nutre dubbi. Sulla propria eterosessualità, a singhiozzi, e sul suo futuro, notando che nessun'altra si domanda cosa farà dopo la laurea, o se si laureerà mai. Della sua relazione con Skylar Astin vediamo, grazie a Dio, solo qualche bacetto: tutto quello che c'è stato in mezzo, fra quel film e questo, non c'è dato saperlo. Niente romanticismi, qualche scena di patetismo obbligato sulla solidità dell'amicizia, e una raffica di battute, non tutte riuscitissime, ma alcune davvero coraggiose per un film di puro intrattenimento che riesce alla grande nel suo scopo: intrattenere. La Banks, finora produttrice della mini-saga, si cimenta con la regia dopo il disastroso esito di Comic Movie, il «Quarto Potere dell'orrido», in cui aveva diretto uno dei tredici episodi del collettivo, e ricalca le tipiche scene da film generazionale contemporaneo, feste in casa coi bicchieri larghi, cene romantiche in cui neanche si comincia a mangiare, tentativi di avere un'idea alla scrivania senza successo, esattamente nel modo in cui ce l'aspettiamo. Allo stesso modo la sceneggiatura, americana nell'osso e con meno spazio alla demenzialità e alle situazioni awkward (come dimenticare la Camp che vomita di due anni fa?), fa quello che ci si aspetta per un sequel: reclutare gente nuova, alzare l'asta dell'ostacolo dagli Stati Uniti al mondo, far diventare adulti i propri personaggi. Le canzoni coreografate appena – che, in fondo, a cappella non sono cantate – coronano il pacchetto entertainment. Colonna sonora al primo posto della Billboard alla prima settimana con 92.000 copie vendute e 150 milioni di dollari di incasso per diventare, questa volta sopra School Of Rock, il comedy musical più di successo della storia. Terzo episodio? Al momento solo la Wilson ha annuito per cui ci si chiede se non sarà uno spin-off su “Fat” Amy.