domenica 29 dicembre 2013
il film cambogiano.
L'immagine Mancante
L'image Manquante, 2013, Cambogia/ Francia, 92 minuti
Regia: Rithy Panh
Sceneggiatura: Christophe Bataille & Rithy Panh
Narratore: Randal Douc
Voto: 6.9/ 10
_______________
17 aprile 1975, Phnom Penh: i Khmer Rossi, le truppe di Pol Pot, marciano sulla città cambogiana per diffondere e instaurare il socialismo reale, che dai politici viene decantato come liberazione del popolo e per le strade risulta atto di forza violenta, prigionia, lavoro forzato e deportazione degli abitanti. Rithy Panh quel giorno ha nove anni, la sua carriera di documentarista è ancora lontana, e insieme alla sua famiglia sarà trascinato nelle lagune a lavorare la terra, nelle risaie, tra le baracche con letti in legno a subire qualsiasi tipo di sopruso. Perderà tutti, i molti fratelli, la madre e il padre, insegnante, che si lascerà morire non accettando la perdita della dignità. Come loro, morirà là dentro, in tre anni, quasi un terzo dell'intera popolazione cambogiana.
Del genocidio cambogiano non si parla(va) come non si parla(va) di quello indonesiano che Joshua Oppenheimer ci ha raccontato ne L'atto Di Uccidere. Il problema de L'image Manquante è proprio l'essere uscito nello stesso anno di quell'osannato piccolo capolavoro, che fa parlare i cattivi in prima persona spostando l'attenzione non sui morti ma sui carnefici. Ma Oppenheimer non c'era, né ha vissuto direttamente quei fatti; Panh invece ha subito in prima persona la tragedia del lavoro forzato, della distruzione della sua città e della famiglia, e il tono del narratore è fortemente personale, straziante e straziato. “L'immagine mancante” è proprio quella dell'evento: che non è documentato e non utilizza quasi (mai) immagini di repertorio (come faceva anche la pellicola inglese). È, anche, l'immagine di un popolo che non c'è più, che nel '79 dovrà rinascere dalle proprie ceneri. Dice il regista: «ci sono così tante immagini nel mondo che crediamo di aver visto tutto. Pensato tutto. Da anni, cerco un'immagine mancante. Una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai Khmer Rossi, quando governavano la Cambogia. Da sola, ovviamente, una foto non prova i crimini di massa, ma porta a pensare, a meditare. A costruire la Storia. L'ho cercata invano negli archivi, nei giornali, nelle campagne del mio paese. Ora lo so: questa immagine manca; e non la cercavo – non sarebbe oscena e senza senso? Allora la creo io. Quello che oggi vi offro non è un'immagine, o la ricerca di una sola immagine, ma l'immagine di una ricerca, quella che consente il cinema. Alcune immagini dovrebbero sempre mancare, sempre essere rimpiazzate da altre: in questo movimento c'è la vita, la lotta, il dolore e la bellezza, la tristezza dei volti perduti, la comprensione di ciò che è stato, a volte la nobiltà, e anche il coraggio: ma l'oblio, mai».
L'immagine che Panh ricrea è fatta della stessa terra che l'ha inghiottito, terra rossa da cui si ricava il materiale argilloso con cui vengono costruite le bamboline (come vediamo nella prima sequenza) antropomorfe e dipinte, che saranno le vere protagoniste del film, attori di una serie (infinita) di presepi viventi, ricostruzioni kitch fedeli ed essenziali, tappe della via crucis – scrive Marzia Gandolfi – della passione di questo popolo. Una volta finito l'incanto, però, sebbene la quantità illimitata di bamboline ricostruite, e la quantità di scenari statici, la pellicola, soprattutto per la sua sceneggiatura, si accascia e inizia a rotolare su se stessa, ripetendo ciò che è già stato ripetuto, raccontandoci ciò che abbiamo già visto. Rithy Panh aveva raccontato questa stessa storia in un lungometraggio di finzione del 1994, Rice People, su una famiglia costretta all'oppressione, ma passa oggi al documentario per rafforzare la sua denuncia. Sia il film del '94 che questo sono stati inviati all'Academy in rappresentanza della Cambogia. Nessun Oscar per questo Paese che solo due volte ci ha provato – questa è la terza; e questa volta è entrato nella shortlist semifinale, con un film che si presenta vincitore dell'Un Certain Regard di Cannes ed è stato preferito, a sorpresa, a pellicole come La Bicicletta Verde, che rappresentava un'altra rivoluzione. Forse ancora più grande.
classifiche/ 1.
12 Anni Schiavo continua la sua scalata verso l'ovazione mondiale mentre da noi si scatena il putiferio per i manifesti accusati di razzismo distribuiti (e ritirati) dalla BiM. La terza pellicola di Steve McQueen, dopo il capolavoro elogiato solo dalla critica Hunger e il capolavoro elogiato solo dal pubblico Shame, mette tutti d'accordo (ma sarà in Italia solo il 20 febbraio) e sia Indiwire – grassa rivista originariamente di cinema indipendente americano (qui il sito) nata nel '96 e vincitrice nel 2012 del premio al miglior sito cinematografico – sia la Southeastern Film Critics Association – associazione composta da più di quaranta critici, qui i premi – lo mettono al primo posto nella classifica del meglio dell'anno. Se poi la seconda si mantiene “classica” con i film dei Coen, di Scorsese, di Frears, di Russell, di Jonze e ovviamente di Cuarón, Indiewire, come da titolo, allarga i propri orizzonti (l'elenco conta 25 film) e inserisce Before Midnight di cui è innamorata al terzo posto e al primo per la sceneggiatura; altra freccia al cuore è quella per Frances Ha, forse la più grande sorpresa dell'anno: decimo miglior film, quinta migliore attrice, quinta migliore sceneggiatura. Compaiono poi dei ricordi del Natale passato (Qualcuno Da Amare, To The Wonder, Oltre Le Colline), qualche documentario (imbattibile L'atto Di Uccidere, ma attenzione a Leviathan immediatamente dopo e Stories We Tell) e poi La Grande Bellezza al quattordicesimo posto, che comparirà, nelle classifiche dei prossimi giorni, a piani ancora più alti. Alfonso Cuarón se la deve vedere con l'epopea antirazziale “evento dell'anno” sebbene Gravity ci sia piaciuto molto, moltissimo; avrà strada facile ai prossimi Oscar solo dove il film di McQueen non ha soldati in campo: effetti visivi, fotografia. L'ipotesi che Jennifer Lawrence faccia effettivamente una doppietta non è da scartare, ché l'Academy ama sorprenderci in questo senso; speriamo non ci sorprenda premiando Il Sospetto come miglior film straniero. A piani sempre troppo bassi (se non del tutto ignorati) sono i due film più amari e meglio fatti di quest'anno: A Proposito Di Davis e Nebraska.
Di seguito, dopo l'interruzione, le classifiche per intero.
Etichette:
12 Years A Slave,
Alfonso Cuaron,
Before Midnight,
Frances Ha,
Gravity,
Il Sospetto,
Inside Llewyn Davis,
Jennifer Lawrence,
La Grande Bellezza,
Nebraska,
Steve McQueen,
The Act Of Killing
giovedì 26 dicembre 2013
corri Walter.
I Sogni Segreti Di Walter Mitty
The Secret Life Of Walter Mitty, 2013, USA, 114 minuti
Regia: Ben Stiller
Sceneggiatura non originale: Steve Conrad
Basata sulla storia di James Thurber
Cast: Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott,
Kathryn Hahn, Shirley MacLaine, Adrian Martinez
Voto: 4.2/ 10
_______________
È la vita, ad essere segreta, nel titolo originale, e non i sogni nostrani; una vita non meglio identificata se non con un lavoro nello sviluppo negativi del magazine Life e una famiglia ridotta a mamma non demente e sorella apparentemente demente. La vita segreta era la stessa del Walter Mitty del 1947, che pure in italiano era diventata onirica chiamandosi Sogni Segreti (di Norman Z. McLeod, regista dei fratelli Marx) – però qui è resa moderna: dalla chiusura del giornale che come tutti i giornali si ritrova a uscire soltanto in digitale, online, e dalla presenza di Instagram sugli smartphone dei pescatori islandesi, dei social-network per quarantenni single che si mandano gli occhiolini, dai voli last minute a cui si accede senza che noi ce ne accorgiamo. Entrambi i due Walter, di quel film e di questo, sono silenziosi e impacciati e sognano che la propria esistenza possa subire mutazioni catastrofiche in cui la scampano da eroi: si lanciano nei palazzi a salvare i gattini, scalano le montagne per raccontare poesie alle donne. In realtà questo Walter, quello che Ben Stiller interpreta e dirige, non ha nessuno spessore psicologico: non è effettivamente impacciato, non lo è sempre, si trova a suo agio in famiglia e col collega più stretto e poi in società si fa mettere i piedi in testa dal capo – ma quanti lo fanno, e non hanno un film apposito? Conduce una vita che supponiamo piatta e allora, siccome non trova un negativo che dovrebbe essere in una bobina, parte all'avventura inseguendo il celeberrimo fotografo autore dello scatto come se un solo negativo di tutta la bobina potesse viaggiare di vita propria, o come se un fotografo incontattabile telefonicamente potesse fornire, dai pellegrinaggi in cui si trova, una copia dell'immagine. E così il giornale – che, ricordiamo, sta chiudendo – come se niente fosse lo lascia andare in Groenlandia, in Islanda, nell'Afganistan del nord mentre i giorni passano e la copertina non va in stampa, senza che lui riceva nemmeno un richiamo dalla direzione; lo chiamerà solo il tizio del social network senza pagare tariffa internazionale né trovare mai la rete debole. Tra gli spostamenti, i dialoghi, la successione degli eventi che non rispettano un'unita di tempo né possono effettivamente svolgersi in così pochi giorni, il film è inaccettabile. Succedono cose di una surrealtà estrema, che nemmeno si sforzano di far domandare allo spettatore: ma è vero o se lo sta immaginando? Ciò che Walter immagina, in realtà, si riduce ai primi minuti del film; per il resto è tutto irrealmente vero alla ricerca di un uomo a partire da due foto intraducibili e quattro parole arabe. Lo sceneggiatore Steve Conrad, che ha lavorato col nostro Muccino a La Ricerca Della Felicità, non si è neanche sforzato di rendere il lavoro semiotico un po' più articolato, e ha ricondotto tutto alla figura materna, una Shirley MacLaine neppure psicologicamente credibile, che non si sa bene cosa fa. L'unico personaggio riuscito è la sorella Odessa (Kathryn Hahn), artistoide divisa tra yoga e teatro, mentre il nuovo capo cattivo giunto a licenziare tutti (a cui si fa la paternale finale perché non ha un'anima né sa lo slogan del giornale) è il più grande cliché che il cinema di quest'anno abbia concepito, contro il quale dovrebbe schiantarsi il cast di Tra Le Nuvole. Salviamo anche Kristen Wiig, sceneggiatrice de Le Amiche Della Sposa, che è tanto cara ma poverella dice le cose più sceme di tutti.
Gli effetti speciali eccessivi e i grandi panorami esotici completano il pacchetto da film “proprio bello” di cui il popolo parla all'uscita della sala, senza cogliere il riferimento a Forrest Gump nel «corri a prendere la bici!» né l'allegoria della fotografia non scattata da Sean Penn – invito a vivere l'attimo intensamente e per se stessi, film con tanto di ultima scena patetica e penultima scena a cui una mente leggermente evoluta arriva al minuto cinque e terzultima scena più patetica ancora della successiva. Uno spreco di soldi inumano, che forse finge di essere nostalgico verso i tempi andati (nella carrellata laterale con le copertine di Life di sfondo) e invece usa anche quelle immagini per rendere una sequenza spettacolare.
mercoledì 25 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
il figlio perduto di Philomena Lee.
Philomena
id., 2013, UK/ USA/ Francia, 98 minuti
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura non originale: Steve Coogan & Jeff Pope
Basata sul romanzo Philomena di Martin Sixsmith (Piemme)
Cast: Judi Dench, Steve Coogan, Sophie Kennedy Clark,
Mare Winningham, Barbara Jefford, Ruth McCabe, Peter Hermann
Voto: 8/ 10
_______________
Già nel 2002 un film che si chiamava Magdalene raccontò la storia delle case religiose di accoglienza che all'epoca erano state appena chiuse (l'ultima risale al 1996) a causa dell'eccessivo fanatismo con cui educavano le ragazze “perse”: niente calmanti al momento del parto perché è Dio che vuole sofferenza. A questa sorte, anzi a sorte ancor più dolorosa perché il bambino le nasce podalico, e cioè coi piedi in avanti, è destinata la giovane Philomena Lee, sedotta a una fiera con mela caramellata e morsa in ricordo del peccato originale e poi abbandonata dai genitori nel convento di Roscrea per essere rimessa in riga. Sette giorni a settimana di lavoro in lavanderia e un'ora al giorno per vedere il figlioletto, tenuto insieme agli altri nella stanza delle adozioni. Costretta a quel luogo perché incapace di racimolare cento sterline e soprattutto isolata e senza un altro luogo da raggiungere, Philomena resta lì a scontare la sua pena intera, vedendo, tre anni dopo la nascita, il piccoletto preso e portato via da una famiglia americana. Tace su questa storia per cinquant'anni, anche ora che ha una figlia adulta e si è rifatta una vita. Ma l'immagine del bambino la perseguita e deciderà di mettersi sui suoi passi incontrando un giornalista che non lavora più in BBC e per un pettegolezzo più pesante degli altri si ritrova a non scrivere più di Storia Russa ma di Vita Vissuta.
La dame Judi Dench si abbassa a interpretare una semplice vecchia del popolo rimanendo però elegante e austera; incarna la contraddizione del cattolicesimo radicato nella formazione e dell'esperienza trentennale di infermiera grazie alla quale conosce la «bi-curiosità» e la morte di AIDS. Legge romanzetti rosa, si esalta nel raccontarne le trame, ride alle battute sbagliate e trova gentilezza e unicità in tutto. La sua – chiamiamola così – pacata ignoranza si sposa perfettamente con un passato di sofferenza e rimorsi che adesso la portano ad essere silenziosa (sulla sua vita) e algida, ma non rassegnata nel prossimo né malvagia verso gli altri: anzi. La Dench ha dipinto un ruolo femminile immenso, straordinario, senza sbavature, con degli abiti che completano la confezione impeccabile. Splende ancora di più di fianco al ben più scontato Steve Coogan, anche sceneggiatore della pellicola, irruento, irascibile, uno che rimpiange il non essere più in cima, perennemente arrabbiato, che guarda Philomena con occhio critico e poi si beccherà la lezione. È storia vera: nel 2009 Martin Sixsmith pubblicò Il Figlio Perduto Di Philomena Lee (in Italia Philomena, Piemme, 460 pagine, € 18,50) che racconta nel dettaglio la vicenda.
Il film viaggia su tre binari: quello della cattiva religione cieca e che acceca, che rende pecore tutte le anime al di sotto del pastore, costrette all'espiazione della colpa e inermi davanti all'autorità; poi il cattivo giornalismo, o meglio il giornalismo cinico e mirato alla vendita, alla pubblicazione, che strumentalizza le vicende per renderle più fruttuose e guadagnare un viaggio in prima classe; e la politica americana e la contraddizione per un omosessuale di servire un presidente che taglia i fondi alle cure di HIV nella piena ondata degli anni '80. Sul primo fronte: niente di nuovo, le suore con la bacchetta le abbiamo viste anche nei film con Virna Lisi su Canale 5 – ma questa volta il pensiero scava più a fondo, si fa esistenzialista e la risposta alla domanda «perché hai tenuto nascosto mio figlio mentre era sul punto di morte?» non convince né noi né il Signore; sul secondo fronte: niente di nuovo, il dimenticato film su Glass ci ha dimostrato come si possano inventare articoli interi per vendere copie di un giornale; sul terzo fronte, c'è un po' di novità – soprattutto perché si sfiora il tema della politica americana, dell'omosessualità e della malattia senza prendere una posizione né dare giudizio. Certo per Stephen Frears è facile: lui è inglese. E si sente la nostalgia di un suo film d'esordio, My Beautiful Laundrette – ma non fatemi parlare della filmografia di Frears sennò cadiamo nell'inspiegabile esistenza cinematografica di Tamara Drew.
sabato 21 dicembre 2013
Oscar 2014 - colonna sonora.
Compare tre volte Hans Zimmer (L'uomo D'acciaio, Rush, ma soprattutto 12 Anni Schiavo, con cui ha la quasi-certezza di ricevere la decima nomination – ha vinto un Oscar per Il Re Leone), una sola volta il pluri-premiato (5 Oscar) ma soprattutto pluri-candidato (ha raggiunto le cinquanta volte) John Williams, autore della musica di Storia Di Una Ladra Di Libri e due volte Thomas Newman (Saving Mr. Banks, Effetti Collaterali), candidato già undici volte e mai vincitore. Stiamo parlando della shortlist (short mica tanto: sono più di cento) rilasciata dall'Academy per la candidatura (ufficiale il 16 gennaio) all'Oscar per la migliore colonna sonora originale, l'insieme delle musiche e dei brani ri-cantati e/o ri-arrangiati e/o scritti appositamente per la pellicola. Questi film passano il turno: qualche documentario (incluso il quasi-candidato al film straniero L'image Manquante), molti film d'animazione (tra cui il francese Ernest & Celestine e il giapponese Si Alza Il Vento, in lizza anche per la nomination al lungometraggio animato) e ben due film su Mandela: Mandela: Long Walk To Freedom, già candidato a troppi Golden Globes e Winnie Mandela, film originario del 2011 con Terrence Howard e Jennifer Hudson. Ma l'occhio cade sulla cerchia dei film super-favoriti che, oltre a 12 Anni Schiavo, potrebbero fare incetta di candidature grazie anche a questa categoria: Captain Phillips, Her, Philomena, Lo Hobbit, gli indipendenti Short Term 12, Fruitvale Station e The Spectacular Now ma soprattutto Gravity, con le musiche magistrali di Steven Price.
Di seguito, le 114 colonne sonore rimaste in gara per la nomination.
l'amore in un clima freddo.
Frozen - Il Regno Di Ghiaccio
Frozen, 2013, USA, 102 minuti
Regia: Chris Buck & Jennifer Lee
Sceneggiatura non originale: Jennifer Lee, Chris Buck e Shane Morris
Basata su La Regina Della Neve di Hans Christian Andersen
Voci originali: Kristen Bell, Idina Menzel, Jonathan Groff,
Josh Gad, Santino Fontana, Alan Tudyk
Voci italiane: Serena Rossi, Serena Autieri, Paolo De Santis,
Enrico Brignano, Giuseppe Russo, Christian Iansante
Voto: 8.6/ 10
_______________
C'erano una volta Kay e Gerda, un bambino e una bambina vicini di casa che coltivavano affetto e rose; succede che a Kay cade nell'occhio una scheggia dello specchio maligno forgiato da sette diavoli che rende cieco di rabbia chiunque ne venga in contatto, e la Regina della Neve scende a valle e a bordo della sua slitta rapisce e porta il ragazzino nel suo palazzo di ghiaccio. Gerda, devota amica sentimentale, si mette in viaggio e raggiunge la montagna dove la rocca innevata sorge – e nel tragitto s'imbatte in corvi, briganti, donne di Lapponia, vecchie giardinaie incantatrici. Solo il vero amore potrà sciogliere il vetro nell'occhio di Kay, incatenato e costretto ogni giorno allo stesso gioco. Alla Disney, però, quel vero amore di Hans Christian Andersen (che infilano nella storia attraverso il nome di un personaggio) non piace – forse troppo banale, e rigirano la vicenda a triste saga familiare: Anna ed Elsa sono sorelle unite nei giochi notturni nelle sale del castello, grazie ai poteri di Elsa che sa far nevicare e crescere il ghiaccio a comando. L'irruenza però, si sa, porta i bambini a farsi male, e la famiglia reale porta le bambine dai troll che prevedono oscuri futuri e cancellano la memoria alla pargola malata. Anna così scoprirà dei poteri della sorella molti anni dopo, quando lei si costringerà all'esilio facendo piombare il freddo e l'inverno su tutti i paesi...
Rinunciando a Kay, la Disney ci offre il miglior personaggio femminile di sempre: impacciata, ironica, ben doppiata, Anna è la protagonista assoluta della vicenda e oscura il molto meno riuscito Olaf, che fa qualche battuta simpatica solo ai bambini ed ha la forma e la voce del tipico merchandising. Molto meglio Kristoff, modellato sul volto (ma non sul corpo) di Jonathan Groff, che con Idina Menzel lascia Glee per cantare in questo film d'animazione che rimpiange i tempi andati. Già dalla prima scena, infatti, si sente l'eco e il profumo de La Bella E La Bestia, sentimento che crescerà nella prigionia del personaggio “freak” e di colei che vorrebbe liberarlo. Per una volta infatti non è il protagonista ad essere “diverso”, anzi: Anna e Kristoff si dicono «comuni», ma «nel senso buono». Sono entrambi però, il comune e il diverso, vittime della società, distaccate da essa: Anna ingenua dà lezione alle adolescenti che il vero amore non si trova in un giorno. Elsa invece ci insegna che i Walt Disney Animation Studios hanno raggiunto vette inaffrontabili: il vestito di lei, il castello di ghiaccio, le tempeste di neve, l'acqua, le lentiggini – persino i movimenti di macchina sono spettacolari. Non c'è una scena di troppo, anzi: soprattutto all'inizio il montaggio scorre frizzante raccontando “le puntate precedenti” facendoci ricordare di Brave: se alla Pixar è venuta molto male la storia dell'unica eroina femmina, la Disney ce l'ha nel sangue, e con Belle e Mulan ha segnato la storia. Il film però ha molte canzoni, che rendono ostica la visione ai non amanti del genere; soprattutto perché sono di stampo broadway (si pensi all'esibizione di Josh Gad/ Olaf): si racconta solfeggiando. Let It Go è la canzone di punta, interpretata nei nostri titoli di coda dalla disneyana Violetta. Ci interessano di più i titoli di testa, e il bel corto d'apertura Tutti In Scena, occhietto alla casa di produzione sorella che ha la stessa tradizione. Così, dopo aver visto Monsters University, diciamo: Disney 2, Pixar 0.
Etichette:
Brave,
Disney,
Frozen,
Idina Menzel,
Pixar
venerdì 20 dicembre 2013
Oscar 2014 - film straniero.
La scaramanzia non mi fa urlare dal balcone, ma la probabilità che l'Oscar al miglior film straniero 2014 sia nostro è sempre più grande; privati de La Vita Di Adèle, uscito troppo tardi in patria per essere la scelta della Francia, avevamo da combattere gli elogiatissimi Il Passato del già vincitore Asghar Farhadi ora in corsa per il Golden Globe e il primo film di una regista donna dall'Arabia Saudita, La Bicicletta Verde. Ora che l'Academy ha annunciato la shortlist dei nove titoli che passano il turno e possono aspirare alla nomination (che sarà annunciata il 16 gennaio intorno alle 14:30 ora italiana) ci sorprendiamo che questi due filmoni non ci siano e tratteniamo la gioia perché il belga The Broken Circle Breakdown (in italiano: Alabama Monroe: Una Storia D'amore), storia di amore e musica di una coppia con bambina malata di cancro, ci darà filo da torcere. Per il Belgio, nel caso vincesse, sarebbe il primo Oscar dopo soli sei film candidati dal 1967 ad oggi. Vero è che Bullhead di due anni fa e À Perdre La Raison dell'anno scorso erano incantevoli, ma dopo la nomination (erronea) de La Bestia Nel Cuore, il nostro cinema non ha ottenuto vittorie né candidature per tredici anni sebbene siamo noi a contare il maggior numero di statuette di questa categoria vinte (incluso il primo in assoluto). Compare in gara anche Il Sospetto di Vinterberg, di cui abbiamo già parlato, mentre parleremo a breve di The Grandmaster di Wong Kar-wai e del documentario cambogiano sulla strage degli innocenti L'immagine Mancante, passato in anteprima nazionale a Torino 31.
Di seguito, i nove film stranieri in gara per la nomination all'Oscar.
Alabama Monroe: Una Storia D'amore [The Broken Circle Breakdown] di Felix van Groeningen (Belgio)
An Episode In The Life Of An Iron Picker di Danis Tanovic (Bosnia-Erzegovina)
The Missing Picture [L'Image Manquante] di Rithy Panh (Cambogia)
Il Sospetto di Thomas Vinterberg (Danimarca)
Two Lives di Georg Maas (Germania)
The Grandmaster di Wong Kar-wai (Hong Kong)
The Notebook di Janos Szasz (Ungheria)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (Italia)
Omar di Hany Abu-Assad (Palestina)
Etichette:
film straniero,
Il Sospetto,
L'immagine Mancante,
La Grande Bellezza,
Oscar 2014,
Paolo Sorrentino,
The Broken Circle Breakdown,
The Grandmaster
mercoledì 18 dicembre 2013
Oscar 2014 - canzone originale.
Ed ecco comparire la shortlist del premio meno prevedibile dei prossimi Oscar: la canzone originale. Dopo le sorprese degli ultimi anni (le più eclatanti: Before My Time cantata da Scarlett Johansson per il documentario Chasing Ice con esclusione di Madonna fresca di Golden Globe; Loin De Paname dal francese Paris 36 – all'anagrafe Fauborg 36; il taglio di tre candidati per la coppia Rio/ I Muppets che si contese l'Oscar andato poi a Man Or Muppet invece che alla perfetta Life's A Happy Song) sappiamo che la cerimonia degli Academy Awards è comunque un evento televisivo che punta all'audience per cui si fa cantare solo Adele tra tutti i candidati e la si premia pure, voce del popolo; così non ci sorprende la presenza di interpreti quali Beyoncé (Epic), Taylor Swift (One Chance), Pharrell Williams (Cattivissimo Me), i Coldplay (Hunger Games) unici che “passano il turno” per la pingue soundtrack de La Ragazza Di Fuoco. Il Grande Gatsby può contare cinque brani ma il premio del pubblico andrebbe solo a Young And Beautiful di Lana Del Rey, candidata certa che se la dovrà vedere con Let It Go da Frozen – al momento vincitrice più acclamata – e So You Know What It's Like da Short Term 12 che tra questo brano e la protagonista Brie Larson piano piano sta scalando la montagna dell'unico film indipendente che di solito arriva in gara. Il mio premio?, andrebbe a I See Fire, perfetta conclusione de Lo Hobbit, scritta dall'eterno Howard Shore e cantata da Ed Sheeran; ma ricordiamoci del trapasso di Mandela: e del film che per caso e per fortuna arriva nelle sale adesso; qui gli U2 cantano Ordinary Love e sono già candidati al Globe.
Di seguito, tutti i film in lizza per entrare in nomination il 16 gennaio agli Oscar 2014 per la migliore canzone originale.
Ulisse.
A Proposito Di Davis
Inside Llewyn Davis, 2013, USA, 105 minuti
Regia: Joel & Ethan Coen
Sceneggiatura originale: Joel & Ethan Coen
Cast: Oscar Isaac, Carey Mulligan, John Goodman,
Garrett Hedlund, Justin Timberlake, Adam Driver, Max Casella
Voto: 9.4/ 10
_______________
Prima dei Mumford & Sons (di cui Marcus firma alcuni brani della colonna sonora) e prima ancora di Bob Dylan, se una canzone sapeva di già sentita ma risultava sempre nuova, allora era una canzone folk. E il folk era cosa che non vendeva, o almeno che non avrebbe venduto ancora per poco, o meglio che vendeva ma soltanto in determinati casi: per ogni Bob Dylan che passa alla storia c'erano centinaia di cantantini che a malapena dormivano su un pavimento, se trovavano ospitalità. Poi, certo, c'erano quelli che servivano ai tavoli per campare e quegli altri che avevano la “vocazione”, o almeno celavano dietro questa parola il sogno (americano?) non tanto di sfondare quanto di racimolare soldi facendo ciò che sanno fare (meglio) o che vogliono fare (soltanto). E se prima Llewyn Davis riusciva a racimolare soldi cantando con addosso la chitarra e di fianco il compagno di una vita, ora deceduto, adesso si umilia chiedendo ospitalità un po' alle ex amanti un po' ai parenti non tanto stretti per non dormire in strada e sperare in una serata al bar. Tanto il vecchio manager quanto il nuovo gli sbattono la porta in faccia, perché Llewyn non è uno che la manda a dire né si abbassa a cose che preferirebbe non fare, e soffre silenziosamente nel vedere il duo Jim & Jean (rispettivamente Justin Timberlake e Carey Mulligan) ricevere calorosi applausi nelle serate musicali dei pub. La sua vita procede senza un disegno, così come il film, pensato inizialmente senza trama e costruito sulla presenza di un gatto (desideroso di essere randagio) dal nome Ulisse che il protagonista rincorrerà continuamente. La fotografia che i fratelli Coen fanno di questo spaccato di società, di questo pezzo di vita di un ragazzo perdente, è profondamente triste ma non si arrende a se stessa, e si costruisce in un cerchio che giustifica la sua improvvisa chiusura. Di Llewyn non sappiamo quasi niente; certo molte cose le capiamo, ma non ci interessano più di tanto perché non appena apre bocca per cantare restiamo stregati. Noi: mentre i produttori e il pubblico sullo schermo rimangono impassibili e a volte un po' annoiati. Snob e sicuro di sé, Llewyn sa che prima o poi potrebbe farcela, e si costruisce la corazza di un fallito che non sta fallendo come poche volte se ne sono viste al cinema. Oscar Isaac è bravissimo, soprattutto in questa veste canterina. Ha interpretato dal vivo (come gli altri attori) tutte le canzoni, a formare una colonna sonora folk che diventerà cult (come fu per Fratello, Dove Sei? sempre musicata da T Bone Burnett). Il punto di partenza – per la musica e per i Coen – è stato Dave van Ronk, cantautore attivo nella New York degli anni Sessanta che pubblicò un album dal titolo Inside Dave van Ronk di cui pure la copertina è stata fonte d'ispirazione. Per colpa di questo utilizzo degli arrangiamenti del passato la canzone Please Mr. Kennedy performata anche dall'Adam Driver di Girls non è candidabile all'Oscar perché, sebbene riscritta dai due registi, da Burnett e da Timberlake, si rifà all'omonima traccia di Ed Rush e George Cromarty.
Dopo i salti temporali tra l'America western del bel Il Grinta, il sobborgo dell'altrettanto fallito Serious Man, la periferia pericolosa del sopravvalutato Non È Un Paese Per Vecchi e le palestre cool di Burn After Reading, i Coen ci raccontano un altro microcosmo con un altro emarginato sociale e si superano; perciò, forse, hanno deciso di rimanere su questa strada: il prossimo film parrebbe un musical, ma questa volta commedia.
sabato 14 dicembre 2013
Oscar 2014 - film d'animazione.
Sarà finalmente la Disney, che non ha mai vinto il premio di questa categoria, o ancora una volta la Pixar, che – con l'eccezione di Rango del 2011 – è imbattuta da cinque anni, incluso quello scorso, in cui Ralph Spaccatutto meritava molto più del deludente (ma tecnicamente impeccabile) Brave? L'Oscar al Miglior Film d'animazione è stato istituito per la prima volta solo nel 2001, per premiare “pellicole di almeno 40 minuti, con i personaggi principali animati digitalmente e con almeno il 75% delle scene a carattere animato” (ecco perché compare I Puffi 2, mentre il precedente fu escluso). Il primo a trionfare fu Shrek, battendo Monsters & Co. Mike e Sully si prenderanno la rivincita quest'anno, con il prequel Monsters University, non in gara per il Golden Globe? Frozen pare non avere concorrenza, e sarebbe il primo Oscar in casa Disney per una pellicola intera, dopo una serie di migliori colonne sonore e canzoni originali (ma La Bella E La Bestia, prima di Up e Toy Story 3, fu candidato al miglior film insieme a quattro pellicole di finzione che non presero bene la concorrenza, e ottenne il maggior numero di nominations insieme a WALL•E in varie categorie – sonoro, sceneggiatura...). Attenzione però: Hayao Miyazaki lascia le scene e lo fa con una delizia per gli occhi dopo il ludico Ponyo; ebbe il suo Oscar nel 2002 con La Città Incantata, e fu ricandidato nel 2005 col meraviglioso Il Castello Errante Di Howl. Per lui e per l'Academy sarebbe l'ultima occasione. I titoli matti sono il sud-coreano The Fake, il sud-africano Khumba, il canadese The Legend Of Sarila, lo spagnolo O Apóstolo, il brasiliano Una Storia Di Amore E Furia, i giapponesi Una Lettera Per Momo (originario del 2011) e Puella Magi Madoka Magica – ma l'unico che potrebbe scamparla è il francese Ernest & Celestine, scritto da Daniel Pennac; all'Academy piace sorprenderci, e due anni fa misero in cinquina Chico & Rita e Un Gatto A Parigi.
Di seguito, i 19 film in corsa per la nomination:
Piovono Polpette 2 - La Rivincita Degli Avanzi di Cody Cameron & Kris Pearn
I Croods di Kirk De Micco & Chris Sanders
Cattivissimo Me 2 di Pierre Coffin & Chris Renaud
Epic di Chris Wedge
Ernest & Celestine di Stéphane Aubier, Vincent Patar e Benjamin Renner
The Fake di Sang-ho Yeon
Free Birds - Tacchini In Fuga di Jimmy Hayward
Frozen - Il Regno Di Ghiaccio di Chris Buck & Jennifer Lee
Khumba di Anthony Silverston
The Legend Of Sarila di Nancy Florence Savard
Una Lettera Per Momo di Hiroyuki Okiura
Monsters University di Dan Scanlon
O Apóstolo di Fernando Cortizo
Planes di Klay Hall
Puella Magi Madoka Magica The Movie – Rebellion di Yukihiro Miyamoto, Akiyuki Shinbo
Rio: 2096 A Story Of Love And Fury di Luiz Bolognesi
I Puffi 2 di Raja Gosnell
Turbo di David Soren
Si Alza Il Vento di Hayao Miyazaki
giovedì 12 dicembre 2013
la scampagnata.
Lo Hobbit:
La Desolazione Di Smaug
The Hobbit: The Desolation Of Smaug, 2013, USA, 161 minuti
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura non originale: Fran Walsh, Philippa Boyens,
Peter Jackson e Guillermo del Toro
Basata sul romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien (Adelphi)
Cast: Martin Freeman, Ian McKellen, Richard Armitage,
Ken Scott, Graham McTavish, William Kircher, James Nesbitt,
Orlando Bloom, Evangeline Lilly, Lee Pace, Cate Blanchett,
Benedict Cumberbatch, Luke Evans, Stephen Fry
Voto: 7.8/ 10
_______________
Dicembre scorso avevamo lasciato Bilbo e la compagnia della nanezza a scalare colli e attraversare brughiere per raggiungere il castello una volta appartenuto ai Nani, in cui il tremendissimo gigantissimo potentissimo drago Smaug adesso dorme ricoperto di ogni moneta e ricchezza e oro; avevamo lasciato il drago, in realtà, con un occhio aperto, a lasciarci l'acquolina in bocca, e più o meno da quel punto riprendiamo. Riprendiamo col viaggio del gruppo in questo secondo film che sente mortalmente il peso dell'essere il film di mezzo (mi venga concessa la battuta), che comincia trascinandosi la debolezza del finale precedente e piano piano si riprende, per creare una tensione poco dopo la metà e farci stare col fiato sospeso nel finale. Ma è un fiato che sospendiamo soprattutto perché le sequenze sono incredibilmente annacquate, molto più lunghe della storia originale che, ricordiamo, è un libretto di trecento pagine appena (qui i dettagli), libro peraltro “per bambini”, iniziazione al mondo visionario di J.R.R. Tolkien, voluto dividere in tre pellicole come il cronologicamente successivo Signore Degli Anelli e quindi riempito di personaggi più di quella storia che di questa (l'anfitrione) o totalmente inventati (l'elfa Tauriel); che poi, perché inventarsi dei personaggi con tutti quelli che la saga ci mette a disposizione? Ma gli sceneggiatori – tra cui figura l'altrettanto visionario Guillermo del Toro – hanno trovato necessario creare una storia d'amore tra un elfo e un nano, specie che originariamente si odiano, e l'elfo in più ha il volto di Evangeline Lilly, nota al mondo per Lost, che ritroveremo ancora tra un anno, nel conclusivo Andata E Ritorno. Accanto a lei, nel film e nella discendenza, il veterano Orlando Bloom che si è detto, insieme a Cate Blanchett, contento di rivestire i panni e le orecchie che gli hanno portato notorietà. La trama è presto detta, proprio perché annacquata. Passando attraverso una foresta infestata da giga-ragni e poi per i reali degli elfi, i nostri eroi giungeranno nel villaggio di stampo veneziano degli umani, il cui commercio è andato a rotoli e il cui re è un azzeccatissimo Stephen Fry, e ci arriveranno con un componente mezzo morto, senza armi e senza Gandalf, che intanto per la sua strada passa sopra tombe e attraverso castelli. Nel suo incontro con le forze oscure assisteremo a cinque minuti di tecnicismo estremo – non che non ce ne sia per tutto il resto del film, ma in questa scena il mixaggio sonoro è sublime; seguirà la conclusiva epopea dei nani col drago, in cui Bilbo, infinitamente meno protagonista del film precedente, rivivrà lo stesso momento che ebbe in quella pellicola con Gollum; eppure Martin Freeman ci piace così tanto, e qui sembra calarsi ancora di più nel personaggio. Forse perché il film supera l'aspetto infantile che aveva caratterizzato Un Viaggio Inaspettato e si fa molto più cupo, sempre più nero, o forse perché Bilbo ha in tasca qualcosa che tutti vorrebbero e che lui per primo teme. In realtà il lato simpatico della saga cala ma l'aspetto giocoso no – e il senso di giocoso è proprio quello della competizione di ruolo, perché ci pare effettivamente di assistere a schieramenti in lotta. Soprattutto nella prima parte, le continue scene dall'alto e le panoramiche fanno sembrare il tutto un video introduttivo di un videogioco per consolle. Perché la regia di Peter Jackson questa volta utilizza meno escamotage e molte meno peripezie; la telecamera non sta mai ferma, e con un montaggio veloce fatto di immagini corte si assiste a continui sali e scendi che ci mostrano il panorama (magnifico) nella sua interezza. Chapeau agli effetti speciali, che hanno dovuto riempire così tanto spazio (il drago è perfetto, impeccabile, e per una volta anche il suo doppiaggio), ma sono effetti che vanno visti in 3D, perché pensati per esso, e risultano un po' inferiori alla media sul 4K. “Inferiori” a una maestria a cui ci siamo abituati.
Dicembre scorso avevamo lasciato Bilbo e la compagnia della nanezza a scalare colli e attraversare brughiere per raggiungere il castello una volta appartenuto ai Nani, in cui il tremendissimo gigantissimo potentissimo drago Smaug adesso dorme ricoperto di ogni moneta e ricchezza e oro; avevamo lasciato il drago, in realtà, con un occhio aperto, a lasciarci l'acquolina in bocca, e più o meno da quel punto riprendiamo. Riprendiamo col viaggio del gruppo in questo secondo film che sente mortalmente il peso dell'essere il film di mezzo (mi venga concessa la battuta), che comincia trascinandosi la debolezza del finale precedente e piano piano si riprende, per creare una tensione poco dopo la metà e farci stare col fiato sospeso nel finale. Ma è un fiato che sospendiamo soprattutto perché le sequenze sono incredibilmente annacquate, molto più lunghe della storia originale che, ricordiamo, è un libretto di trecento pagine appena (qui i dettagli), libro peraltro “per bambini”, iniziazione al mondo visionario di J.R.R. Tolkien, voluto dividere in tre pellicole come il cronologicamente successivo Signore Degli Anelli e quindi riempito di personaggi più di quella storia che di questa (l'anfitrione) o totalmente inventati (l'elfa Tauriel); che poi, perché inventarsi dei personaggi con tutti quelli che la saga ci mette a disposizione? Ma gli sceneggiatori – tra cui figura l'altrettanto visionario Guillermo del Toro – hanno trovato necessario creare una storia d'amore tra un elfo e un nano, specie che originariamente si odiano, e l'elfo in più ha il volto di Evangeline Lilly, nota al mondo per Lost, che ritroveremo ancora tra un anno, nel conclusivo Andata E Ritorno. Accanto a lei, nel film e nella discendenza, il veterano Orlando Bloom che si è detto, insieme a Cate Blanchett, contento di rivestire i panni e le orecchie che gli hanno portato notorietà. La trama è presto detta, proprio perché annacquata. Passando attraverso una foresta infestata da giga-ragni e poi per i reali degli elfi, i nostri eroi giungeranno nel villaggio di stampo veneziano degli umani, il cui commercio è andato a rotoli e il cui re è un azzeccatissimo Stephen Fry, e ci arriveranno con un componente mezzo morto, senza armi e senza Gandalf, che intanto per la sua strada passa sopra tombe e attraverso castelli. Nel suo incontro con le forze oscure assisteremo a cinque minuti di tecnicismo estremo – non che non ce ne sia per tutto il resto del film, ma in questa scena il mixaggio sonoro è sublime; seguirà la conclusiva epopea dei nani col drago, in cui Bilbo, infinitamente meno protagonista del film precedente, rivivrà lo stesso momento che ebbe in quella pellicola con Gollum; eppure Martin Freeman ci piace così tanto, e qui sembra calarsi ancora di più nel personaggio. Forse perché il film supera l'aspetto infantile che aveva caratterizzato Un Viaggio Inaspettato e si fa molto più cupo, sempre più nero, o forse perché Bilbo ha in tasca qualcosa che tutti vorrebbero e che lui per primo teme. In realtà il lato simpatico della saga cala ma l'aspetto giocoso no – e il senso di giocoso è proprio quello della competizione di ruolo, perché ci pare effettivamente di assistere a schieramenti in lotta. Soprattutto nella prima parte, le continue scene dall'alto e le panoramiche fanno sembrare il tutto un video introduttivo di un videogioco per consolle. Perché la regia di Peter Jackson questa volta utilizza meno escamotage e molte meno peripezie; la telecamera non sta mai ferma, e con un montaggio veloce fatto di immagini corte si assiste a continui sali e scendi che ci mostrano il panorama (magnifico) nella sua interezza. Chapeau agli effetti speciali, che hanno dovuto riempire così tanto spazio (il drago è perfetto, impeccabile, e per una volta anche il suo doppiaggio), ma sono effetti che vanno visti in 3D, perché pensati per esso, e risultano un po' inferiori alla media sul 4K. “Inferiori” a una maestria a cui ci siamo abituati.
Golden Globes 2014 - nominations.
La strada verso l'undicesimo Oscar per il miglior film straniero si fa più spianata ora che La Grande Bellezza è tra i cinque candidati al Golden Globe; la Hollywood Foreign Press Association ha annunciato oggi le nominations per i 71esimi premi della stampa estera al cinema e alla televisione e dopo Baarìa di Tornatore si riaccende una speranza anche se La Vita Di Adèle pare imbattibile – attenzione però: nella cinquina c'è il già vincitore Asghar Farhadi e soprattutto l'ultimo film di Hayao Miyazaki che abbandona le scene, e che non è stato inserito tra i film d'animazione, tra i quali Frozen se la spassa (a sorpresa c'è I Croods) privato del compagno Monsters University. Tutto più o meno prevedibile, e forse l'unico film “intruso” risulta Rush, candidato al miglior film drammatico e all'attore non protagonista. Nella cinquina delle commedie manca Blue Jasmine, che tra l'altro non è stata ritenuta una commedia e vede Cate Blanchett contro Judi Dench, Sandra Bullock, Emma Thompson e a sorpresa Kate Winslet (vinse due premi in una sera tre anni fa) per il nuovo film di Jason Reitman (Juno) che noi vedremo a marzo. Per il film di Allen c'è anche Sally Hawkins, già miglior attrice per Happy Go Lucky, e il regista americano che notoriamente non partecipa alle cerimonie verrà insignito del premio alla carriera che ritirerà Diane Keaton. Con 7 candidature, se la battono American Hustle e 12 Anni Schiavo, il primo dei quali vede tutti e quattro gli attori candidati come fu agli Oscar per Il Lato Positivo dello stesso David O. Russell, mentre poco peggio hanno fatto Nebraska (5 candidature, inclusi i due attempati meravigliosi attori), Gravity e Captain Phillips (4 a testa). Spike Jonze potrebbe farcela, finalmente, a ritirare un premio per il tenero Her, con Joaquin Phoenix in corsa per la migliore interpretazione. La pateticità dei giurati quest'anno è scivolata nel candidare il biopic dell'appena trapassato Nelson Mandela, ancora (per poco) privo di distribuzione italiana, ma gliela facciamo passare, dato che hanno finalmente preso in considerazione Greta Gerwig, per il meraviglioso Francis Ha.
Qui il sito ufficiale, con anche le nominations televisive, e di seguito, dopo l'interruzione, i candidati per il cinema.
miglior film
drama
12 Anni Schiavo di Steve McQueen
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto di Paul Greengrass
Gravity di Alfonso Cuarón
Philomena di Stephen Frears
Rush di Ron Howard
miglior film
comedy o musical
American Hustle di David O. Russell
Her di Spike Jonze
Inside Llewyn Davis di Joel & Ethan Coen
Nebraska di Alexander Payne
The Wolf Of Wall Street di Martin Scorsese
Etichette:
12 Years A Slave,
American Hustle,
Captain Phillips,
cate,
Frozen,
Golden Globes 2014,
Gravity,
Hayao Miyazaki,
La Grande Bellezza,
La Vie D'adèle,
Nebraska,
Rush,
Woody Allen
mercoledì 11 dicembre 2013
dell'ammazzare il comunista.
L'atto Di Uccidere
The Act Of Killing, 2012, Danimarca/ Norvegia/ UK, 115 minuti
Regia: Joshua Oppenheimer
Cast: Anwar Congo, Herman Koto, Syamsul Arifin,
Ibrahim Sinik, Yapto Soerjosoemarno, Safit Pardede
Voto: 8.6/ 10
_______________
Il 30 settembre 1965 i militari del generale golpista Suharto fanno irruzione nelle case degli indonesiani e deportano gli uomini che sono sospettati di comunismo: decideranno in seguito, in seguito a colloqui tenuti insieme al maggiore direttore di giornali del Paese, se ammazzarli subito, e in che modo. Il massacro di persone innocenti – incluse le donne e i bambini che vedevano bruciata la propria casa e subivano qualunque tipo di violenza – andò avanti per due anni, portando a più di un milione di morti, ma le persecuzioni dittatoriali sono continuate fino al 1998, anno in cui l'Indonesia è divenuta Repubblica ed è caduto il regno (durato 32 anni) di Suharto. Grazie al genocidio e al potere militare (in stretto contatto con le forze mafiose che nel film vengono chiamate “gangster” trovando etimologia nell'inglese “uomo libero”, cioè persona libera di fare qualsiasi cosa, anche quella sbagliata), l'Indonesia si affacciò in quegli anni all'economia mondiale, fino alla rendita petrolifera del 1973 che avvantaggerà la multinazionale Shell, creando un'oligarchia corrotta che oggi detiene la ricchezza di 60 milioni di cittadini comuni. Ma queste cose i libri di storia non le dicono: né i nostri né i loro. L'istruzione è stata intaccata pure quella dalla dittatura violenta e ha ribaltato la vicenda, dipingendo il Comunismo come pericolo distruttore dal quale il generale Suharto ha salvato tutti. Gli ex carnefici sono oggi dei piccoli eroi, davanti ai quali nessun commerciante si tira indietro se c'è da sborsare del denaro.
Neanche il regista Joshua Oppenheimer, giovane autore già di qualche corto e qualche altro documentario, sapeva della carneficina degli anni '60, quando si è recato in Indonesia per produrre The Globalization Tapes, progetto documentario partecipativo realizzato a Sumatra nel 2003. È stato l'incontro con i sopravvissuti al massacro che l'ha portato a conoscere la storia e a desiderare di volerla portare sullo schermo. Ma in Indonesia è una storia che non deve essere raccontata, o almeno non da chi c'è scampato: le milizie hanno imposto al regista inglese di abbandonare il progetto o abbandonare gli ex-comunisti, per raccontare la stessa cosa utilizzando soltanto quelli che furono i carnefici. Così, saranno gli assassini a dirci dettagliatamente cosa hanno fatto e dove. Ci porteranno negli uffici dei massacri, sui terrazzi dove venivano radunati corpi, ci mostreranno il modo migliore per sgozzare una persona senza (o quasi) perdita di sangue. Tutto questo attraverso il metacinema: Oppenheimer molto astuto realizza il film con i boia ma non spegne mai la telecamera, e scade nel grottesco più estremo nella ricostruzione di set e costumi pacchiani per rendere l'impunità di questa gente ancora libera, i cui reati sono caduti in prescrizione. Sostenuto dai sopravvissuti e dai figli di quelle vittime, non prende mai posizione sullo schermo ma fa scivolare i suoi “attori” nell'autoanalisi, ponendoli di fronte al dubbio di apparire i cattivi della situazione, di sembrare troppo feroci e non semplicemente giusti, di macchiarsi l'immagine. Ma, tutti completamente convinti di aver fatto la cosa giusta, procederanno ciecamente nella farsa, a partire dal più protagonista degli altri, il “gangster del cinema” Anwar Congo, circa mille morti ammazzati sulla coscienza, che comincerà ballando il Cha Cha Cha dove aleggiano «i fantasmi di cento persone che non volevano morire» e finirà scendendo silenziosamente delle scale, perché la cecità davanti alla tragedia è l'unico modo che questi assassini hanno per non impazzire.
Un documentario forte, intelligente, costruito a scatole cinesi e visionario quanto basta che, nonostante sia stato realizzato con non troppa cura del dettaglio, segna un pezzo di cinema («non ha precedenti» ha detto Werner Herzog) e riporta a galla un pezzo di storia, perché il mondo la sappia.
Screen Actors Guild Awards - nominations.
Tom Hanks è stato preferito nel ruolo del Captain Phillips e non nella veste di Walt Disney in Saving Mr. Banks (per cui è candidata Emma Thompson, autrice reticente di Mary Poppnis) e a sorpresa con lui, per il film di Paul Greengrass, è stato candidato il pirata Barkhad Adbi, infoiato accaparra-oro disposto a tutto pur di tornare a casa a mani piene; prevedibilmente è però 12 Years A Slave (12 Anni Schiavo) che ha la meglio tra le nominations appena annunciate dei SAG, gli Screen Actors Guild Awards 2014 i cui premiati saranno annunciati il 18 gennaio; nominations all'attore protagonista, ai due attori di supporto e al cast per il film di Steve McQueen che a questo punto non ha paura di essere escluso dai Golden Globes di domani o dagli Oscar di gennaio. Poco meno hanno ottenuto Dallas Buyers Club (altra certezza), The Butler di Lee Daniels, a breve nelle nostre sale e con Oprah Winfrey nelle vesti della moglie del maggiordomo del presidente, e la commedia I Segreti Di Osage County, che non ci fa mancare Meryl Streep dagli schermi neanche quest'anno. Sorprende quindi American Hustle, che si accontenta di Jennifer Lawrence miglior attrice non protagonista e del miglior cast, nonostante il chiacchiericcio di tutti gli attori in splendida forma. Per James Gandolfini, ennesima nomination postuma per Non Dico Altro: un omaggio più che una giustizia. Si daranno battaglia col veleno le attrici: Cate Blanchett rischia sempre di fronte alla Judi Dench di Philomena e adesso che c'è l'amatissima Sandra Bullock di Gravity rischia ancora di più. Mancano contro di loro la Bérénice Bejo de Il Passato e l'Adele Exarchopoulos del film di Kechiche.
Per quanto riguarda le nominations televisive, abbiamo da una parte i due attori di Dietro Ai Candelabri che da noi è arrivato al cinema ma originariamente è un film per TV e dall'altra le attrici di Top Of The Lake, miniserie di Jane Campion presentata in anteprima italiana a Torino31.
Dopo l'interruzione, tutti i candidati.
miglior performance
di un attore protagonista
Bruce Dern in Nebraska
Chiwetel Ejiofor in 12 Years A Slave
Tom Hanks in Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Matthew McConaughey in Dallas Buyers Club
Forest Whitaker in The Butler - Un Maggiordomo Alla Casa Bianca
miglior performance
di un'attrice protagonista
Bruce Dern in Nebraska
Chiwetel Ejiofor in 12 Years A Slave
Tom Hanks in Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Matthew McConaughey in Dallas Buyers Club
Forest Whitaker in The Butler - Un Maggiordomo Alla Casa Bianca
miglior performance
di un'attrice protagonista
Cate Blanchett in Blue Jasmine
Sandra Bullock in Gravity
Judi Dench in Philomena
Meryl Streep in I Segreti Di Osage County
Emma Thompson in Saving Mr. Banks
Sandra Bullock in Gravity
Judi Dench in Philomena
Meryl Streep in I Segreti Di Osage County
Emma Thompson in Saving Mr. Banks
Etichette:
12 Years A Slave,
Captain Phillips,
Cate Blanchett,
Dallas Buyers Club,
Jennifer Lawrence,
Judi Dench,
Meryl Streep,
Osage County,
SAG Awards,
Sandra Bullock,
The Butler,
Tom Hanks
lunedì 9 dicembre 2013
premi della critica.
Doppietta per Jannifer Lawrence? – si mormorava fino a qualche giorno fa, quando i critici di New York avevano decretato American Hustle miglior film e la Katniss degli Hunger Games migliore attrice non protagonista. Una seconda statuetta consecutiva in vista, dopo quella de Il Lato Positivo dell'anno scorso? Pare di no, a leggere la lista dei vincitori di ieri nei circoli della stampa cinematografica americana. Perché dopo la prima proiezione stampa, il nuovo film di David O. Russell è stato messo nel dimenticatoio per ripescare, sebbene con non tanti premi, Her di Spike Jonze, passato in concorso a Roma con una Scarlett Johansson che i Golden Globes hanno detto “incandidabile” perché mai effettivamente in scena. Ha comunque la meglio 12 Anni Schiavo, che dopo l'ignorato Hunger e l'apprezzato ma non troppo Shame consacra Steve McQueen come uno dei registi più interessanti del panorama mondiale: il suo dramma razziale è quasi sempre il miglior film e ottiene riconoscimenti per l'attore protagonista Chiwetel Ejiofor e l'attrice non protagonista Lupita Nyong'o annunciata interprete straordinaria. A sorpresa non compare mai Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen, che potrebbe ottenere la sua prima nomination all'Oscar per il ruolo di non protagonista, bianco tra i neri. L'attore non protagonista della critica è sempre Jared Leto (impossibile prendere sul serio la vittoria di James Franco per Spring Breakers) per la metamorfosi in transgender di Dallas Buyers Club, anch'esso passato a Roma, in cui oscura il protagonista Matthew McConaughey. Sul versante femminile Cate Blanchett vince facile col nuovo un po' snobbato film di Woody Allen. Before Midnight si contende la migliore sceneggiatura con Non Dico Altro, commedia divorzista che vede anche trionfare James Gandolfini solo perché, diciamocelo, trapassato, e qualche spiraglio di luce vede Martin Scorsese per la regia di The Wolf Of Wall Street (durata: tre ore) (ma attenzione a Gravity): se con lui l'Academy è stata buona regalandogli l'Oscar dopo centomila film candidati, con Leonardo DiCaprio anche quest'anno farà sicuramente la gnorri. La Vita Di Adèle ci batte di poco ma tanto non può candidarsi all'Oscar mentre La Grande Bellezza sì e Hayao Miyazaki fa ancora centro, per l'ultima volta, oscurando l'osannato e primo in classifica Frozen.
Tutti i premi della Los Angeles Film Critics Association, della Boston Society Of Critics e dei New York Film Critics dopo l'interrizione.
Etichette:
12 Years A Slave,
Cate Blanchett,
Chiwetel Ejiofor,
Dallas Buyers Club,
Her,
Jared Leto,
La Vie D'adèle,
Lupita Nyong'o,
Non Dico Altro,
Si Alza Il Vento,
Spike Jonze,
Steve McQueen,
The Wolf Of Wall Street
Oscar 2014 - documentari.
Seconda shortlist in previsione degli Academy Awards 2014 di febbraio: i lungometraggi documentari, la categoria che più di tutte, ogni anno, vede la presenza di lingue e registi stranieri che raccontano culture, personaggi storici, situazioni economiche, comportamenti felini. Quest'anno dovrebbe essere l'analisi della morte dolosa ad avere la meglio sugli altri: The Act Of Killing è considerato non solo il miglior documentario dell'anno ma anche uno dei migliori film; gli fanno battaglia 20 Feet From Stardom, viaggio nel mestiere del cantante fatto di interviste, materiale di repertorio e analisi dell'evoluzione del rock contemporaneo, e Stories We Tell della già candidata Sarah Polley (per la sceneggiatura di Lontano Da Lei). “La verità dipende da chi ti racconta la storia” sentenzia lo slogan del film, che mischia ricordi ad aneddoti ascoltati per ricostruire la mitologia della famiglia, con un personalissimo e intimo risultato. Possibili spoiler, almeno per la nomination (che sarà rivelata a metà gennaio), potrebbero essere Cutie And The Boxer, sulla storia dell'artista giapponese (ma espatriato a New York) Ushio Shinohara e sulla sua relazione con la moglie Noriko nonostante la fama mondiale; God Loves Uganda e la sua campagna evangelica in Africa; Al Midan, vita dei contestatori nell'Egitto del regime post-Mubarak.
Di seguito, i quindici documentari che passano la prima selezione e aspirano alla nomination all'Oscar.
The Act Of Killing di Joshua Oppenheimer, Anonymous e Christine Cynn (Danimarca, Norvegia e UK)
The Armstrong Lie di Alex Gibney (USA)
Blackfish di Gabriela Cowperthwaite (USA)
The Crash Reel di Lucy Walker (USA)
Cutie And The Boxer di Zachary Heinzerling (USA)
Dirty Wars di Rick Rowley (USA, Afghanistan, Iraq, Kenya, Somalia e Yemen)
First Cousin Once Removed di Alan Berliner (USA)
God Loves Uganda di Roger Ross Williams (USA)
Life According To Sam di Sean Fine & Andrea Nix (USA)
Pussy Riot: A Punk Prayer di Mike Lerner & Maxim Pozdorovkin (Russia & UK)
Al Midan (The Square) di Jehane Noujaim (Egitto & USA)
Stories We Tell di Sarah Polley (Canada)
Tim’s Vermeer di Teller (USA)
20 Feet from Stardom di Morgan Neville (USA)
Which Way Is The Front Line From Here? The Life And Time Of Tim Hetherington di Sebastian Junger (USA)
European Film Awards - vincitori.
Non è Paolo Sorrentino a ritirare il premio per la migliore regia e il miglior film europeo dell'anno (perché impegnato nella giuria del Festival di Marrakech) ma Nicola Giuliano e Francesca Cima, gli emozionatissimi produttori de La Grande Bellezza, che ottiene quattro statuette agli European Film Awards 2014 che si sono svolti sabato scorso a Berlino. Per il film italiano definitivamente in corsa verso l'Oscar, il premio al miglior montaggio (di Cristiano Travaglioli, già annunciato) e al miglior attore protagonista, un veterano Toni Servillo già vincitore nel 2008 con Il Divo sempre di Sorrentino (nella foto, insieme a Diane Kruger). Uno batte l'altro e La Migliore Offerta si accontenta del premio alle musiche di Ennio Morricone, salito sul palco con una standing ovation generale, prima di tre: sono seguite quelle a Catherine Deneuve, premio alla carriera, e a Pedro Almodóvar, teneramente accompagnato da tutti i suoi attori, omaggiato per il contributo europeo che porta al cinema internazionale. Il cineasta spagnolo ha dedicato il premio ai giovani registi vittime del cieco e sordo governo. Unica sorpresa della serata (The Act Of Killing ovviamente miglior documentario, The Congress miglior film d'animazione contro il nostro Pinocchio, François Ozon miglior sceneggiatore per il campione d'incassi Nella Casa) la migliore attrice protagonista: a discapito dell'età e del peso scenico di Barbara Sukowa per Hanna Arend della von Trotta, Veerle Baetens ha la meglio portando a The Broken Circle Breakdown il suo unico premio. La nuova categoria della cerimonia, la migliore commedia europea, senza sorpresa (data la concorrenza) premia il tremendo Love Is All You Need e speriamo che dall'anno prossimo venga di nuovo tolta.
Di seguito, dopo il salto, tutti i candidati e i vincitori.
film europeo
La Migliore Offerta di Giuseppe Tornatore (Italia)
Blancanieves di Pablo Berger (Spagna, Francia)
The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen (Belgio)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (Italia, Francia)
Oh Boy! di Jan Ole Gerster (Germania)
La Vita Di Adèle di Abdellatif Kechiche (Francia)
Oscar 2014 - effetti visivi.
Cominciano le shortlists che l'Academy screma e annuncia in vista degli 86esimi Premi Oscar, che si svolgeranno il prossimo febbraio. Le nominations complete saranno annunciate il 16 gennaio alla nostra ora di pranzo e alla loro ora di colazione, ma prima di quella data, e prima dell'annuncio, a inizio anno, dei nove film stranieri che possono sperare nella statuetta, vedremo spuntare gli elenchi di coloro che potranno farcela aspirando almeno alla nomination. In questo caso, siamo davanti ai dieci film che passano il turno tecnico verso i migliori effetti speciali visivi. Inutile dire che il super-favorito e praticamente il vincitore certo sia Gravity, soprattutto ora che per colpa di 12 Years A Slave ha perso l'aura di futuro miglior film. Il lavoro completamente digitale di Alfonso Cuarón che ha scritto, diretto, prodotto e montato il film, è una perla per gli occhi tanto per la regia quanto per la cura del dettaglio nella ricostruzione pazzesca dell'universo e delle navicelle spaziali figlie di 2001: Odissea Nello Spazio. A sorpresa si infila nella decina il disneyano The Lone Ranger, mentre le altre otto pellicole si spalmano come al solito tra storie di catastrofi pre- o post-apocalittiche e kolossal Marvel con supereroi vari. Unica eccezione per la seconda parte de Lo Hobbit, che se già il primo aveva fatto fiasco, figuriamoci questo. L'assente che a primo impatto si percepisce è forse I Sogni Segreti Di Walter Mitty, prova di regia per un Ben Stiller anche protagonista e sognatore a occhi aperti. Le sue escursioni mentali su montagne, deserti, le calate dagli elicotteri e i salti nel vuoto non hanno ricevuto abbastanza voti al primo spoglio dei 2000 giurati.
Di seguito, quindi, i dieci film che concorrono per la nomination ai migliori effetti visivi.
Elysium di Neill Blomkamp
Gravity di Alfonso Cuarón
Lo Hobbit - La Desolazione Di Smaug di Peter Jackson
Iron Man 3 di Shane Black
The Lone Ranger di Gore Verbinski
Oblivion di Joseph Kosinski
Star Trek Into Darkness di J.J. Abrams
Thor: The Dark World di Alan Taylor & James Gunn
Pacific Rim di Guillermo del Toro
World War Z di Marc Forster
Elysium di Neill Blomkamp
Gravity di Alfonso Cuarón
Lo Hobbit - La Desolazione Di Smaug di Peter Jackson
Iron Man 3 di Shane Black
The Lone Ranger di Gore Verbinski
Oblivion di Joseph Kosinski
Star Trek Into Darkness di J.J. Abrams
Thor: The Dark World di Alan Taylor & James Gunn
Pacific Rim di Guillermo del Toro
World War Z di Marc Forster
domenica 8 dicembre 2013
Annie Awards - nominations.
Con 10 nominations a testa, Frozen - Il Regno Di Ghiaccio e Monsters University sono i film dei 41esimi Annie Awards, premi dell'animazione internazionale che ogni anno consacrano tutti i campi tecnici e artistici del video non filmato, dal cinema d'animazione agli spot commerciali passando per le serie e gli episodi televisivi. Casa Disney Pixar, oltre all'incetta di candidature in tutti i campi del grande schermo (fino alla voce che Billy Crystal presta a Mike) abbonda di nominations per i programmi su satellite, dalla serie di Mickey Mouse fino al corto speciale di Halloween Toy Story OF TERROR! andato in onda sul nostro Disney Channel in contemporanea con gli USA. Ma delle nominations televisive qui non ci occupiamo (ci sono, ad ogni modo, Futurama, il Regular Show e lo splendido Adventure Time); per la lista completa di tutti i candidati rimando al sito ufficiale mentre di seguito trovate le categorie più importanti dei lungometraggi: contro i super-favoriti disneyani se la giocano Cattivissimo Me 2 e Si Alza Il Vento con cui Hayao Miyazaki abbandona la regia. Il primo di questi due film conta il cast vocale di maggiore impatto (Kristen Wiig tra poco in sala con Walter Mitty, Steve Carell e Pierre Coffin, voce di tutti i Minions) oltre a uno splendido storyboard, la musica di Pharrell Williams e l'animazione dei personaggi; sorte molto peggiore ha avuto Planes, distrutto dalla critica e ancora di più dal pubblico, con una sola candidatura e un sequel pronto da sfornare. Daniel Pennac è candidato alla sceneggiatura di Ernest & Celestine mentre riceveranno premi onorari di diverso tipo il documentario I Know That Voice, Steven Spielberg e la DZED per l'innovativo sistema di catturare immagini da stop-motion.
Di seguito e dopo l'interruzione i candidati.
miglior film d'animazione
Una Lettera Per Momo di Hiroyuki Okiura
GKIDS
Cattivissimo Me 2 di Pierre Coffin & Chris Renaud
Illumination Entertainment/Universal Pictures
Ernest & Celestine di Stéphan Aubier, Vincent Patar e Benjamin Renner
Ernest & Celestine di Stéphan Aubier, Vincent Patar e Benjamin Renner
GKIDS
Frozen di Chris Buck & Jennifer Lee
Walt Disney Animation Studios
Monsters University di Dan Scanlon
Monsters University di Dan Scanlon
Pixar Animation Studios
I Croods di Kirk De Micco & Chris Sanders
I Croods di Kirk De Micco & Chris Sanders
DreamWorks Animation
Si Alza Il Vento di Hayao Miyazaki
Si Alza Il Vento di Hayao Miyazaki
Studio Ghibli/Touchstone Pictures
non le colline.
The Canyons
id., 2013, USA, 99 minuti
Regia: Paul Schrader
Sceneggiatura originale: Bret Easton Ellis
Cast: Lindsay Lohan, James Deen, Nolan Gerard Funk,
Amanda Brooks, Tenille Houston, Gus Van Sant
Voto: 5.3/ 10
_______________
La scritta in locandina “dal regista di American Gigolò” dovrebbe far riflettere sul fatto che il film più di successo di questo regista risalga al 1980, nonostante la prolifica produzione fino ai giorni nostri (è in realtà stato sceneggiatore di Scorsese, di Taxi Driver e Toro Scatenato, ma se glielo chiedete vi dirà che i suoi preferiti sono l'originale Mishima e Cortesie Per Gli Ospiti, girato a Venezia nel '90), per cui Paul Schrader ormai dimenticato dai più aveva bisogno del colpaccio di ritorno, e se lo programma chiamando a sé l'amico scrittore super-cult Bret Easton Ellis, al quale chiede: mischia in un'unica storia i personaggi di tutti i tuoi libri. Ma decidono poi di lavorare in economia: non più di cinque teste e molti dialoghi in luoghi fissi, perché i dialoghi costa meno. Tutto il film si basa sul “costa meno”. Gli attori non sono stati scelti in base alla vicinanza col personaggio ma alla disponibilità ad accettare 100 dollari al giorno con trasporti e trucco a proprio carico. Solo, ovviamente, alla protagonista è andata diversamente – perché è una superstar, e questo doveva essere il film anche della sua rinascita. A Lindsay Lohan regista e sceneggiatore hanno dato i normali cento dollari al giorno più 250.000 differiti e il 25% del film. Solo lei il suo co-protagonista James Deen non sono stati provinati attraverso crowdfunding (ricordiamo che lui, attore porno di fama americana, è il viso d'angioletto odiato dalle mamme che temevano potesse portare le loro figlie sulla strada della lussuria), mentre Nolan Gerard Funk, stellina di Glee che qui mostra tutta la sua dote, è stato scritturato, insieme agli altri, attraverso annunci internet e social network. La scelta di fare tutto (cercare fondi, il casting, la distribuzione) attraverso internet deriva dal fatto – secondo il regista – che il cinema non esista più, e per questo il film si apre con immagini di locali chiusi.
La trama è semplice: è la trama di un porno con una trama ma senza scene porno. Deen è un produttore di film di serie B che vive in una lussuosissima villa con la morosa Lohan, alla quale fa incontrare di tanto in tanto una ragazza o una coppia per divertirsi tra la piscina e il letto. Se è un uomo, non gli permette di toccarla. È gelosissimo, ed è sicuro che lei lo tradisca. In effetti lo fa, col Funk di cui prima, suo ex fidanzato e adesso primo attore per questa imminente pellicola che grazie al manager Gus Van Sant sta per girare. Tutti, qui dentro, sono ossessionati dal proprio cellulare. Alle cene non guardano neanche i commensali, vivono facendo video col proprio iPhone, cercando gente sui siti d'incontri, mandandosi messaggi. E in questo turbine di smartphone nascosti, sms letti, scagnozzi ingaggiati per pedinamenti, il film si consuma senza creare una vera tensione (sebbene coviamo un dubbio omicida) o meglio creando una tensione semplice, la tensione del film softcore con la trama appunto, e quel poco che si crea, a dispetto di quanto è stato detto, non si crea per Lindsay Lohan (Paolo Limiti scrisse che era il film della sua conferma artistica, dato che se lo sobbarca per intero e dimostra di saper recitare – ma attenzione, scrive sempre Limiti, che è un film «molto trasgressivo»), nome perfetto da associare a un film di questo tipo, ragazza cattiva protagonista di un film sulle brutte persone; sono le labbra spocchiose e la camminata volpina di James Deen che ci convincono più di tutto: lui è il cattivo perfetto, per quanto possa essere cattivo un fidanzato ricco e geloso a cui sia nella vita che sullo schermo piace solo fare sesso. E forse per questo è il più azzeccato: recita con sincerità.
sabato 7 dicembre 2013
Gotham Awards - vincitori.
Siamo giunti alla 23esima edizione dei Gotham Independent Film Awards, il cui vezzeggiativo “gotham” deriva non dalla città di Batman ma dalla città di New York chiamata appunto Gotham nel periodico satirico Salmagundi da Washington Irving nel 1807; e a New York sono stati consegnati i premi, lo scorso 2 dicembre (qui il sito ufficiale), dalla «più grande organizzazione di cinema indipendente d'America», l'Independent Feature Project, fondata nel 1979. Ma i premi sono del '91, e quest'anno vedono l'incoronazione dei fratelli Coen che con Inside Llewyn Davis battono il super-favorito 12 Years A Slave (entrambi di dubbia indipendenza) mentre Matthew McConaughey e la sua metamorfosi smagrante insieme al documentario The Act Of Killing ce la fanno come previsto. Brie Larson, ora nelle nostre sale come madre di Joseph Gordon-Levitt di Don Jon, scavalca la performance impeccabile di Cate Blanchett mentre Fruitvale Station continua a fare incetta di premi vincendo il miglior attore Michael B. Jordan e il regista emergente Ryan Coogler (insieme nella foto). E il pubblico, in questo calderone di piccoli film che probabilmente non vedremo mai, premia il microscopico documentario di Tadashi Nakamura sul virtuoso di ukulele Jake Shimabukuro, diviso tra la fama artistica e il piccolo appartamento che divideva con la madre.
Di seguito tutti i vincitori.
miglior film
12 Years A Slave di Steve McQueen
Ain’t Them Bodies Saints di David Lowery
Before Midnight di Richard Linklater
Inside Llewyn Davis di Joel & Ethan Coen
Upstream Color di Shane Carruth
blue moon.
Blue Jasmine
id., 2013, USA, 98 minuti
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura originale: Woody Allen
Cast: Cate Blanchett, Alec Baldwin, Bobby Cannavale,
Louis C.K., Andrew Dice Clay, Sally Hawkins,
Peter Sarsgaard, Michael Stuhlbarg
Voto: 8.4/ 10
_______________
Jasmine ha questo problema: parla da sola. E le persone che le stanno attorno, mentre parla da sola, credono che lei stia parlando con loro, per cui si protendono, l'ascoltano, intervengono. Così, lei smette di fissare il vuoto e si rianima, un po' imbarazzata, prende il suo Xanax che non sempre fa effetto e se ne va. Se è in aereo – rigorosamente prima classe, dovessero anche non esserci i soldi – continua a parlare senza andarsene e quando parla racconta sempre aneddoti della sua vita, il passato col marito Hal, col figlio non biologico Danny (un ritrovato Alden Ehrenreich dopo Beautiful Creatures e soprattutto il Tetro di Coppola) e con la famiglia adottiva, perché Jasmine è stata adottata, e ha una sorella non biologica adottata pure lei, e all'interno della famiglia patchwork Jasmine (che si chiamava Janette ma è intervenuta all'anagrafe) era quella «con i geni buoni». Sposata al ricchissimo pescecane Alec Baldwin (terzo film con Allen), ha passato gran parte della vita a galleggiare nella vasca asciugandosi il polso per provare i bracciali che il marito le regalava, dare cene in casa per sfoggiare qualche nuovo abito e tenere sotto controllo la grande beneficenza che la sua famiglia portava avanti perché «quando sei molto ricco, devi essere generoso». E le scene di questo pezzo di vita le vediamo quando Jasmine si ferma, fissa un punto, e parte a conversare ricordando i bei tempi andati, ora che è dall'altra parte della costa americana, nella «intimamente accogliente» casa di sua sorella che ha due figli grassi e chiassosi e un fidanzato meccanico e primitivo. La classe, l'eleganza di Jasmine (e la sua unica giacca e la sua unica borsa di Hermès che costava più di tutto il budget per i costumi, che di fatto sono stati presi in prestito e non acquistati) sono sempre fuori luogo e Cate Blanchett è incredibile nel rendere il perenne disagio di questa donna convinta ancora di vivere tra le nuvole o almeno speranzosa fino in fondo di tornarci. Si umilia lavorando, cercando di imparare a usare una macchina che è più intelligente di lei, ma in fondo sa che l'unica cosa che può fare è trovare un nuovo paio di pantaloni con dentro un portafogli, che sia meno pingue del precedente ma almeno voluminoso. Lei è bloccata tra un passato che rimpiange seppure pieno di errori e un futuro che la spaventa da morire perché non può essere previsto né controllato, e allora s'imbottisce di psicofarmaci, di vodka-matrini con twisted lemon, se la prende con la sorella in grado invece di accontentarsi di tutto ciò che capita. La sorella sarebbe Sally Hawkins, geniale in Happy Go Lucky e qui azzeccatissima, cassiera di supermercato cosciente della propria condizione e senza sogni più grandi di lei, senza rimpianti per una ricchezza che (il marito del)la sorella le ha fatto perdere. È azzeccatissimo anche il compagno, il Bobby Cannavale di Boardwalk Empire e Nurse Jackie, e quello che diventerà il suo amante, l'amatissimo in America Louis C.K.. La Hawkins si ritrova a dividere il set (ma di fatto non si incontrano mai) con un irriconoscibile Peter Sarsgaard dopo An Education in cui erano moglie e marito birichino, e nessuno dei due mantiene il suo accento inglese.
Con un cast meno d'eccezione del solito in quanto a fama, ma assolutamente brillante per interpretazioni, Woody Allen ritrova la linfa che aveva perso da vent'anni con una breve interruzione (Match Point) e chiarisce che: il cinema migliore non gli è venuto in Europa e l'abilità più grande è quella di dirigere le attrici. Dopo le storiche Diane Keaton e Mia Farrow ci ha riprovato con Scarlett Johansson e Penélope Cruz ma solo adesso la magia gli è riuscita: Cate Blanchett è perfetta, da Oscar, si sobbarca il film intero e lo fa passando da un registro all'altro con una facilità impressionante, rendendoci mai patetico ma anzi amorevole un personaggio che in fondo è pessimo. La teoria del «faccio tanti film sperando che uno buono ne venga fuori» questa volta ha funzionato.
Iscriviti a:
Post (Atom)