venerdì 24 ottobre 2014

il dubbio.



Il Giovane Favoloso
id., 2014, Italia, 137 minuti
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura originale: Mario Martone & Ippolita di Majo
Cast: Elio Germano, Massimo Popolizio, Raffaella Giordano,
Isabella Ragonese, Edoardo Natoli, Valerio Binasco, Michele Riodino,
Anna Mouglalis, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Federica de Cola
Voto: 6.8/ 10
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Noi Credevamo e i David di Donatello che esso aveva vinto avevano messo l'ex sconosciuto ai più Mario Martone (in pochi ricorderanno un vecchio cult, L'amore Molesto, e ancora meno la trasposizione di un romanzo di Goffredo Parise, L'odore Del Sangue) in una posizione di vantaggio verso il futuro: capace almeno su carta di fare ciò che voleva, con sempre un bagaglio non leggero di aspettative (altrui); e lui che cosa fa?, s'impelaga in un progetto che chiamarlo ambizioso è dire poco, fare eufemismo: porta sullo schermo Giacomo Leopardi, figura che non ci aspetteremmo mai di trovare altrove dai libri di letteratura e dalle antologie uscite col Corriere o La Repubblica, nella libreria di casa; «che strano» ha commentato perfino mia madre, abituata ai poliziotti e ai commissari in TV, ai biopic sugli attivisti politici e sociali, sui militari, sugli investigatori della CIA, sui mafiosi, sui pittori e i cantanti e gli scrittori e i giornalisti e gli altri attori, ma mai in grado di concepire in digitale un poeta. Giacomo Leopardi, poi!, che tutti sappiamo non esser mai uscito da casa schiacciato dalla gobba e dalle carte. Ed ecco cosa fa il film, furbescamente: ce lo presenta spesso fuori, all'aria aperta, nella natura e nella vita paesana; ce lo presenta in una casa che non vediamo mai per intero, in una famiglia che ci viene accennata ma magistralmente dipinta per piccoli tocchi: un padre presente, severo ma intimamente affettuoso, una madre devota, piegata, soggiogata dalla religione, privata di qualsiasi sentimento o reazione di fronte a Dio (è esemplare il commento alla morte di quella che tutti noi chiameremmo Silvia), un fratello e una sorella splendidi con cui Giacomo ha uno splendido rapporto ma dai quali, ahinoi, tenta di scappare perché «Recanati è stretta»: lui aspira alla fama, alla gloria in vita ed eterna, al riconoscimento – si vede elevato sulla folla ma tarpato nelle ali, e questa cosa ogni tanto l'ammette e ogni tanto no, e intanto studia, certo, ma studia quanto i suoi fratelli, non certo di più, anzi spesso di meno, perché cascato dalla seggiola o ipnotizzato di fronte alla finestra. Però ha il dono: traduce all'impronta dal greco, traduce con provocazione Omero, si auto-prescrive malori anatomici, passa notti insonni a fissare il cielo, declama i versi che tutti noi abbiamo imparato costretti a memoria – e li declama partorendoli, già pronti per essere declamati e imparati a memoria: forse avremmo preferito vederlo scrivere e cancellare e correggere e affinare termini e metrica, suoni e distici; invece tutto è subito, forse per problemi di spazio – ed ognuna delle tre poesie declamate lo è in modo diverso: un pianosequenza sulla faccia di Elio Germano prova d'attore e fiducia del regista per il primo Infinito e poi una trovata pazzesca, alla Malick, per la finale Ginestra: trovata azzeccatissima che forse si sarebbe dovuta declinare ogni volta. È bravo, Germano; ma questo lo sapevamo già. Sapevamo che è brava anche Isabella Ragonese a cui è dato pochissimo spazio e un personaggio un po' insipido. C'è solo all'inizio perché a metà il film stacca, si spezza, si trasforma: salto di dieci anni per trovare Michele Riodino e Anna Mouglalis stonati e posticci, personaggi di altre storie, di altre vicende che il non-più-giovane Giacomo rimira mentre il suo corpo si trasforma, la schiena s'abbassa, la gobba spunta e Napoli vive ingorda di dialetti e persone, e il Vesuvio erutta. Degli interni di cui prima si ha quel saporaccio approssimativo di certi prodotti per la TV, cosa che capita meno per i costumi e un po' di più per la recitazione (Iaia Forte esclusa che con un cameo dietro l'altro si sta facendo una carriera meravigliosa) e ne scaturisce un film forse fatto in fretta, in furia e con poco, che non valorizza per esempio Recanati – che non appare né claustrofobica né morta, semmai metafisica, che sottointende tensioni omosessuali ad ogni stretta amicizia, che abbozza una spregiudicatezza maligna che non approfondisce, che taglia del tutto il rapporto viscerale con la perfida Natura – e ci mostra invece un bordello, qualche ballo di corte, del sesso gratuito, una doccia.

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