giovedì 19 marzo 2015

la goccia.




Chi È Senza Colpa

The Drop, 2014, USA, 106 minuti
Regia: Michaël R. Roskam
Sceneggiatura non originale: Dennis Lehane
Basata sul racconto Animal Rescue di Dennis Lehane
Cast: Tom Hardy, Noomi Rapace, James Gandolfini,
Matthias Schoenaerts, John Ortiz, Elizabeth Rodriguez
Voto: 7.2/ 10
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Per una volta meritatamente, e a sorpresa, nel 2012 Bullhead fu candidato all'Oscar come Miglior Film Straniero in rappresentanza del Belgio per poi uscire silenziosamente nei cinema italiani e dare fama soprattutto al suo attore protagonista, Matthias Schoenaerts, che poi avrebbe condiviso disgrazie e sentimenti con Marion Cotillard in Un Sapore Di Ruggine E Ossa, che pure uscì silenziosamente nei cinema italiani, dopo la fama del suo regista ottenuta con Il Profeta. Anche qui siamo a un'opera post-successo, e a un'opera non in lingua natìa dato il successo: Michaël R. Roskam regista si sposta in quel di Hollywood e si accaparra gli attori in voga (Noomi Rapace in primis, trasformista tutta in ascesa, camaleontica piercing-tattooed nei Millenium di Fincher e ripulita nel futurista Lei di Jonze – qui con accento fake che va tanto di moda in questo periodo) e per la sceneggiatura scritta e recitata in inglese abbandona il suo quaderno e si affida allo scrittore Dennis Lehane, giallista, noto autore di thriller americano dai cui romanzi sono stati tratti Mystic RiverGone Baby Gone e Shutter Island, che trasporta dialoghi e scene dal suo racconto originale (nella raccolta Boston Noir sul quartiere in cui è cresciuto) che in realtà non si discosta praticamente di nulla dal Bullhead di cui prima. Lì avevamo un protagonista solo e pseudo-problematico che trafficava ormoni illegali per mucche che in realtà si iniettava lui, e perdeva teneramente la testa, in un modo non consono, per una donnetta appena conosciuta. Qui abbiamo Tom Hardy, senza amici né famiglia ma non come in Locke, che gestisce il – e lavora al – bar dell'unico parente e confidente, il cugino James Gandolfini, irrimediabilmente Soprano e irrimediabilmente compianto, nella sua ultimissima interpretazione – bar luogo d'accumulo di denaro sporco dove malfattori e strozzini e soprattutto la mafia cecena passano e depositano e riscuotono mazzette nascoste nella cassa, e riforniscono talvolta il sostentamento perché la locanda stia in piedi. Hardy e Gandolfini non sono (apparentemente) invischiati nei traffici, il primo soprattutto, dall'animo candido e dall'aspetto buonista. Ad esempio, tornando a casa un giorno, sente i lamenti di un cane picchiato e buttato in un cassonetto e se lo porta a casa, cucciolo da curare e crescere – ma la spazzatura è della Rapace di cui sopra, che rivendica almeno un lavoro da dog-sitter per poi farci scoprire che il cane non è suo ma era lì perché il suo ex moroso ce l'ha buttato. Lui è Schoenaerts, che parla un inglese trascinato e pretende l'amore indietro. Lei è bravissima a fare l'immigrata ma come tutte quelle che ne hanno viste tante e prese ancora di più, ci mette molto prima di lasciarsi intenerire da un uomo, o abbandonarsi a confidenze e sentimentalismi. Il cane diventa l'unica sorgente di vita per Hardy, il cui ribaltamento di personaggio ci spiazza – ma è un ribaltamento troppo buttato lì, non è per niente approfondito. Perché il finale arriva presto: dopo un'accurata analisi dei luoghi, dei personaggi e dei loro collegamenti, la situazione muta in fretta e ci abbandona, stringendo il cerchio delle pedine in campo e strisciando il lietofine. Sono infiniti gli echi dell'opera precedente e sterminato il piacevole ricordo con cui assistevamo a quell'altro colpo di scena, a quelle altre interpretazioni di sconosciuti, a quegli interni contadini e campagnoli nel Belgio invece che al solito quartiere americano. Hollywood-rovina-tutti ha appiattito l'originalità di quel regista e l'ha messo dietro a un progetto che non si discosta di nulla da ciò che abbiamo sempre visto e sempre vedremo, riciclando qualche minuscola trovata. Ma è felicemente passato dal Festival di Torino in anteprima, a dicembre.

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