giovedì 12 marzo 2015

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Foxcatcher
– Una Storia Americana
Foxcatcher, 2014, USA, 129 minuti
Regia: Bennett Miller
Sceneggiatura originale: E. Max Frye & Dan Frutterman
Cast: Channing Tatum, Steve Carell, Mark Ruffalo,
Sienna Miller, Vanessa Redgrave, Anthony Michael Hall,
Guy Boyd, Brett Rice, Jackson Frazer, Samara Lee
Voto: 7.3/ 10
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Una storia americana, altra ed ennesima, storia realmente accaduta, ancora – ma sceneggiatura considerata originale perché non basata su scritti preventivi – abbandona i toni bellici e calca quelli sportivi passando dal mezzofondo della Jolie al wrestling, sempre olimpionico, dei fratelli Schultz. Quattro medaglie d'oro negli anni Ottanta, Mark è un energumeno taciturno, che vive e mangia e gioca al Game Boy da solo, si allena col fratello David altrettanto campione che invece si è completato trovando moglie (che è ancora Sienna Miller, riconoscibile appena) e facendo figli, spostando forse le priorità in questo senso, ridendo più spesso. La vita di Mark ruota invece attorno all'unica passione-mestiere, anche dopo gli incontri con le registrazioni da rivedere subito, anche nelle uscite alla mattina, magari per presentare il suo lavoro alle scolaresche. I sensi di marcia sono due: continuare ad essere campione e poi portare onore e orgoglio all'America. Gli si presenta un giorno un emissario di John Eleuthère du Pont, ereditiere rinomato per i suoi averi, proprietario industriale e terriero, coach a tempo perso, americanocentrico altrettanto, e l'offerta è quella di spostarsi nella villa fuori porta ad allenarsi e allenare una squadra di lottatori e ricevere il tutto-finanziato per i prossimi mondiali e le prossime Olimpiadi. La ristretta vita di Mark lo porta ad accettare, e a sorprendersi che il fratello invece declini, impossibilitato a rinunciare a moglie e figli – e da questo momento in poi pare di essere davanti a una versione creepy di Dietro Ai Candelabri, con un magnate e il suo feticcio da plasmare: Mark si lascerà coinvolgere nell'uso di droghe, nella perdita di massa muscolare, negli allenamenti blandi, si tingerà i capelli perdendo la diretta via, accorgendosi forse troppo tardi della malattia mentale che ha colpito du Pont e della sua morbosa ossessione verso la madre-padrona, a cui bisogna chiedere il permesso per trovare posto a una medaglia nella sala dei trofei, a cui bisogna dimostrare di essere allenatori capaci, davanti alla quale bisogna fingere, tutto il tempo, per piacere. Lei è Vanessa Redgrave, ridotta alla sedia a rotelle ed elegantissima, di una classe superba, segregata anche in un ruolo microscopico; lui è Steve Carrell, sicuramente il fulcro del film e la sua più grande sorpresa, cosparso di protesi in volto per potersi beccare la prima candidatura all'Oscar della vita – e chi l'avrebbe mai pensato, il 40-anni-vergine – biascicando parole, movimenti lenti, in un corpo allo sfacelo che non trova più piaceri nel mondo, e li prova tutti. «Sono contento di non aver girato a Los Angeles, dove abito, ma in Pennsylvania, distanti da casa, perché un personaggio come questo disturba. È un bene per me averlo tenuto lontano dalla mia famiglia» dice l'attore a Ciak. La sua performance schiaccia quella di Channing Tatum che è sempre una montagna mobile, diciamoci la verità, mai nessuno gli guarda la faccia – e questa volta in faccia ha una punta di mento in fuori che ricorda un certo Brad Pitt. Tra contusioni, tumefazioni e un timpano danneggiato sul set, il suo Mark è arrabbiato col mondo e con se stesso, consapevole del suo declino, costretto a cambiar percorso (verso sempre quelle scritte finali che accomunano tutte le storie vere), arrabbiato con suo fratello dal quale si allontanerà perché incapace di parlare, di esprimersi senza il fisico. Mark Ruffalo, forse l'attore più rivalutato degli ultimi tempi, in poche scene riesce a tinteggiare una figura con carattere, non eccessivamente ben interpretata ma pragmatica, agnello sacrificale della volontà divina di questo casato di ex cacciatori a cavallo, come dimostrano le foto in casa, adesso Foxcatcher team sportivo. L'ex compagno di liceo e di lotta di Mark Schultz, Tom Heller, propose a Bennett Miller i diritti per questa storia addirittura nel 2006; Miller aveva già affrontato lo sport dal punto di vista di chi ci mette la faccia senza scendere in campo con Moneyball, che però parlava di baseball ma aveva pure due protagonisti straordinari, che anche fu candidato a un certo numero di Oscar ed è sorprendente come l'Academy ami questo regista, classe '66, giunto adesso al terzo lungometraggio (Palma alla regia a Cannes) e mai estromesso dalla kermesse. Anche l'esordio Truman Capote - A Sangue Freddo fu nominato alla regia e anche quello raccontava di una morbosa e particolare amicizia fra due uomini. In questo caso però i toni dovevano essere trattati con una certa cautela: «quando Miller mi ha fatto leggere una prima bozza di sceneggiatura, ho pensato fosse una storia troppo strana» spiega Tatum; «ho incontrato la famiglia di David Schultz, ho rimesso su muscoli e mi sono allenato con Mark Ruffalo per imparare il catch. Non è stato un film divertente da girare». Né lo è da vedere.

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