giovedì 24 gennaio 2013

dulcis in fundo.



La Bottega Dei Suicidi
Le Magasin Des Suicides, 2012, Francia, 108 minuti
Regia: Patrice Leconte
Sceneggiatura non originale: Patrice Leconte
Basata sul romanzo Il Negozio Dei Suicidi di Jean Teulé (Vertigo)
Voci originali: Bernard Alane, Isabelle Spade, Kacey Mottet Klein
Voci italiane: Pino Insegno, Fiamma Izzo, Luca Baldini
Voto: 6.8/ 10
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Francia: una cittadina non meglio definita se non dal suo grigiore, conta un tentativo di suicidio ogni quaranta minuti e solo il 20% di questi va a “a buon fine”; in pubblico, è vietato farlo: per cui niente lanci sotto ai camion, niente pistole infilate in bocca. Si rischia una multa, e quando il cittadino irrispettoso ci resta secco in parchi e piazze ecco la vettura della polizia pronta ad accostare il cadavere e infilargli, in bocca o tra le dita rattrappite, il biglietto dell'ammenda, che chissà chi pagherà, mentre il cianotico corpo rimane lì.
Il cinismo di questo dettaglio è un po' il cinismo che copre gran parte della prima metà del film: un vecchino, che coglie il tentativo di buttarsi sotto all'autobus di un magro disperato, lo salva dal rischio di non farcela e trovarsi a carico poi la penale da pagare e lo conduce nella coloratissima e ridente Bottega dei Suicidi dove si è trapassati o rimborsati, dove c'è una vasta scelta di corde con cappi già annodati, serpenti, prese elettriche, veleni, spade. Ad accogliere la clientela, con una prima già tremenda canzone, la famiglia Tuvache, composta da madre (dal polmone canterino della nostra Fiamma Izzo), padre (Pino Insegno), due figli nati (col broncio) e uno in arrivo.
E si contano già gli antenati di questo film, alla cui base c'è un libro di Jean Teulé (edito in Italia da Vertigo) e un regista che io conobbi da piccolo con a L'amore Che Non Muore e che incontrò la fama tanto in Francia quanto in America con Ridicule (candidato all'Oscar) e quella italiana con Il Marito Della Parrucchiera. Ma Patrice Leconte, il regista, sa di essersi addentrato in un settore difficile e a lui ignoto – quello dell'animazione, per il quale la Francia conta un autore amato da mezzo mondo per la sua silenziosa poesia di introspezione e colori (il Sylvain Chomet de L'illusionista e Belleville) e qualche altra meteora di passaggio ogni tanto (Felicioli, Gagnol), per non parlare della tradizione a fumetti, celebrata in terra francofona con accuratezza di stampe e di rilegature. Per cui, i disegni cercano di farsi valere, soprattutto per come sono riempiti e non tanto per come sono mossi. Ma la tradizione disneyana del film-musical con quattro canzoni di cui almeno due certamente si candideranno all'Oscar può valere per la Disney, che conta librettisti teatrali e vincitori di Tony e Grammy a scrivere musiche e testi, non vale qua: le canzoni, così tante che se ne perde il conto, anche se alcune solo accennate, sarebbe meglio che non ci fossero. Sarebbe meglio che non ci fosse anche questo nuovo figlio che poi arriva, biondo e sdentato e col sorriso stampato in faccia, felice di vivere, generoso verso una sorella che vede bellissima e alla quale regala una scusa per spogliarsi davanti alla finestra (trovata inutile quanto quasi volgare).
Nell'autobus che prende quotidianamente per andare a scuola, Alain (il pischello) occupa gli ultimi posti con i compagni felici mentre il mortorio vige sovrano dentro e fuori dalla vettura: chi attraversa col rosso, chi si lancia dal tetto, persino i piccioni s'ammazzano mentre i topi cantano. I cinque allegri ragazzi vivi pensano a uno stratagemma per portare la gioia nel mondo, e trovano la soluzione in un'auto.
Colpito pesantemente dalla censura che in Italia l'ha vietato ai minori di anni 18 (quindi chi lo va a vedere, un cartone animato, sopra ai 18 anni? Mia nonna non di certo. E chi lo distribuisce, un cartone animato vietato, che non è erotico ma anzi pieno di canzonette ciniche, in Italia?), uscito a dicembre, ha trovato spazio in una decina circa di sale in tutto il Paese. Adesso, le sale sono scese a quota cinque. Il marasma della censura, in cui s'è infilato anche il regista indignato («il film è un inno alla vita!»), ha portato gruppi di curiosi a migrare verso queste sale maledette e cupe più simili a un aereo che a un cinematografo per scoprire cosa lo Stato non ci vuole far vedere; e sono tornati tutti a casa delusi.

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