lunedì 11 marzo 2013
scritto sul corpo.
Educazione Siberiana
id., 2013, Italia, 110 minuti
Regia: Gabriele Salvatores
Sceneggiatura non originale: Stefano Rulli,
Sandro Petraglia e Gabriele Salvatores
Basata sul romanzo Educazione Siberiana di Nicolai Lilin (Einaudi)
Cast: Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson,
John Malkovich, Peter Stormare, Arnas Sliesoraitis
Voto: 6.9/ 10
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Eccetto il «Robbeertoo!» nazionale che s'è dato alla Commedia dantesca e alla Costituzione italica da spiegare ben bene in televisione e pratici cofanetti DVD, i nostri ultimi premi Oscar (attenzione: al Film Straniero) tornano tutti (e due) al cinema quest'anno, entrambi con opere recitate in inglese – perché ad un regista da Oscar ciò viene richiesto; e se il primo, Tornatore, ci ha incantati con l'eleganza algida dell'arte della truffa e dell'artista Christopher Plummer in UK, Gabriele Salvatores, molto meno osannato oltreoceano (ma pure in patria) che certo peggio di Happy Family non poteva assolutamente fare (dato che aveva quasi sfiorato I Cesaroni) se ne va dove non smette mai di nevicare e racconta la condizione post-conflitto dei siberiani esiliati in Russia in clan malavitosi che si spalmano sul territorio facendo attenzione a non incappare (male) in altri clan malavitosi stile Napoli-e-poi-muori. Basandosi sul romanzo e sull'esperienza del tatuato scrittore autobiografista Nicolai Lilin (un libro all'anno dal 2009 per Einaudi) ricostruisce, insieme alla coppia più prolifera del cinema d'autore italiano, Petraglia & Rulli (Romanzo Criminale, La Meglio Gioventù, La Nostra Vita, Romanzo Di Una Strage), su tre livelli narrativi, la storia di Kolyma, bambinetto orfano di padre allevato da una mamma quasi invisibile ma molto forte e un nonno capobranco tutto parabole e saggezze crude prima, e giovane arruolato in una guerra che non c'è poi, e adolescente bivaccante nel mezzo, circondato da amici sempre sul punto di perdere la retta via e imboccare la strada sbagliata, quella dove il lupo offre soldi e droga e aspettative per un futuro che non deve brillare perché «un uomo non può avere più di quanto può amare». Accozzagliando per la prima metà scene a caso, sconnesse su tutti i fronti, sfumate, rallentate, alternate a immagini di ghiacci galleggianti sul mare piatto, Salvatores si conferma regista dal basso gusto estetico, bassissimo, dandosi a un montaggio così veloce da annientare i movimenti della macchina (che si muove?) e sembrando quasi televisione. Gli viene incontro la fotografia di Italo Petriccione, che lo accompagna da una vita e che qui è magistrale, mentre sul fondo musiche sovietiche si susseguono imbarazzanti. Il mordente arriva quasi in chiusura, quando un'improbabile protagonista femminile un po' tocca viene violentata e picchiata che se ci sforziamo un pelo sappiamo bene chi ha la colpa e che tipo di fine farà. Fino all'apprezzabile ultima scena.
Intorno al navigato e intoccabile John Malkovich si dipanano tutta una serie di attori alle prime armi e alla prima esperienza che tanto il doppiaggio li salva tutti (recitano in un inglese che non vorrei mai sentire) (e la matta è doppiata da Cristiana Capotondi) e su tutti il protagonista – che è più protagonista dell'attore in locandina – Arnas Fedaravicius è, praticamente, un modello scultoreo di Dolce&Gabbana che viene preso, spogliato quando si può, messo su una barca con una fanciulla nel bel mezzo del mare e fatto scattare in piedi. All'occorrenza, diventa faccia testimonial di un altro profumo, facciamo Armani, sempre mezzo nudo, che si butta acqua in faccia col labbro inferiore in bella vista. Io, che recito sicuramente meglio (soprattutto se poi mi doppiano) non ho né quella schiena né quelle labbra, e quindi Salvatores non ha scelto me. Ma in casi come questi, The Paperboy ci insegna che all'attore bono e incapace non si dedicano tutti questi primi piani.
Paradossalmente, ciò che il film dovrebbe raccontare, e che ci sarebbe piaciuto molto approfondire, e cioè la capacità di leggere la storia di una persona attraverso i suoi tatuaggi, non ci viene quasi detto, se non in una scenetta frettolosa di carcerazione e condivisione collettiva (improbabile) della cella in cui scende la neve. Non ci viene raccontato, in effetti, quasi niente.
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