martedì 24 dicembre 2013

il figlio perduto di Philomena Lee.



Philomena
id., 2013, UK/ USA/ Francia, 98 minuti
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura non originale: Steve Coogan & Jeff Pope
Basata sul romanzo Philomena di Martin Sixsmith (Piemme)
Cast: Judi Dench, Steve Coogan, Sophie Kennedy Clark,
Mare Winningham, Barbara Jefford, Ruth McCabe, Peter Hermann
Voto: 8/ 10
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Già nel 2002 un film che si chiamava Magdalene raccontò la storia delle case religiose di accoglienza che all'epoca erano state appena chiuse (l'ultima risale al 1996) a causa dell'eccessivo fanatismo con cui educavano le ragazze “perse”: niente calmanti al momento del parto perché è Dio che vuole sofferenza. A questa sorte, anzi a sorte ancor più dolorosa perché il bambino le nasce podalico, e cioè coi piedi in avanti, è destinata la giovane Philomena Lee, sedotta a una fiera con mela caramellata e morsa in ricordo del peccato originale e poi abbandonata dai genitori nel convento di Roscrea per essere rimessa in riga. Sette giorni a settimana di lavoro in lavanderia e un'ora al giorno per vedere il figlioletto, tenuto insieme agli altri nella stanza delle adozioni. Costretta a quel luogo perché incapace di racimolare cento sterline e soprattutto isolata e senza un altro luogo da raggiungere, Philomena resta lì a scontare la sua pena intera, vedendo, tre anni dopo la nascita, il piccoletto preso e portato via da una famiglia americana. Tace su questa storia per cinquant'anni, anche ora che ha una figlia adulta e si è rifatta una vita. Ma l'immagine del bambino la perseguita e deciderà di mettersi sui suoi passi incontrando un giornalista che non lavora più in BBC e per un pettegolezzo più pesante degli altri si ritrova a non scrivere più di Storia Russa ma di Vita Vissuta.
La dame Judi Dench si abbassa a interpretare una semplice vecchia del popolo rimanendo però elegante e austera; incarna la contraddizione del cattolicesimo radicato nella formazione e dell'esperienza trentennale di infermiera grazie alla quale conosce la «bi-curiosità» e la morte di AIDS. Legge romanzetti rosa, si esalta nel raccontarne le trame, ride alle battute sbagliate e trova gentilezza e unicità in tutto. La sua – chiamiamola così – pacata ignoranza si sposa perfettamente con un passato di sofferenza e rimorsi che adesso la portano ad essere silenziosa (sulla sua vita) e algida, ma non rassegnata nel prossimo né malvagia verso gli altri: anzi. La Dench ha dipinto un ruolo femminile immenso, straordinario, senza sbavature, con degli abiti che completano la confezione impeccabile. Splende ancora di più di fianco al ben più scontato Steve Coogan, anche sceneggiatore della pellicola, irruento, irascibile, uno che rimpiange il non essere più in cima, perennemente arrabbiato, che guarda Philomena con occhio critico e poi si beccherà la lezione. È storia vera: nel 2009 Martin Sixsmith pubblicò Il Figlio Perduto Di Philomena Lee (in Italia Philomena, Piemme, 460 pagine, € 18,50) che racconta nel dettaglio la vicenda.
Il film viaggia su tre binari: quello della cattiva religione cieca e che acceca, che rende pecore tutte le anime al di sotto del pastore, costrette all'espiazione della colpa e inermi davanti all'autorità; poi il cattivo giornalismo, o meglio il giornalismo cinico e mirato alla vendita, alla pubblicazione, che strumentalizza le vicende per renderle più fruttuose e guadagnare un viaggio in prima classe; e la politica americana e la contraddizione per un omosessuale di servire un presidente che taglia i fondi alle cure di HIV nella piena ondata degli anni '80. Sul primo fronte: niente di nuovo, le suore con la bacchetta le abbiamo viste anche nei film con Virna Lisi su Canale 5 – ma questa volta il pensiero scava più a fondo, si fa esistenzialista e la risposta alla domanda «perché hai tenuto nascosto mio figlio mentre era sul punto di morte?» non convince né noi né il Signore; sul secondo fronte: niente di nuovo, il dimenticato film su Glass ci ha dimostrato come si possano inventare articoli interi per vendere copie di un giornale; sul terzo fronte, c'è un po' di novità – soprattutto perché si sfiora il tema della politica americana, dell'omosessualità e della malattia senza prendere una posizione né dare giudizio. Certo per Stephen Frears è facile: lui è inglese. E si sente la nostalgia di un suo film d'esordio, My Beautiful Laundrette – ma non fatemi parlare della filmografia di Frears sennò cadiamo nell'inspiegabile esistenza cinematografica di Tamara Drew.

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