venerdì 27 febbraio 2015

il basilico e la gru.



Maraviglioso Boccaccio
id., 2015, Italia, 120 minuti
Regia: Paolo & Vittorio Taviani
Sceneggiatura non originale: Paolo & Vittorio Taviani
Liberamente basata sul Decameron di Giovanni Boccaccio (BUR)
Cast: Lello Arena, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini,
Flavio Parenti, Vittoria Puccini, Michele Riodino,
Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak,
Jasmine Trinca, Josafat Vagni, Eugenia Costantini,
Miriam Dalmazio, Fabrizio Falco, Melissa Anna Bartolini,
Camilla Diana, Nicolò Diana, Beatrice Fedi, Ilaria Giachi,
Barbara Giordano, Rosabel Laurenti Sellers, Niccolò Calvagna
Voto: 6.9/ 10
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Uomini, donne e maiali sono colpiti dalla peste nella desolante Firenze del 1348: c'è chi inala l'odore dei fiori per prevenire il contagio e chi, straziato dalla perdita dei cari, bacia le salme o ci si fa sotterrare insieme. Dieci ragazzi, tre maschi e sette femmine, di cui tre ree (ah ah!), con difficoltosa convinzione si isolano in una villa di proprietà non ben definita, fuori porta, per scampare alla malattia, per quindici giorni; si daranno ferree regole quali la castità (ma quali altre?) e si delizieranno a turno raccontando novelle. Le quali, sappiamo, sono cento – dieci al giorno per dieci giorni con un tema che le raggruppi quotidianamente, con un leader al giorno e ogni volta dieci voci; ma non avendo quaranta ore di pellicola a disposizione, i fratelli Taviani ne selezionano cinque e selezionano cinque dei loro giovani a novellar tra un desinare e l'altro. Affida a quasi tutti gli attori italiani viventi i ruoli di queste storie nella storia: Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio sono una malata sposata e un innamorato che la strappa alla morte; Kasia Smutniak una nobile, figlia di Lello Arena, vedova e infatuata di Michele Riodinio, fabbro di famiglia, per la cui morte si toglierà la vita; Paola Cortellesi badessa di un convento dove Carolina Crescentini e molte altre hanno preso i voti senza troppa devozione ma per spinta familiare; Josafat Vagni, il falconiere Federigo degli Alberighi, notoriamente perso di Jasmine Trinca è disposto a qualsiasi cosa per accontentarla, anche a diventar povero; ma è Kim Rossi Stuard, Chichibìo senza gru, che trae vantaggio da tutta questa farsa, impersonificando il matto del paese con tale spontaneità, con tale espressività di viso da farsi ricordare fino in fondo, nonostante sia uno dei primi ad apparire. Parallelamente ai più o meno intonati attori, a noi tutti noti quasi quanto gli episodi che interpretano, scorrono i momenti sociali di questi quindici giorni insieme per questi dieci ragazzi e ragazze che invece non conosciamo, rinchiusi in una villa: il bagno al lago, il pane da impastare, i difficili primi sonni. E scorrono completamente staccati dal resto, istrionici, esasperati: vengono gestiti come interpreti teatrali dalle eccessive movenze sul palco, dai balletti eseguiti per non accavallarsi o coprirsi. Qualcuno più, qualcuno meno, sono tutti sbagliati, e ne hanno colpa fino a un certo punto, com'è sbagliato il loro comparire e sparire a comando, seguendo una ordinata e poco coraggiosa scaletta. Se tre di tutti i loro personaggi arrivano all'improvviso inserendosi anche nella primaria narrazione, i Taviani avrebbero dovuto optare per una costruzione ancora più audace, che mescolasse i due mazzi di carte. Dopo l'Orso d'Oro berlinese per il capolavoro della nostra cinematografia Cesare Deve Morire non era facile tornare dietro la macchina da presa ed era quasi impossibile confermare quel successo (un Oscar per noi mancato); dal Giulio Cesare di Shakespeare affrontato in estremo sperimentalismo (attori trovati in un carcere, set che è il carcere stesso, versi declamati dentro alla prosa, bianco e nero e colori insieme) passano al Decameron di Boccaccio adagiandosi su una messa in scena tradizionale, addirittura a episodi e con attori di scuola teatrale. Fanno un passo indietro credendo di farne uno in avanti: raccontare dolori e gioie che attanagliano i giovani contemporanei ripescando manzonianamente dal nostro passato. Ci riescono artisticamente: i costumi (di Lina Nerli Taviani) sono, come le scenogafie, azzeccati nella loro essenzialità, totalmente privi di sfarzi, per un'ambientazione fatta quasi più di immaginazione, e le musiche (di Giuliano Taviani), sempre catastrofiche, apocalittiche, si susseguono nel loro preannunciare il peggio (La Masseria Delle Allodole era apice di questo aspetto) per poi inciampare nel penultimo Manon Lescaut. Un film che, volente o nolente, ci rappresenta su più aspetti.

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