martedì 3 febbraio 2015
il fantasma dell'opera.
Birdman
O (L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza)
Birdman Or (The Unexpected Virtues Of Ignorance),
2014, USA/ Canada, 119 minuti
Regia: Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura originale: Alejandro González Iñárritu,
Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris e Armando Bo
Cast: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Amy Ryan,
Andrea Risebourgh, Emma Stone, Naomi Watts, Merritt Wever, Kenny Chin
Voto: 9.7/ 10
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Candidato a 9 Premi Oscar:
film, regia, sceneggiatura originale, attore,
attrice non protagonista, attore non protagonista,
fotografia, montaggio sonoro, mixaggio sonoro
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La ormai centenaria tradizione cinematografica si staccò dall'eredità teatrale per poi tornarci, e imbastire opere di meta-cinema o anche meta-teatro a partire, mi viene in mente, da Eva Contro Eva e dal suo più recente pronipote Sils Maria, passando per, mi viene in mente, Tutto Su Mia Madre che pure gli era parente o anche La Sera Della Prima di Cassavetes. Il lavoro dell'attore, che è interpretato da un attore cinematografico che si cala nei panni di un attore teatrale, vive così su un binario doppio, sempre sull'orlo del biografismo, della confusione tra personaggio e interprete, e in questo senso il meta-cinema qui tocca le vette del dubbio perché il protagonista Riggan Thompson è reduce da anni di silenzio post-successo della trilogia di un supereroe, il Birdman del titolo, mascherato e alato e con poteri speciali di cui Riggan si porta dietro uno strascico, insieme a uno strascico di voce di coscienza. Il suo interprete Michael Keaton, Golden Globe come miglior attore ma non Actor Award, e con un Oscar in dubbio, fu Batman quando i supereroi al cinema non erano pane quotidiano e quel ruolo gli diede fama e successo e lo costrinse pure a un isolamento, interrotto adesso dalla volontà di dimostrare di saper recitare in un'opera autoriale, e così Riggan scrive l'adattamento per il palcoscenico di Di Cosa Parliamo Quando Parliamo D'amore di Carver, e se lo dirige e se lo interpreta chiamando a produrre un caro amico e a interpretare una calda amante e a sovraintendere una difficile figlia; succede che alla sera dell'anteprima viene meno un attore, bisogna sostituirlo in fretta, e qui entra in scena Edward Norton: quell'Edward Norton che fu Hulk con grossi disagi e si tirò fuori dalle produzioni Marvel dei Fantastici 4: qui fa lo stesso, semina tempesta, palesa il suo talento ma lo annaffia con spasmi erotici, erezioni in scena, botte nei camerini, vanità nei bar frequentati dai più rinomati critici teatrali. Addirittura inizierà una tresca con big-eyes Emma Stone, la “figlia d'arte”, uscita fresca dalla riabilitazione e con trattini sulla carta igienica come passatempo, figlia dei fenomeni virali che si spostano da YouTube a Twitter tra like e followers. Questo film non poteva uscire in un periodo migliore, in una condizione e in un contesto migliori: i mostri di ferro che minacciano le strade americane e i personaggi in tuta che volando salvano il mondo, gli attori meteora che sopravvivono con ridicoli video in mutande tra la folla, la decadenza del teatro relegato alla borghesia adulta snob a priori, l'importanza della stampa, di Broadway, dove chiunque sogna di mettere piede sapendo che il suo nome verrà dimenticato ma quello del Fantasma Dell'opera, in cartellone da lustri, e ovunque in queste strade, no. Perché il film è tutto in queste strade: nei camerini, sul palco, nella piazzetta retrostante, sul tetto. Perché il film si consuma in due, tre giorni e si costruisce su un unico pianosequenza sempre facendo riferimento a quella centenaria tradizione cinematografica che ha visto tentativi hitchcockiani (mi viene in mente, Nodo Alla Gola) non portati a termine per problemi tecnici o più recentemente esotici (L'arca Russa) quando forse l'esempio più calzante è, mi viene in mente, nelle Nove Vite Da Donna di Rodrigo Garcìa che sapientemente analizzava le giornate umane in riprese uniche che se la sbrigavano, ad esempio, con molti specchi. Tutto quindi è un contrasto: il cinema e il teatro, il teatro e i supereroi, l'essere e l'apparire e il farsi amare o farsi apprezzare che si confondono, in questa sete infinita di attenzioni che tutti in questo film hanno, perfino Naomi Watts, piccola parte ma brillante, desiderosa di dimostrare al pubblico che merita quel posto ma disgustata dall'essere adulata fisicamente. Il pianosequenza non è ovviamente reale, ma attraverso una meticolosa regia studiata a tavolino durante la scrittura a otto mani da Alejandro G. Iñárritu & Co., regia che ricorda quella a puzzle di Gravity dell'anno scorso, unisce lunghe riprese che hanno costretto gli interpreti a imparare pagine e pagine di copione e riporta quella condizione effettivamente teatrale dell'interruzione che non c'è, dell'assente montaggio – montaggio che invece c'è ma non si vede, aiutato da qualche effetto speciale. Finalmente un film originale – originale nel senso di diverso dal solito e originale nel senso di non scritto su un personaggio reale, un evento storico, un fumetto – finalmente un film americano ma non americanocentrico, un film sul film non come 8½ che pure aveva un dilemma di protagonista ma un film sulla messa in scena che è universale, universalmente riconosciuta e comprensibile, con una serie di epiloghi, come 8½, che sottolineano il dubbio e il grado di finzione dell'opera.
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