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giovedì 14 gennaio 2016

ciliegina.



Assolo
id. | 2015 | Italia, Francia | 1h 37min
Regia: Laura Morante
Sceneggiatura originale: Laura Morante & Daniele Costantini
Cast: Laura Morante, Piera Degli Esposti, Francesco Pannofino,
Lambert Wilson, Marco Giallini, Donatella Finocchiaro,
Angela Finocchiaro, Antonello Fassari, Gigio Alberti,
Emanuela Grimalda, Carolina Crescentini, Eugenia Costantini,
Edoardo Pesce, Giovanni Anzaldo, Filippo Tirabassi
Voto: 6.9/ 10
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Laura Morante ha due ex mariti (Francesco Pannofino e Gigio Alberti) da cui ha avuto altrettanti figli (Filippo Tirabassi e Giovanni Anzaldo): i due ex mariti hanno due nuove compagne (Emanuela Grimalda e Carolina Crescentini) – e una tradisce uno, e uno tradisce una; ha ancora due uomini: un amante, che non si decide a lasciare la moglie, il francese Lambert Wilson dato che, come il film precedente, per metà la Morante è francese; un collega, Marco Giallini, più burino che mai. Ha due amiche: una che è anche collega, Donatella Finocchiaro, massaggiatrice nell'albergo di lusso in cui lavorano entrambe; un'altra che è Angela Finocchiaro, dipendente dal marito che l'ha lasciata da ormai sette anni e che continua a pedinare, a chiamare, a controllare, a farsi piacere – e che guarda quella che potremmo definire TV-spazzatura in un siparietto che è il più veritiero del film intero: il livello intellettuale che si annebbia di fronte ai montaggi serrati di certi programmi-verità. Infine ha una psicoterapeuta, Piera Degli Esposti – con qualcosa che non va in faccia, addobbata e acconciata ma ferrea nel suo ruolo: presenza fissa dentro e fuori il campo, costringe Laura/ Flavia a parlare di sé, visto che parla solo degli altri, a parlare del suo rigetto per la masturbazione, del suo desiderio sessuale represso, del motivo per cui non prende la patente e delle basi nascoste del desiderio di vivere a Paperopoli: dove non ci sono né madri né padri ma solo zii e una nonna che fa le torte di mele. Una sceneggiatura sconnessa, scollegata, narrativamente a singhiozzi, senza un vero filone di trama per punteggiare pregi e difetti – anzi soprattutto difetti – di una protagonista pienamente cinquantenne, che deve affrontare la vecchiaia, la decadenza fisica, quella erotica, la solitudine effettiva e quella percepita, il confronto con gli altri. L'unica valvola di felicità parrebbe essere il cane di quelli-di-sopra, mentre l'assolo del titolo riguarda la presa di coscienza, di posizione, per evitare di scivolare nelle avances degli uomini sbagliati – sbagliati nel senso che non sono necessari – per affrontare il più grande demone della nostra società: quello di essere da soli, sentimentalmente, forse anche socialmente, e stare bene. Non si sa quanto la Morante stia bene in questo senso ma la ricerca frenetica di un uomo la perseguita sia come attrice che come autrice (scrive, dirige e interpreta questo film, seconda volta), insieme alle nevrosi da curare, alle schizofrenie interpretative. Non poteva mancare quindi la figura dell'analista che rende l'impianto americanoide, affiancato da un ritmo francese che comincia però come una pellicola di Fellini, in queste digressioni oniriche di uomini in completo (che ricordano anche il Café Müller di Pina Bausch) che si fanno circensi oppure di donne nel bosco con cappelli e fiori, spiritualizzate, come la Giulietta di Federico. Sicuramente un film imperfetto, che viaggia su due binari troppo banali: l'incapacità di prendere metaforicamente la patente di guida e la relazione con un animale adottato, maltrattato dai suoi “genitori biologici”. Un film però che dimostra come la commedia in Italia possa svincolarsi dai soliti canoni, come le risate possano giungere da una dialettica (forse pretenziosa) aulica, fuori campo, colta, letteralmente elevata – soprattutto toccando temi (esasperati) legati alle famiglie imperfette e disfunzionali nascosti in telefonate giovanili che raccontano di un erasmus o pranzi in silenzio sfiancati da relazioni morbose. Un assolo, corale, discorde.

venerdì 27 febbraio 2015

il basilico e la gru.



Maraviglioso Boccaccio
id., 2015, Italia, 120 minuti
Regia: Paolo & Vittorio Taviani
Sceneggiatura non originale: Paolo & Vittorio Taviani
Liberamente basata sul Decameron di Giovanni Boccaccio (BUR)
Cast: Lello Arena, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini,
Flavio Parenti, Vittoria Puccini, Michele Riodino,
Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak,
Jasmine Trinca, Josafat Vagni, Eugenia Costantini,
Miriam Dalmazio, Fabrizio Falco, Melissa Anna Bartolini,
Camilla Diana, Nicolò Diana, Beatrice Fedi, Ilaria Giachi,
Barbara Giordano, Rosabel Laurenti Sellers, Niccolò Calvagna
Voto: 6.9/ 10
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Uomini, donne e maiali sono colpiti dalla peste nella desolante Firenze del 1348: c'è chi inala l'odore dei fiori per prevenire il contagio e chi, straziato dalla perdita dei cari, bacia le salme o ci si fa sotterrare insieme. Dieci ragazzi, tre maschi e sette femmine, di cui tre ree (ah ah!), con difficoltosa convinzione si isolano in una villa di proprietà non ben definita, fuori porta, per scampare alla malattia, per quindici giorni; si daranno ferree regole quali la castità (ma quali altre?) e si delizieranno a turno raccontando novelle. Le quali, sappiamo, sono cento – dieci al giorno per dieci giorni con un tema che le raggruppi quotidianamente, con un leader al giorno e ogni volta dieci voci; ma non avendo quaranta ore di pellicola a disposizione, i fratelli Taviani ne selezionano cinque e selezionano cinque dei loro giovani a novellar tra un desinare e l'altro. Affida a quasi tutti gli attori italiani viventi i ruoli di queste storie nella storia: Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio sono una malata sposata e un innamorato che la strappa alla morte; Kasia Smutniak una nobile, figlia di Lello Arena, vedova e infatuata di Michele Riodinio, fabbro di famiglia, per la cui morte si toglierà la vita; Paola Cortellesi badessa di un convento dove Carolina Crescentini e molte altre hanno preso i voti senza troppa devozione ma per spinta familiare; Josafat Vagni, il falconiere Federigo degli Alberighi, notoriamente perso di Jasmine Trinca è disposto a qualsiasi cosa per accontentarla, anche a diventar povero; ma è Kim Rossi Stuard, Chichibìo senza gru, che trae vantaggio da tutta questa farsa, impersonificando il matto del paese con tale spontaneità, con tale espressività di viso da farsi ricordare fino in fondo, nonostante sia uno dei primi ad apparire. Parallelamente ai più o meno intonati attori, a noi tutti noti quasi quanto gli episodi che interpretano, scorrono i momenti sociali di questi quindici giorni insieme per questi dieci ragazzi e ragazze che invece non conosciamo, rinchiusi in una villa: il bagno al lago, il pane da impastare, i difficili primi sonni. E scorrono completamente staccati dal resto, istrionici, esasperati: vengono gestiti come interpreti teatrali dalle eccessive movenze sul palco, dai balletti eseguiti per non accavallarsi o coprirsi. Qualcuno più, qualcuno meno, sono tutti sbagliati, e ne hanno colpa fino a un certo punto, com'è sbagliato il loro comparire e sparire a comando, seguendo una ordinata e poco coraggiosa scaletta. Se tre di tutti i loro personaggi arrivano all'improvviso inserendosi anche nella primaria narrazione, i Taviani avrebbero dovuto optare per una costruzione ancora più audace, che mescolasse i due mazzi di carte. Dopo l'Orso d'Oro berlinese per il capolavoro della nostra cinematografia Cesare Deve Morire non era facile tornare dietro la macchina da presa ed era quasi impossibile confermare quel successo (un Oscar per noi mancato); dal Giulio Cesare di Shakespeare affrontato in estremo sperimentalismo (attori trovati in un carcere, set che è il carcere stesso, versi declamati dentro alla prosa, bianco e nero e colori insieme) passano al Decameron di Boccaccio adagiandosi su una messa in scena tradizionale, addirittura a episodi e con attori di scuola teatrale. Fanno un passo indietro credendo di farne uno in avanti: raccontare dolori e gioie che attanagliano i giovani contemporanei ripescando manzonianamente dal nostro passato. Ci riescono artisticamente: i costumi (di Lina Nerli Taviani) sono, come le scenogafie, azzeccati nella loro essenzialità, totalmente privi di sfarzi, per un'ambientazione fatta quasi più di immaginazione, e le musiche (di Giuliano Taviani), sempre catastrofiche, apocalittiche, si susseguono nel loro preannunciare il peggio (La Masseria Delle Allodole era apice di questo aspetto) per poi inciampare nel penultimo Manon Lescaut. Un film che, volente o nolente, ci rappresenta su più aspetti.

martedì 1 aprile 2014

un amore perfetto.



Allacciate Le Cinture
id., 2014, Italia, 110 minuti
Regia: Ferzan Özpetek
Sceneggiatura originale: Ferzan Özpetek & Gianni Romoli
Cast: Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano,
Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Carolina Crescentini,
Francesco Scianna, Luisa Ranieri, Paola Minaccioni, Giulia Michelini
Voto: 6.9/ 10
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Gli anni Duemila: niente crisi e i caffè pagati in lire, la spensieratezza dei ragazzi che non pensano al precariato e gli studenti di Medicina che sognano la specializzazione all'estero come se fosse la più esotica delle fantasie. Lecce caput mundi, che splende nei fondali fuori fuoco di Ferzan Özpetek di nuovo, dopo Mine Vaganti, in terra salentina, ma questa volta senza imporre la (tremenda) parlata a nessuno dei suoi attori tranne Francesco Scianna che in Baarìa era siciliano. Viene da chiedersi perché tutta questa gente si sia spostata al Sud, tra toscani e napoletani e romani – aspetto surreale della commedia; non ne avremo risposta. In compenso ci viene regalato un primo pianosequenza da manuale: Kasia Smutniak cameriera al Bar Tarantola passeggia tra i tavoli e tra i colleghi Carolina Crescentini e Filippo Schicchitano le cui conversazioni ci fanno capire che: le ragazze sono fidanzate; la Smutniak sta con Scianna; la Crescentini non si sa con chi stia ma fa buon sesso; Scicchitano non sta con nessuno ma fa sesso occasionale con ragazzi conosciuti in chat – ed è lui il personaggio più riuscito del film, che incarna la solitudine del genere, l'amicizia fraterna non morbosa, l'incapacità di affrontare il dolore, la perenne speranza nel futuro. Usciamo dal locale che è già sera, e il locale è pieno. Prima di due ellissi molto ben fatte che caratterizzano un film altrimenti privo di nocciolo, la cui pecca più grande – oltre ad affrontare fiabescamente un paio di temi cari al film nostrano, soprattutto televisivo – è l'incapacità di incanalare un genere e restarci: si fa fresco calderone di giovinezze iniziali, di amicizie e condivisioni, di legami familiari surreali ma divertenti; poi si trasla e tredici anni dopo vede il problema dell'incomunicabilità di coppia che dopo Antonioni non dovrebbe toccare più nessuno, la crescita dei figli tra i litigi, l'assenza di lavoro, ma sempre accompagnati da uno stato di benessere (economico e affettivo) che ci fa stare un passo indietro dall'empatia. E poi ancora il dramma ospedaliero, la malattia che però non diventa mai invasiva, l'ironia di una compagna di stanza (immensa Paola Minaccioli) che ride della disgrazia – manco lei parla leccese. Effettivamente il preambolo era chiaro: raccontare un amore che non ha mai fine. E nei lassi temporali del suo formarsi, l'amore ha un velo di credibilità che poi perde, nonostante Francesco Arca faccia il lavoro al contrario: guadagna fiducia con lo scorrere dei minuti. Özpetek riprende il suo vecchio sceneggiatore Gianni Romoli (Harem Suare, Le Fate Ignoranti, La Finestra Di Fronte, Cuore Sacro, Saturno Contro) a cui aveva rinunciato per le ultime pellicole, ma non tocca grandi vette – a partire dal terribile e ingiustificato titolo. Riprende anche due aspetti a lui cari: le parenti pazze (Elena Sofia Ricci sempre uguale a se stessa e Carla Signoris sempre meravigliosa in qualunque ruolo) e i bambini dalla lingua lunga che più di tutti masticano gli errori della sceneggiatura (se avessi risposto così io, a mia madre, non avrei le dita per scrivere). Perde altre due cose a lui care: il cameo di Serra Yilmaz e la tavola imbandita. Vorrebbe affrontare i problemi mucciniani non dei trentenni ma dei quarantenni ma ogni tanto perde i pesi delle digressioni; alcuni personaggi scompaiono, alcuni sono troppo presenti. L'originalità del tema (e per una volta la musica!, dopo una serie di colonne sonore splendide – soprattutto quella di Andrea Guerra – continua il sodalizio col Pasquale Catalano di Mine Vaganti e Magnifica Presenza) non raggiunge il già imperfetto precedente film, sebbene il cast si faccia valere a partire dalla carinissima protagonista. Gli anni avanzano, ripeto, ma il migliore resta Un Giorno Perfetto.