lunedì 30 giugno 2014

il congresso futurista.



The Congress
id., 2013, Israele/ Germania/ Polonia/ Francia, 122 minuti
Regia: Ari Folman
Sceneggiatura non originale: Ari Folman
Basata sul romanzo di Stanislaw Lem
Cast: Robin Wright, Harvey Keitel, Jon Hamm, Paul Giamatti,
Kodi Smit-McPhee, Danny Huston, Sami Gayle, Evan Ferrante
Voto: 6.8/ 10
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Definito «un pasticcio» dal Corriere Della Sera, a cinque anni di distanza dal «ben lontano» Valzer Con Bashir il nuovo film di Ari Folman fa quest'operazione alla Roger Rabbit che mischia realtà e finzione tanto nel genere quanto nel modo – ma all'inizio non sa di pasticcio: Robin Wright è se stessa e vive in un hangar con due figli, la femmina adolescente ribelle al mondo e il maschio con problemi di udito, di vista, sogni di gloria nell'aerostatica, conoscenza mnemonica di grandi nomi del passato a partire dai fratelli Wright, con cui condivide uno dei nomi. Come sempre quando siamo dentro al meta-cinema, crediamo a tutto: che Robin Wright viva così, con questi figli, e che sia arrivata al declino della sua carriera; insultata per gli errori commessi, per «i fiaschi e le scelte sbagliate degli ultimi quindici anni», teniamo da una parte iMDB aperto e dall'altra ci sforziamo di ricordarcela prima di House Of Cards: è vero, la Jenny di Forrest Gump dov'è poi finita? (Risposta: tra le altre cose, nel capolavoro Nove Vite Da Donna). I ruoli-ghigliottina di cui si urla sono l'emblema della evanescente fama, della vita di Hollywood, della labilità con cui si affronta il successo; le viene proposto un ultimo contratto: farsi scannerizzare in modo da non dover più recitare sul serio ma essere infilata digitalmente nelle pellicole. Lei protesta: a quel punto non mi verrà chiesto il permesso di interpretare una nazista o un ebreo!, risposta: non te lo chiedono neanche adesso. La carne a cuocere è molta: la figura dell'agente pescecane, le regole commerciali dello star-system, l'importanza del ruolo, l'avvento in parte funesto del motion graphic, l'effettiva utilità dell'attore davanti all'animazione digitale. Senza molta altra scelta, accetta; e poi facciamo un salto di vent'anni. Il «pasticcio» arriva adesso: un'apocalisse cartoon che simula il grandioso congresso futurista in cui viene celebrata la figura simbolo della prima attrice scansionata e resa celebre da un genere che altrimenti non avrebbe mai fatto, la sci-fi. Secondo contratto: le viene chiesto di accettare di diventare liquido, composizione chimica bevibile, in modo da poter far vivere al fan l'esperienza di essere lei, di stare con lei, di avere lei. L'esaltazione è generale, la partecipazione variopinta: da Elvis e Gesù e Picasso (che si vedono su questo manifesto) a Tom Cruise parte attiva ridente e la voce di Jon Hamm su un personaggio che fa il lavoro dietro a tutto questo, l'animatore. È difficilissimo stare dietro alla trama, a questo punto: la realtà è divisa in due, quella fisica da una parte, fatta di povertà e cataclismi e mestieri comuni e cielo grigio e l'altra realtà, quella di allucinogeni e sogni, realizzata a caratteri digitali che permettono di far fiorire le persone, di far volare i pesci e i palazzi. In tutto questo, la ricerca spasmodica non più di se stessi, non più della propria identità, del proprio ruolo, ma di un figlio perso, che regala le immagini più poetiche e meglio riuscite, a partire dalla sequenza finale. Nel complesso, però, pare di assistere a un prodotto non finito, non completamente scritto né ordinato. Delle due abbondanti ore, la seconda è un effettivo «pasticcio» che aveva avuto buoni intenti e non li ha saputi collocare al momento giusto. È tutto da rimontare, alcune cose da rivedere, alcune figure da spiegare o eliminare. Gli avvenimenti perdono di logica e se la giustificazione a tutto questo sta nelle sostanze chimiche che la producono, grazie alle quali le persone riescono ad andare avanti, dall'altra parte è un peccato che un film così provocatorio (la Miramount Nagasaki?) esponga tutti questi temi utopistico-spinosi e poi si getti nel vortice dell'LSD.

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