mercoledì 3 giugno 2015

il branco.



The Tribe
Plemya, 2014, Ucraina/ Paesi Bassi, 132 minuti
Regia: Miroslav Slaboshpitsky
Sceneggiatura originale: Miroslav Slaboshpitsky
Cast: Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy,
Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko,
Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov, Alexander Panivan
Voto: 8.8/ 10
_______________

Dimenticate i genitori di Paula ne La Famiglia Bélier: prima che il film cominci veniamo avvisati: non ci saranno sottotiotli, né voice-over. Ma alla prima sequenza non ci accorgiamo dello scarto: i personaggi sono fermi a una pensilina e il traffico della strada copre ogni parola pronunciata. In quella successiva, ancora: un vetro ci separa da una cerimonia di inaugurazione, probabilmente, mentre un ragazzo e la sua valigia iniziano la permanenza in quel centro scolastico dove anche noi, adesso, ci rinchiuderemo. Dopodiché tutti, insegnanti, bidelli, alunni, tutti senza nome, parleranno il linguaggio dei segni, sordomuti per una volta non alienati nel contesto sociale, fatto di suoni e rumori, ma alienanti noi spettatori – abituati al cinema con una traccia sonora, un cinema fatto per essere sentito, oltre che visto, e invece veniamo catapultati nel silenzio (non totale) e soprattutto nell'impossibilità di decodificare i discorsi – a meno che non siamo padroni dei gesti – ma anche in quel caso l'interpretazione non sarebbe semplice: perché i segni cambiano da Paese a Paese e poi perché in certe inquadrature notturne, in certi campi troppo stretti o troppo ampi, neanche un sordomuto riuscirebbe a intravedere i movimenti. L'intento del regista Miroslav Slaboshpitsky (folgorante esordiente dietro la macchina da presa che sa tenere ferma con mano esperta, e mobile in pianisequenza interminabili e ben costruiti) non è quello di raccontare la condizione patetica dell'handicappato, quanto quello di scavare ancora più a fondo nella categoria, mostrando una tribù elitaria, una gang che ha bisogno di un leader, un branco. I ragazzi del centro educativo sono composti e impettiti davanti alle autorità la mattina, chi più chi meno come tutti gli studenti latentemente ribelli, e la sera si trasformano in papponi, magnacci, prostitute, teppistelli, ladruncoli senza neanche troppi vezzeggiativi: sono disposti a massacrare di botte il primo passante di portafogli munito per racimolare il tanto bramato denaro, e poi a massacrarsi fra loro, per vendicarsi di uno sgarro e dimostrare chi è il più forte che merita il comando. La poca credibilità delle prime scene di sesso o di mazzate viene annientata dalla crudezza estrema e lentamente perpetrata a cui siamo costretti mentre una ragazza abortisce clandestinamente da una mammana o un altro compie un piccolo genocidio. Abbandonato per sempre l'alone di pietà che circondava il disabile al cinema, la compassione per Forrest Gump, la sofferenza dell'esclusione di The Elephant ManThe Tribe si avvicina più a un altro Elephant, quello di Van Sant. Dice il regista: «è un mio vecchio sogno quello di rendere omaggio al cinema muto, fare un film che possa essere compreso senza che venga detta una parola. Non pensavo però a un certo tipo di cinema europeo “esistenzialista” in cui gli eroi stanno zitti per metà della durata del film. Anche perché gli attori non erano muti nei film muti. Comunicavano molto attivamente attraverso un'ampia gamma di azioni e di linguaggio corporeo». Infatti noi capiamo tutto: sentiamo anche tutto, tipo il camion che, avanzando, sta per investire uno dei nostri – ma poco importa. Tornati allo stato brado, allo stadio primitivo di Figlio Di Nessuno, il linguaggio anche gestuale non è importante: non è importante parlare o spiegarsi: è l'atto, animalesco, che si spiega da solo – in una tribù che di questo è fatto: legge ancestrale. E che in quanto tale si compie.

Nessun commento:

Posta un commento