sabato 13 giugno 2015

serpenti.



Vulcano
Ixcanul, 2015, Guatemala/ Francia, 93 minuti
Regia: Jayro Bustamante
Sceneggiatura originale: Jayro Bustamante
Cast: María Mercedes Conoy, María Telón,
Manuel Manuel Antún, Justo Lorenzo, Marvin Coroy
Voto: 7/ 10
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Orso d'Argento 2015
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Maria, persona e personaggio, è una diciassettenne figlia di coltivatori di un microscopico apprezzamento di caffè e di fagioli, di allevatori di maiali: appresso alla madre, fa ubriacare le bestie perché avvampate dall'eros procreino, poi le sgozza e le cuoce. Nell'anatomia dei suoi giorni che ci viene propinata, la vita si trascina insieme alla terra, ai serpenti che la abitano e la minacciano, agli uomini che cercano di scacciarli, alla paura con cui si affrontano. Immobile a guardare tutto, a giudicare tutto, a intervenire su tutto, se necessario, se ne sta il vulcano: una divinità naturale cui si devono offrire voti, cui si deve portare rispetto – una divinità per pochi, mai bazzicata da nessuno: vediamo, infatti, solo cenere terrosa e un paesaggio deserto, come deserti sono i luoghi che Maria e i suoi genitori abitano: un unico ragazzo, con il progetto di scappare alle spalle della montagna, rifarsi una vita negli Stati Uniti, dove ci sono le macchine e non si respira «l'aria del vulcano», un progetto che offusca Maria anche se è promessa in sposa a un altro, un uomo più grande, coi genitori partecipi. Nell'unico rapporto sessuale che si concede, la ragazza si ritrova incinta: la madre interviene divinatoriamente, procura un aborto che fallisce e decreta che la creatura dovrà vivere; intanto, il progetto di fuga e gli uomini svaniscono. La madre, colta da ancestrali ricordi, continua: «sei incinta e i serpenti non si avvicineranno, le tue mani guariranno le capre malate» e mette la figlia nella posizione di cavia su cui ogni esperimento fallisce, urlandole poi di non credere a tutto quello che viene detto. Siamo in una comunità microscopica, un microcosmo che si autogestisce inventandosi le regole e le leggi, le spiegazioni e i rimedi, confutandoli, aggrappandosi a ogni credenza con il beneficio del dubbio, senza il senso di colpa: parlano dialetto, in questa comunità guatemaltese, comunità indigena Maya Kaqchiquel, sono poveri e non hanno idea di come sia fatto il mondo; quando lo incontrano, alla fine, si scoprono tagliati fuori: impossibilitati alla comunicazione perché privi dello spagnolo delle istituzioni, impossibilitati alla mediazione perché affidati a un interprete poco ortodosso. Maria è un personaggio di Verga: qualcuno che nasce e cresce in un luogo a cui non si sente appartenere, e che quindi progetta di scappare, facendo solo il peggio per sé, affondando con la barca di lupini, trascinandosi dietro gli altri – che invece ce la fanno. Al suo debutto al lungometraggio, Jayro Bustamante (guatemaltese ma dalla formazione francese e italiana) torna dov'è cresciuto e filma i suoi ricordi d'infanzia con distacco, guardandoli da dietro la macchina da presa, senza nessun tipo di trasporto – patetico o giudicante – facendo un film di finzione che, causa anche assenza quasi totale di musica, sfiora il documentario. Agli stirati momenti iniziali, tirati nel loro niente e nel loro nulla, si contrappone il galoppante epilogo dove tutto corre, a partire dai personaggi, mentre la camera sobbalza: un contrasto tenuto insieme dai primi piani dei suoi protagonisti, María Mercedes Coroy in primis, scelta dopo un lungo lavoro di confronto tra il regista e la comunità indigena. Premio Alfred Bauer a Berlino 2015 come opera che «apre a nuove prospettive».

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