martedì 22 aprile 2014
il coro degli alpin.
Piccola Patria
id., 2013, Italia, 110 minuti
Regia: Alessandro Rossetto
Sceneggiatura originale: Caterina Serra, Alessandro Rossetto, Maurizio Braucci
Cast: Roberta Da Soller, Maria Roveran, Vladimir Doda,
Mirko Artuso, Nicoletta Maragno, Diego Ribon, Mateo Çili
Voto: 7/ 10
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Questo film ci respinge: l'incipit non si spiega, la seconda sequenza vola sui tetti (tremendi) del Veneto profondo – capannoni industriali e casolari e campi, la lingua è stretta e chiusa e masticata da pochi, la musica è dei monti, delle tradizioni tirolesi, dei cori alpini dialettali. L'inizio di questo film ci avvisa che se non apparteniamo a quel mondo, ci spingerà dentro. Eppure poi, quando la telecamera scende tra le strade spoglie e la gente vestita male, in pantaloncini rossi da tuta e ciabatte con le calze, sui parcheggi di brecciolina bianca, ci accorgiamo che siamo dentro a qualcosa vicino al quale siamo passati, almeno una volta nella vita: quegli alberghi in superstrada, quelle fontane circondate da cartelli pubblicitari pacchiani, incrostati, mai rimossi per anni, i mercatoni di arredamento un po' fuori città, i piccoli paesi che sembrano periferie di niente. Ecco, qui, nell'albergo a quattro stelle Anteres, lavorano Luisa e Renata, le due ventenni della locandina, praticamente schiave tuttofare dello stabile: servono ai tavoli, svuotano e puliscono le stanze dopo il check-out. Si divertono a raccattare gli oggetti dimenticati dagli ospiti borghesi e sognano di essere come loro, di avere «i schei» come loro, i soldi, la parola che più frequentemente ricorre nel film. Cercano (e trovano) modi per guadagnare perché devono evadere, scappare e (ri)fare una vita daccapo, lontano da questo non-luogo a metà tra la città delle architetture cementifiche e la campagna del pollame sgozzato vivo. I modi che trovano per fare soldi è ovviamente un modo estremo, di natura ovviamente sessuale; una si fa stringere in balletti alla Antonioni senza spogliarsi e l'altra usa il moroso (albanese) per incastrare in un threesome un rispettabile ometto da ricattare. Parallelamente, scorre la condizione sociale: la paura dello straniero, l'esaltazione della patria, della regione veneta, della lingua antica, la cacciata dell'immigrato, le colpe che il genere deve prendersi in caso di furto o incendio. Bilal, il fidanzato di Luisa, e i suoi amici non italiani, diventeranno il fulcro dell'odio della famiglia di lei, in una seconda metà del film che si fa shakespeariana, con una sfiorata morte sbagliata. A interpretare i tre ruoli sono Maria Roveran, la silenziosa Roberta Da Soller che pare uscita dalle CocoRosie e Vladimir Doda – tutti attori emergenti e sconosciuti perché il regista Alessandro Rossetto, stimato documentarista, non si voleva staccare da quel genere pur approdando al lungometraggio di finzione. Ma la finzione è minima: la storia, dice anche lui, poteva svolgersi in qualsiasi città – e salta alla mente la Puglia degli anni '90 pure minacciata, ma meno violentemente, dello sbarco degli albanesi. In questo caso, le finestre del cinema si aprono su questa terra e questa ci raccontano, nel dettaglio del documentario, nello scorrere normale della vita: i soldi che non bastano a pagar le bollette, gli stipendi troppo bassi rispetto alle mansioni, le liti tra amiche di poche parole, le perversioni degli adulti dall'impeccabile reputazione. Dopo una lunga introduzione descrittiva, però, il film si stacca da se stesso e (grazie a Dio) procede più spedito verso un finale da thriller. Il montaggio è molto buono, merito anche delle numerosissime riprese che permettono, con tanti stacchi, di dare brio alla cosa. Eppure. C'è qualcosa che non torna. Forse perché pare di trovarsi su una nuvola, un altrove che non c'è, una scenografia metafisica e, come gran parte del cinema italiano indipendente, che non si cura dell'estetica nelle scene o nella fotografia – le vicende di questi piccoli umani sono tanto credibili quanto impossibili all'empatia. Non ci appartengono, le vediamo dal di fuori, e quando il film finisce, non sono più affar nostro: lo stesso comportamento che abbiamo con lo straniero.
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