venerdì 25 maggio 2012
Cannes65 - Cosmopolis.
Cosmopolis
id., 2012, Canada, 105 minuti
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura non originale: David Cronenberg
Basata sul romanzo Cosmopolis di Don DeLillo (Einaudi)
Cast: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Paul Giamatti,
Mathieu Amalric, Samantha Morton, Jay Baruchel, Kevin Durand
Voto: 7.3/ 10
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Era dai tempi di Eyes Wide Shut che su una locandina non comparivano, così, così grandi, il nome dell'attore e del regista. Era scritto, là sopra, Cruise-Kidman-Kubrick ed era, quella, una vera collaborazione degna di caratteri cubitali (la coppia di attori era blindata sul set per infiniti giorni e ha collaborato alle scene). Qui succede che David Cronenberg, dopo nemmeno sei mesi dalla presenza a Venezia68 con il mediocre A Dangerous Method, condivide lo spazio sulla locandina con, pensate un po', Robert Pattinson, ormai impossibile da non associare al vampiretto della saga che grazie a Dio giunge al termine, e all'inizio questa cosa c'è sembrata impossibile, azzardata, una scelta non-da-Cronenberg. Ma poi succede che vediamo il film, ne capiamo il senso, e capiamo il senso di questa scelta: Robert “mascella” Pattinson è il Leonardo DiCaprio post-Titanic degli anni Duemila, il divo amato dalle ragazzette, idolatrato, pagato, coinvolto in progetti salvifici (tipo il pessimo Bel Ami) capace di vivere il dramma di questo personaggio, questo protagonista: Eric Packer, giovane miliardario economista conoscitore, esperto e ossessionato dai movimenti in banca e in borsa tanto da averne il dettaglio sui braccioli del sedile, si sveglia una mattina e lo vediamo su un marciapiedi accanto alla sua guardia del corpo, o autista, e sentiamo che gli dice che ha deciso di «aggiustarsi il taglio». L'autista gli risponde che non è il caso, che il presidente degli Stati Uniti è in città e la popolazione si sta muovendo in proteste, che ci sono attentati in previsione, troppa poca sicurezza, sarebbe meglio che un barbiere qualsiasi, o quello dell'angolo, venisse a lavorare in ufficio da lui. Ma no, Eric dice che il barbiere è un rito e lui, anche a passo d'uomo, ci deve andare. Si infila nella sua bianca limousine e da lì praticamente non si schioda: passano a trovarlo (senza mai capire come entrano e come escono) un suo amico esperto borsista, una prostituta (il premio Oscar Juliette Binoche in una veste insolita), una sua dipendente, il medico, un cantante amico di un altro cantante morto. E poi, sua moglie, con la quale per tre volte si ritrova a mangiare, che non mangia, la figlia di una famiglia di miliardari che ha deciso di non dargliela, di non fare sesso, che però sente l'odore di orgasmo che emana lui. Il giorno passa, i finestrini si anneriscono, fuori la gente è matta, trasporta topi giganti («ho letto in una poesia che il topo diventava la nuova moneta»), e quando finalmente arriva dal barbiere lui cosa fa?, lascia il taglio a metà, andando dall'uomo che vorrebbe ucciderlo.
Il meno noto libro di Don DeLillo (Premio Pulitzer per Underworld e massima penna americana del ventennio scorso) pubblicato in Italia da Einaudi (nel dettaglio qui) viene portato al cinema a tratti fedelmente e a tratti no, con tutti i dialoghi del genere e con la claustrofobia degli interni (eccetto qualche episodio, siamo sempre al chiuso). Il problema gigante del film è che annoia da morire. E la noia estenuante arriva perché, nonostante i continui botta e risposta affidati sempre a due personaggi in campo, la gente parla tutta allo stesso modo, tutta in modo tecnico, specifico, imprenditoriale, apocalittico, filosofico, irreale; ognuno pone domande senza ricevere risposta, o risponde con cose che non sono state chieste. E la prima cosa che insegnano, agli sceneggiatori, è che i personaggi non parlino tutti allo stesso modo, le prostitute come i banchieri.
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Essenziale, breve, ma incisivo: hai detto tutto quello che penso. Troppi dialoghi, poco, molto poco cinema, purtroppo. Buona serata!
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