domenica 23 settembre 2012
Venezia 69: Manoel De Oliveira.
Gebo E L'ombra
O Gebo E A Sombra, 2012, Francia/ Portogallo, 95 minuti
Regia: Manoel De Oliveira
Sceneggiatura non originale: Manoel De Oliveira
Basata sullo spettacolo teatrale omonimo di Raul Brandão
Cast: Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Janne Moreau,
Leonor Silveira, Ricardo Trepa, Luís Miguel Cintra
Voto: 5.9/ 10
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Alberto Pezzotta, giornalista cinematografico del Corriere, abbiamo capito che De Oliveira lo ama proprio. Oltre ad avergli dato un putiferio di pallini sul quotidiano per Singolarità Di Una Ragazza Bionda (che noi invece abbiamo approvato a malapena), nella presentazione che ha fatto di questo Gebo E L'ombra all'anteprima milanese si è proprio sprecato in complimenti: «De Oliveira, con incredibile lucidità, prende un testo del '29 e lo adatta; fa un film di economia e di personaggi che restano nella memoria, che va visto e rivisto, come Singolarità, apparentemente semplice ma in realtà molto profondo».
Allora, la profondità de La Ragazza Bionda noi ancora non la troviamo (lui si innamora di lei guardandola dal balcone, le chiede la mano, lavora per sposarsi, lei ruba un anello, lui la molla), e la profondità di questo film è ancora meglio nascosta: Gebo è un vecchio contabile che conserva una valigetta piena di denaro e un libro di fogli bianchi su cui scrive e riscrive conti e operazioni che appartengono a qualcun altro, a un'altra famiglia; l'“ombra” del titolo è suo figlio, si suppone, il ribelle João, che, indovinate un po', è il Ricardo Trepa del film precedente, scappato chissà dove e sempre presente nei dialoghi caserecci (sua moglie vive in quella casa). Nell'umile fine-ottocentesca dimora di Gebo una sera fanno capolino un paio di amici, per discutere della situazione moderna (contemporanea?) e del ritorno del figliol prodigo nei cui occhi si riconosce un velo di malvagità. C'è una lampada a olio, un centrino a uncinetto nel piatto di biscotti, una scenografia misera e claustrofobica che sono l'aspetto più apprezzabile del film insieme alle interpretazioni di Janne Moreau e Claudia Cardinale (elegantissime, lucide) a differenza dell'odiosa e istrionica Leonor Silveira che non sa mai dove guardare né dove tenere le mani.
Nonostante siano carne della stessa carne, Gebo e João sono il bene e il male, uno l'opposto dell'altro, e la scena finale ce lo dimostrerà, mentre invece servono a molto poco i surreali dialoghi, eccessivamente teatrali, eccessivamente profondi, tipici di chi fissa il vuoto e si auto-analizza.
Piuttosto che chiederci se si tratti di teatro filmato, se questo sia o no il film manifesto del regista portoghese (ma che gira in francese) come avevamo già fatto dodici anni fa per Ritorno A Casa (quando Manoel De Oliveira aveva novant'anni), dovremmo domandarci: è giusto considerare un film in base all'età di chi lo scrive e dirige? Certo, tanto di cappello: la sceneggiatura di partenza di Raul Brandão è ben diversa dal risultato cinematografico e dimostra la cultura a tutto campo di quest'uomo centenario, ma come consideriamo i film di Woody Allen belli o brutti a prescindere dalla carriera passata di Woody Allen, così dobbiamo considerare questo film a prescindere dall'età del regista. È certo una lezione di cinema per certi aspetti, per certe scene, come quella iniziale e illusoria (che è poi l'immagine della locandina), l'unica con luce vera e non artificiale, ma è anche un film d'altri tempi, di altri critici, di altri personaggi. Se già in Singolarità la storia era troppo esile, qua si fa esile e cervelloticamente insipida. Nonostante per la prima volta, a 103 anni, De Oliveira si abbassi all'uso del digitale.
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